Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
LE STORIE DI SARA, GIACOMO, GIORGIA, VINCENZA E LUCA, CINQUE RAGAZZI RACCONTANO LA LORO ESPERIENZA
C’è chi è partito in cerca di una prospettiva. Chi crede in un futuro in Italia e sta per tornare a casa, portandosi dietro esperienze. Chi non riesce a non farsi ogni giorno la stessa domanda: «Ne vale la pena?». Ogni anno il Primo Maggio diventa l’occasione per riflettere su ciò che non funziona nel mercato del lavoro italiano, fatto di bassi salari, poche tutele e prospettive di futuro quasi azzerate. Ogni anno la speranza è che questo giorno non sia solo un ricorrenza di frasi fatte, ma sia l’occasione per impegnarsi concretamente a far cambiare le cose. Per fare questo, partiamo dalle storie di cinque giovani, su cui il far west del mercato del lavoro pesa di più. Storie di ventenni e trentenni stanchi di sentire la retorica del sacrificio: giovani che hanno il coraggio di fare scelte per la qualità del loro lavoro, che vuol dire la qualità della loro vita.
Sara Della Rovere, 25 anni, praticante avvocato
«Siamo davvero dei professionisti che, per spiccare, devono vivere per lavorare?». Nonostante Sara Della Rovere una risposta a questa domanda ce l’abbia, le continua a rimbombare in testa tutti i giorni, combattuta dalla passione per il suo mestiere e le rinunce che le richiede. Una mattina di qualche settimana fa ha deciso di metterla nero su bianco su LinkedIn, con un post in cui ha raccontato la conversazione con una collega. «Se vuoi essere un ottimo avvocato, visto quanti ce ne sono – è la risposta che ha ricevuto dalla collega -, devi dedicarti completamente al lavoro, altrimenti rimarrai sempre mediocre». Ma per Sara, 25 anni appena compiuti, la qualità della vita di un bravo professionista non può essere misurata in ore passate alla scrivania.
Di origini friulane, si è trasferita a Milano durante gli studi universitari e per permettersi la vita nella metropoli più cara d’Italia ha sempre fatto «lavoretti – racconta -, dalla cassiera alla Lidl all’addetta alle vendite da Pandora». Finché, dopo la laurea in Giurisprudenza, non ha iniziato la pratica forense con il sogno di diventare avvocato. «Sogno che ogni giorno si scontra con una realtà fatta di compromessi e rinunce – rimarca -: la rinuncia a un equilibrio vita-lavoro, a dei ritmi di vita sostenibili, a un’indipendenza economica. Spesso, anche la rinuncia alla sanità mentale». Da Milano si è trasferita a Monza non solo per i costi ma anche perché lavorare in uno studio di periferia le permette di avere una vita che è quasi «un’utopia per il mio settore», commenta. La sveglia suona tutti i giorni alle 8 meno 15, alle 8 e mezza esce di casa per entrare in studio verso le 9. Lavora otto ore con una pausa pranzo di due che le permette alcuni giorni di andare in palestra. «Rispetto alle esperienze di miei amici ed ex colleghi, che non escono dall’ufficio mai prima delle 21 e fanno pranzi davanti al computer – spiega -, io ho preferito l’umanità».
Per i 18 mesi di praticantato percepisce un rimborso spese «attorno ai 400 euro». Una cifra che non le permette di mantenersi a Milano ma nemmeno a Monza. «Ad oggi è obbligatorio il compenso per legge – aggiunge – ma non viene stabilito un minimo: alcuni miei colleghi prendono 150/200 euro mensili, gli studi si giustificano dicendo che usciti dall’università non siamo una risorsa ma quasi un peso». Difronte a questa realtà «sono combattuta se quello che sto facendo sia effettivamente quello che voglio fare – conclude Sara -: questa prima parte di formazione è sicuramente la più dura e non aiuta il fatto che si tratti di una professione quasi satura. Quotidianamente mi chiedo se ne valga la pena. Poi i miei dubbi si risolvono in virtù di quella che è la passione per questo mestiere. Ma credo che sia necessario un intervento».
Giacomo Collini, 33 anni, ingegnere
Cinquantacinque. Quarantasette. A volte quarantasei. Giacomo Collini ha perso il conto delle ore che passava in ufficio a Bologna. Ma non è il tempo passato davanti a un computer o in macchina per raggiungere la sede di lavoro ad averlo fatto scappare in Germania. Ingegnere appassionato del suo mestiere, a 33 anni come tanti ragazzi guarda avanti, sogna. E in Italia, dice, è questo che manca: la prospettiva. Lo spiega riprendendo la metafora che usava il suo datore di lavoro: «Ci diceva di pensare a una partita di pallavolo in cui il nostro compito era buttare di là la palla. Dovevamo solo fare questo: buttare la palla di là. Non c’era pianificazione, non c’erano prospettive». Da settembre Giacomo si è trasferito a Dusseldorf con la sua compagna, dove tra lo stipendio più alto – «e il costo della vita è pari a quella di Bologna», sottolinea -, e le maggiori libertà – «la settimana lavorativa è di 37 ore» – riesce a immaginarsi un futuro. «Ci siamo interrogati sul tornare o meno a Bologna – confessa -, ma non rientreremmo mai per il solo sgravio fiscale, vorremmo anche lo stesso work/life balance che possiamo avere qua».
Originario di Ravenna, dopo aver fatto il muratore e l’elettricista durante il periodo scolastico, all’Alma mater di Bologna si è laureato in Ingegneria meccanica. Ha iniziato subito a lavorare per una multinazionale con sede sotto le Due Torri, con un contratto a tempo indeterminato «e un buono stipendio – riconosce -, per gli ingegneri è abbastanza la normalità». Per un anno e mezzo ha fatto il collaudatore, finché non è passato all’ufficio commerciale come specialista di prodotto. «Da lì è diventato un lavoro più gestionale e ho iniziato a fare le grandi trasferte: sono andato a Wuhan quando ancora nessuno la conosceva». Sono passati velocemente sei anni, in cui oltre il lavoro c’era poco spazio per dedicarsi ad altro. «Lavorando con l’Asia alle 8 di mattina c’erano già riunioni, poi il pomeriggio c’erano quelle con il mercato americano. La mia settimana lavorativa durava mediamente 48 ore». Si è trasferito da Bologna a Faenza quando ha incontrato la donna che sarebbe diventata sua moglie. «Ho fatto presente in azienda la necessità di fare un’ora di macchina all’andata e al ritorno tutti i giorni – ricorda -, mi è stato risposto che l’auto aziendale non me l’avrebbero data, ma che ci sarebbero state possibilità di carriera. Promesse non mantenute e da lì ho iniziato a guardarmi intorno».
Dopo lunghe settimane passate a mandare curricula, da un cliente è arrivata la proposta di trasferimento in Germania. Accettata dopo mesi di ripensamenti. Da settembre Giacomo vive a Dusseldorf e la sua vita è stata stravolta, in senso positivo. «Qui la settimana è di 37 ore, il venerdì pomeriggio è libero. Non ci sono orari standard, basta rientrare nel bilancio delle ore annuali – spiega -. Se esci 10 minuti prima non devi chiedere un permesso, se ritardi non ti devi giustificare. Tutta questa libertà mi ha sconvolto: non ce l’avevo mai avuta». Non solo. «Ci sono tanti servizi per le famiglie e agevolazioni per i giovani- aggiunge -. Il mercato del lavoro italiano è senz’altro disallineato rispetto alle aspettative delle persone: non puoi offrire mille euro al mese perché la vita adesso ha un costo elevato – sottolinea Giacomo -. Ma oltre a un problema di stipendi, manca la garanzia di un futuro». Quell’auto aziendale a Dusseldrof è arrivata. «Quello che in Italia ci sembrava impossibile, qui è automatico».
Giorgia Vezzani, 27 anni, specialista di sostenibilità ambientale
«Sono tornata a Copenaghen e …piove». Sono passati quattro anni ma Giorgia Vezzani, 27enne di Reggio Emilia, non si vuole abituare. Il brutto tempo, il sole che da novembre a marzo sorge alle 8 e tramonta alle 15, uscire di casa nel buio e rientrare nel buio. Si è trasferita in Danimarca nel novembre del 2019, dopo una laurea magistrale in Economia dell’ambiente. A Copenaghen «la mancanza di sole si fa sentire», insiste, ma si è costruita una vita che in Italia sarebbe difficile da immaginare. «Non mi piace dire che sono i Paesi più felici al mondo perché non penso sia così – sottolinea -, ma come indicatori di benessere sono sempre in alto. Qui c’è la consapevolezza che abbiamo diritto a una vita oltre al lavoro». Se alla pioggia non ci si abitua, alla libertà sì. E ora che sogna di tornare in Italia non nasconde di avere qualche timore: «La mia paura è lavorare per sopravvivere – confessa -. Qua ho trovato una qualità della vita elevata e la libertà economica, ma l’amore per la mia famiglia e per i miei amici di una vita non può essere sostituito».
Ancora prima di avere una laurea in tasca, in Danimarca Giorgia ha percepito uno stipendio di disoccupazione che le ha permesso di mantenersi finché non ha trovato lavoro come specialista di sostenibilità ambientale da Postnord, «l’equivalente delle Poste Italiane in Danimarca – spiega -. Sono responsabile di calcolare la co2, cercare di capire come ridurre le emissioni e aumentare la sostenibilità aziendale». La settimana dura 37 ore: lavora dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 16.30, con pause pranzo di mezz’ora. Un orario che le permette di non rinunciare ad allenarsi per il triathlon, vedere gli amici e il fidanzato. «Ognuno si organizza come vuole – spiega – perché si può scegliere a che ora iniziare a lavorare: c’è chi attacca alle 7 ed è libero alle 14.30». Non c’è bisogno di permessi né di giustificazioni. «Se devo andare dal medico me lo lasciano fare, se voglio lavorare da casa posso farlo sempre – chiarisce -. La differenza tra la società danese e quella italiana è che la prima è basata sulla fiducia e sembra funzionare».
A farla desistere finora dal rientrare in Italia sono state anche quelle che definisce “storie horror” raccontate dagli amici. «Ho amiche che attaccano alle 9 e finisco tra le 20 e le 21. E viene dato per scontato. In Italia sembra che il datore di lavoro ti faccia un favore ad assumerti, mentre in Danimarca sei tu a fare un favore al datore e tutto viene incentrato sul tuo benessere. La mia paura è tornare e lavorare per sopravvivere, e con lo smart working che sembra essere una concessione divina». Paura colmata dalla mancanza della famiglia e degli amici, che l’ha spinta a decidere in ogni caso di rientrare nel 2024. «Sono consapevole che tornerò in un ambiente dove avrò uno stipendio più basso e delle condizioni lavorative peggiori, ma desidero fare una professione che mi permetta di dare indietro quello che ho imparato qui. Mi sono state date delle opportunità lavorative che credo che non mi sarebbero mai state date in Italia. Aumentare gli stipendi è importante, ma fidarsi dei propri lavoratori lo è ancora di più».
Vincenza Giglione, 32 anni, copywriter
«Ci viene detto che non siamo più disposti ad accettare certe condizioni di lavoro. E perché dovremmo?». Vincenza Giglione, originaria di Camporeale, un paesino di nemmeno 3mila abitanti in provincia di Palermo, sintetizza i suoi 32 anni come uno «zigzagare da un lavoro all’altro, da una città all’altra, da un Paese all’altro». Dopo una laurea a Milano, due tirocini, diversi lavori come copywriter e una parentesi a Cambridge per un master, è tornata a Catania. «Ho sempre percepito il tornare in Sicilia come un fallimento», confessa. Invece per lei la pandemia non ha solo cambiato le priorità ma le ha anche dato il tempo di cambiare prospettiva. «Vivere a Milano significava una vita con la data di scadenza, non vedevo un futuro – ricorda -. Il Covid ci ha fatto notare le storture del sistema in cui siamo, ci ha ricordato che non esiste solo il lavoro e, a me, che non esistono solo le grandi città».
Nel capoluogo lombardo è arrivata per studiare Lettere moderne all’Università. Poi, con la laurea in tasca, è volata a Cambridge per un master in Editoria. Qui si è affacciata al mondo del lavoro con il primo stage in una piccola casa editrice e poi, rientrata a Milano, con il secondo nell’ufficio comunicazione di un’università. Zigzagare sì, ma a Vincenza non è mai mancata la voglia di mettersi in gioco che l’ha portata, rimborso spese dopo rimborso spese, a ricevere la prima offerta di lavoro come copywriter: «È stata un’esperienza positiva – ricorda -, anche se avevo un contratto che si rinnovava ogni 6 mesi, vivevo con l’ansia di restare a casa». Senza mai darsi per vinta ha cambiato agenzia, «un’esperienza terrificante – spiega -: si è conclusa con una causa legale contro il nostro datore di lavoro. Siamo rimasti a casa da un giorno all’altro con modalità da film». Ricorda la vita Milano come «alienante»: «Bisogna sempre correre e chi si ferma è perduto. Anche se sono arrivata in un momento in cui i prezzi degli affitti non erano ancora così folli, non mi permetteva di ragionare in prospettiva, non riuscivo a mettere niente da parte».
La pandemia l’ha aiutata a rivalutare alcune scelte e, nell’estate dopo la prima ondata, è tornata nella sua Sicilia, ha aperto una partita Iva ed è diventata freelance. Ora lavora come copywriter e traduttrice, porta avanti un progetto musicale come cantante e vive con il mare sullo sfondo. «È troppo facile dire che noi giovani non abbiamo voglia di fare – conclude -. Non è così: io incontro persone che hanno come fine la soddisfazione personale ma anche la volontà di creare valore nella società. Ci viene detto che non accettiamo certe condizioni di lavoro ed è giusto che sia così: la gavetta la facciamo tutti, accettiamo rimborsi spese in cambio di formazione, ma a un certo punto se una persona pur di lavorare deve farsi pagare dai proprio genitori non credo sia normale. È sfruttamento”.
Luca Altimani, 29 anni, freelance esperto di comunicazione
Manda un curriculum e passano giorni. Presto diventano settimane, mesi. Luca Altimani ricontrolla il curriculum. Forse qualcosa non funziona, perché nessuno lo chiama nemmeno per un colloquio. Tra le esperienze principali ci sono più di tre anni come amministratore di “Commenti memorabili”, una pagina che interpreta con ironia le notizie del giorno seguita da oltre tre milioni di persone solo su Instagram. «Ho delle potenzialità», riflette. Eppure la conclusione è una: «Il mondo del lavoro non mi vuole». A raccontare come ci si sente quando devi essere «selezionato da qualcuno» è un 29enne di Carmagnola, freelance della comunicazione ed esperto di social media.
«Nella mia vita non ho mai avuto voglia di lavorare finché non ho trovato qualcosa che mi piacesse fare», ammette. Dopo aver lavorato in un negozio di abbigliamento e aver fatto l’agente immobiliare per un anno, la svolta è arrivata quando il fondatore di “Commenti memorabili” l’ha chiamato per entrare a far parte del team: «Si era accorto – spiega – che i miei commenti venivano sempre selezionati». Si è buttato in quella avventura senza avere esperienze da social media manager alle spalle e sono passati velocemente tre anni, tra ufficio e smart working. «Un giorno mi sono detto che volevo giocare da libero battitore», ricorda. E così ha chiuso il computer per un anno. Ha viaggiato e ha provato a fare il falegname, finché non gli è tornata la voglia di ricominciare da capo. «Ho iniziato a mandare curricula nel mondo del digital, avevo un’esperienza positiva alle spalle e credevo di trovare piuttosto facilmente un normale lavoro che mi permettesse di portare a casa un normale stipendio. Invece nessuno mi contattava».
Sono passati tre mesi, che poi sono diventati sei e velocemente otto. Un periodo che a Luca è sembrato infinito. «Ho fatto due colloqui su chissà quante candidature presentate. Mi sentivo male: un lato di me sapeva che avevo delle potenzialità ma dall’altra parte mi dicevo che il mondo del lavoro non mi voleva. Ero a terra». Si è persino presentato al Comune di Carmagnola per chiedere come poter trovare un’occupazione: «Mi hanno consigliato di creare il cv in formato europeo – spiega -, ma neanche questo è servito». Si è iscritto a LinkedIn su consiglio della sua compagna. «Mi sono creato un profilo standard, con la foto con la camicia e dei libri di business sulla mensola per fare capire che ero uno sveglio – ironizza -, mandavo solo candidature ma non funzionava. Finché mi sono detto “quello non sei tu” e ho ricreato tutto per come sono davvero».
Ha riorganizzato il profilo in modo che lo rispecchiasse e, in chiave ironica, ha iniziato a scrivere post prendendo in giro lo stesso mondo del lavoro che sembrava non accettarlo. «Le persone hanno iniziato ad avvicinarsi – racconta -, così come le aziende. Sono diventato un freelance, ho diversi clienti che vogliono qualcuno che segua la comunicazione in modo non istituzionale, faccio formazione e seguo eventi». Non nasconde l’emozione: «Ho capito quanto fosse importante non adattarsi a un sistema e mantenere la mia identità. Ora è come se avessi vinto al lotto».
(da La Stampa)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
DISTRUTTI OLTRE 10 SERBATOI DI PRODOTTI PETROLIFERI RUSSI, INCENDIO MOLTO VASTO
Gli 007 di Kiev esultano e parlano di punizione di Dio per Uman
L’esplosione e il conseguente vasto incendio di un deposito di carburante a Sebastopoli è «la punizione di Dio, in particolare per i civili uccisi a Uman, tra i quali ci sono cinque bambini».
Lo ha detto Andriy Yusov, rappresentante del Gur, il servizio di intelligence del ministero della Difesa dell’Ucraina, come riporta Rbc Ukraine.
«Questa punizione sarà di lunga durata. È auspicabile affinché tutti i residenti della Crimea temporaneamente occupata non siano vicini alle strutture militari nel prossimo futuro», ha detto ancora Yusov, aggiungendo che nell’esplosione di Sebastopoli sono stati distrutti più di 10 serbatoi con prodotti petroliferi. La loro capacità totale è di circa 40 mila tonnellate. I prodotti petroliferi erano destinati alle esigenze della flotta del Mar Nero della Federazione Russa.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
MENO SOLDI PER I POVERI, PIU’ QUATTRINI ALLE IMPRESE, SI RIDUCE LA PLATEA DEGLI AVENTI DIRITTO
La lotta della destra al reddito di cittadinanza volge al termine: tagli e modifiche si erano già visti con la Manovra, così come la propaganda contro i percettori del sussidio, che ha impegnato a lungo il dibattito pubblico, sbeffeggiando i più poveri e facendo un favore agli sfruttatori. Ora arriva però il decreto Lavoro del governo Meloni, che, tra diversi temi, tratta anche delle nuove misure contro la povertà, tra cui la Garanzia per l’Inclusione. Il paradosso è che le norme delineate dall’esecutivo ricalcano quasi del tutto quelle del decreto 4/2019, che istituiva il Reddito di cittadinanza: la nuova misura conserva (e in parte riesce persino a peggiorare) i difetti dell’originale, eliminando però gli elementi di dignità che il sussidio contro la povertà aveva introdotto. Vediamo come.
GPI, PAL, GAL: nuove sigle per un’elemosina di Stato
Le nuove misure governative confermano le modifiche già introdotte con la manovra: meno soldi, riduzione della congruità delle offerte, più incentivi alle imprese. In particolare, il decreto lavoro prevede tre diversi sussidi: la Garanzia per l’Inclusione (GPI), la Prestazione di Accompagnamento al Lavoro (PAL) e la Garanzia per l’Attivazione Lavorativa (GAL).
La PAL è destinata a coloro che percepivano il reddito di cittadinanza, sebbene con importanti riduzioni di importo, dal momento che l’indennità ammonta a 350 euro al mese per ogni richiedente, comunque entro il limite annuo di 6.000 euro, moltiplicati per la scala di equivalenza, per nucleo familiare. La GAL è invece destinata a persone in condizioni di povertà assoluta, con un ISEE inferiore a 6.000 euro all’anno: l’indennità ammonta a 350 euro al mese, con la possibilità, per un solo altro componente del nucleo familiare, di richiedere l’indennità, che però sarà di soli 175 euro al mese. Una famiglia in povertà assoluta potrà ambire, al più, a 525 euro al mese. Non un euro di più.
Ma è la Garanzia per l’Inclusione la misura centrale del decreto governativo, che come anticipato ricalca la struttura del RdC. La platea dei possibili beneficiari di questo nuovo sussidio, però, è molto ridotta. Già nelle discussioni degli scorsi mesi si escludevano gli occupabili (che dovrebbero cercarsi da soli un posto di lavoro, secondo il sottosegretario Durigon) e i giovani privi di titolo di studio non iscritti a corsi di formazione, ma la proposta del governo Meloni va oltre. La Garanzia per l’Inclusione sarà infatti erogata solo ai nuclei familiari che abbiano almeno un componente con disabilità, o minorenne, o con almeno sessant’anni di età, o un soggetto a cui sia stata riconosciuta una patologia che dà luogo ad assegno per l’invalidità civile. Non solo. I nuclei familiari a cui spetta il nuovo sussidio saranno più poveri di quelli assistiti con il RdC: se in origine la soglia ISEE era di 9.360 euro, ora scende a 7.200.
I favori agli sfruttatori e alle imprese, tra incentivi e decadenza dal sussidio
Di contro, aumentano gli incentivi alle imprese e, oltre a questi, anche la manovalanza ricattabile per gli sfruttatori.
Ma partiamo dai favori alle imprese. Come in molti casi, anche con le misure di sostegno alla povertà e di politica attiva del lavoro sono previsti incentivi alle imprese che assumono, sotto forma di decontribuzione: in altri termini, assumendo un percettore di indennità (ma anche altre categorie di lavoratori), i contributi sono pagati dallo Stato, invece che dall’impresa (e dai lavoratori).
Nel caso del reddito di cittadinanza, i datori di lavoro che assumevano i percettori a tempo pieno e indeterminato potevano contare sull’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per massimo 18 mensilità, entro il limite dell’importo dell’indennità percepita dal lavoratore; nella nuova misura del governo Meloni, entro il limite di 8.000 euro annui, a chi assume, anche a tempo parziale, è riconosciuto l’esonero dal versamento del 100% dei complessivi contributi previdenziali, per un massimo di 24 mensilità.
C’è però un’altra modifica che non favorisce solo le imprese, ma soprattutto gli sfruttatori. Già con il RdC era prevista la decadenza in caso di rifiuto di tre offerte di lavoro congrue, ossia proposte che avessero una certa coerenza con la formazione e le esperienze maturate, e con un’attenzione alla distanza dal domicilio: l’ultima offerta poteva arrivare dall’intero territorio nazionale, ma la prima doveva essere entro un raggio di 100 km. Con la Garanzia per l’Inclusione (che, è il caso di ricordarlo, è dedicata solo a chi abbia in famiglia persone con disabilità, o minori, o anziani) non c’è alcun riferimento alla collocazione geografica dell’offerta di lavoro, e l’intero nucleo familiare decade di diritto dal beneficio nel caso in cui un componente non accetti una qualunque proposta, anche a tempo determinato, anche in somministrazione, di durata non inferiore a un mese.
Tra l’altro, contrariamente alle critiche sulla scarsa efficacia della precedente misura nel trovare un lavoro ai percettori, e nonostante le (pur vaghe) proposte della ministra Calderone, non ci sono particolari novità in termini di politiche attive del lavoro: il collocamento dei disoccupati resta un problema irrisolto.
Controlli e sanzioni tra cultura del sospetto e repressione
Resta poi quasi del tutto invariato l’impianto giustizialista già presente nel decreto del governo gialloverde: copiando quasi alla lettera i predecessori, il governo Meloni considera reato le dichiarazioni false (da due a sei anni di carcere) e l’omessa comunicazione di variazioni del reddito “anche se provenienti da attività irregolari” (da uno a tre anni), a cui si aggiunge la revoca retroattiva con restituzione di quanto percepito.
Nel decreto sul RdC, inoltre, era prevista la decadenza anche in caso di condanna in via definitiva (o patteggiamento) per i reati di truffa aggravata, strage, terrorismo, mafia. Già questa previsione era discutibile sul piano sociale, dal momento che, se lo scopo di un sussidio è la lotta alla povertà (e non la repressione dei reati, per cui esistono già le pene), il bisogno è bisogno a prescindere dalla fedina penale, e le condanne che dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato, non alla sua perenne stigmatizzazione sociale ed economica, con un impatto sull’intero nucleo familiare (come sia possibile per un figlio di camorrista discostarsi dal suo destino, se le colpe dei padri continuano a ricadere sui sussidi alla famiglia, è un mistero).
Il governo Meloni inasprisce ulteriormente quest’impianto già abbastanza punitivo. La decadenza non è limitata ai gravi delitti di mafia e terrorismo o a quelli relativi alle truffe, in un certo senso legati all’erogazione di sussidi, ma si allarga a qualunque delitto non colposo che comporti l’applicazione di una pena non inferiore a un anno di reclusione.
A questo si aggiunge anche la sospensione dal sussidio in caso di condanne non definitive o di misure cautelari o persino di misure di prevenzione, ossia restrizioni imposte non per la commissione di delitti, ma in base a un giudizio di pericolosità.
C’è poi anche una sospettosa attenzione ai controlli: i Comuni, come anche in precedenza, devono procedere alla verifica dei dati, incrociando le dichiarazioni rese con le informazioni anagrafiche in loro possesso, ma a questa vigilanza si aggiunge la minaccia di responsabilità amministrativo-contabile, e disciplinare, nei confronti di chi non scopra fatti suscettibili di dar luogo a revoca o decadenza dal sussidio
Persone di serie A e di serie B: la discriminazione della povertà
Restano poi intatti i problemi di discriminazione, e di esclusione sociale, che già c’erano con il reddito di cittadinanza. Sebbene infatti la misura abbia sostenuto nel 2022 1,7 milioni di famiglie, per un totale di 3,6 milioni di individui, il dato dell’anno precedente sulle persone in povertà assoluta è ben più alto: 5,6 milioni, a cui si aggiungono gli 8,8 milioni di individui in povertà relativa secondo i dati Istat del 2021. La realtà, insomma, nonostante le critiche, è che il reddito di cittadinanza non era troppo: piuttosto, non era abbastanza.
C’è poi un elemento discriminatorio, sia rispetto all’accesso alla misura, sia per la documentazione richiesta agli extracomunitari aventi diritto: il RdC era infatti per cittadini italiani o dell’UE, mentre per i cittadini di paesi terzi era richiesto il permesso per soggiornanti di lungo periodo, con residenza in Italia negli ultimi 10 anni. Inoltre, per ottenere il sussidio, allo straniero è richiesta la produzione di un maggior numero di documenti, con certificazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, tradotta e legalizzata dall’autorità consolare italiana.
Si potrà dire, ignorando il diritto antidiscriminatorio, “prima gli italiani!”, ma si avrebbe torto. L’esclusione degli stranieri, ma in generale delle persone, ha un impatto sulla società, perché la miseria non è un fatto individuale, ma una questione collettiva: la povertà, oltre a poter avere conseguenze criminogene (spingendo le persone a commettere reati per sopravvivere), rende ricattabili, specie sul luogo di lavoro, e soprattutto le persone straniere, dal momento che la mancata accettazione di condizioni di lavoro degradanti può comportare la perdita del posto e, con esso, del permesso di soggiorno.
Ovviamente, questa disparità di trattamento (che in casi simili è stata dichiarata discriminatoria nei tribunali) è rimasta invariata nella politica sociale del governo Meloni.
ll “beneficio”: il paternalismo della concessione contro la garanzia dei diritti
C’è infine un problema lessicale che ricorre spesso nelle norme su indennità e misure sociali, ed è lo slittamento concettuale dall’erogazione al “beneficio”. Sia il reddito di cittadinanza, sia le indennità previste dal governo Meloni, sia i precedenti sussidi sono definiti con questo termine che, in sé, potrebbe anche essere neutro. Quando però la scelta terminologica si accompagna a una strategia politica paternalista e punitiva, che, pur promettendo di superare la povertà, la affronta sempre con un approccio colpevolizzante, la concezione dello stato sociale diventa assistenzialista, simile a quella già vista in altre epoche: chi è in difficoltà si ritrova a dover intraprendere un percorso a ostacoli, in cui viene considerato nullafacente e parassita, trattato con sospetto, espulso dall’economia legale e dall’assistenza pubblica se ha la sventura di un familiare condannato (o anche solo indagato), il tutto per poche centinaia di euro al mese, per qualche mese, e con l’obbligo di accettare anche offerte tutt’altro che congrue.
La povertà affrontata politicamente in questo modo diventa allora tanto uno strumento di consenso quanto di controllo sociale, con cui si raccolgono i voti dei disperati, nella speranza di un’elargizione pubblica, ma li si tiene nella precarietà esistenziale di chi non sa se la nuova carta arriverà all’ufficio postale, se l’Inps risponderà alla domanda, se i conteggi del patronato sono giusti, e che davanti a queste preoccupazioni può vivere solo giorno per giorno, senza occasioni di solidarietà collettiva né di elaborazione politica.
La parola “beneficio”, che ricorre in queste norme sul margine tra assistenzialismo e paternalismo, ricorda molto la beneficenza, un concetto ben diverso dalla solidarietà su cui dovrebbe reggersi la nostra socialdemocrazia. La beneficenza è un atto di generosità che lascia intatte le disparità di partenza: chi ha di più, liberamente, concede a chi ha di meno, che riceve e ringrazia, ma che non può lamentarsi se il benefattore smette di donare. La solidarietà, invece, ha un respiro collettivo, è un dovere e un diritto, coinvolge tanto chi tende la mano quanto chi ha bisogno di aiuto, che è parte attiva e protagonista del miglioramento delle proprie condizioni, personali e sociali, e che è anche in grado di comprendere che l’uguaglianza sostanziale non è un regalo da parte dei ricchi, o delle imprese, o dello Stato: è un diritto, non un favore.
(da Fanpage)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
LA STORIA DI ISMAELE, IL NEONATO DI POCHI MESI CHE HA PERSO LA MAMMA
La scorsa notte un barchino è affondato in zona Sar italiani. A bordo viaggiavano 46 persone, tra cui anche un neonato. Ma sua madre risulta dispersa. La Guardia costiera la sta cercando, insieme ad altre due persone, ma con il passare delle ore si fa sempre più lieve la speranza di poterla trovare viva. Il piccolo si chiama Ismaele e ha solo pochi mesi. Nella notte a prendersi cura di lui sono stati i poliziotti in servizio all’hotspot.
“Ismaele è al sicuro nelle braccia dei suoi “zii” poliziotti della questura di Agrigento. Si sono presi subito cura di lui e lo hanno coccolato in attesa che una famiglia possa presto donargli l’amore di cui ha bisogno”, ha scritto la Polizia di Stato nel suo account Twitter, condividendo uno scatto del piccolo in braccio ad alcuni agenti.
Il piccolo, dopo essere stato salvato ieri, è stato visitato da un pediatra. Sta abbastanza bene, ma della madre ancora non si hanno notizie. In tutto sono tre le persone ancora disperse. Viaggiavano su un barchino di sette metri, che però in zona Sar italiana si è rovesciato, per poi affondare. Gli altri naufraghi, tra cui sette minori, sono stati salvati dai militari della Guardia costiera. Hanno raccontato di essere partiti da Sfax, in Tunisia. Provengono da Guinea, Costa d’Avorio, Camerun e Gambia.
Una motovedetta della Guardia costiera ha intercettato l’imbarcazione in acque Sar italiane. Avrebbe dovuto essere un’operazione di soccorso come tante altre. Una volta agganciato, sono stati subito trasferiti dal barchino di metallo alla motovedetta i bambini, tra cui appunto il piccolo Ismaele. Subito dopo però, forse a causa dello spostamento di tutte le persone a bordo verso la motovedetta, il barchino si sarebbe sbilanciato, rovesciandosi. In 39 sono caduti in acqua: 36 persone sono state subito ripescate, ma tre sono sparite tra le acque. Tra queste anche la mamma di Ismaele.
È l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo. Nei giorni scorsi, nel giro di nemmeno dieci ore, ben quattro barchini si sono ribaltati. I dispersi sono 17, due cadaveri sono stati recuperati immediatamente. Alcuni giorni fa la Guardia costiera ha rinvenuto i corpi di altre due donne al largo delle Pelagie: erano morte in naufragi precedenti.
Chi riesce ad arrivare, viene trasferito all’hotspot di Lampedusa, ormai pienissimo da mesi. Qui alcuni funzionari della questura di Agrigento che erano di turno, una volta arrivato Ismaele, hanno comprato latte, pannolini, un paio di giochini per neonati e una crema per le gengive, perché il piccolo sta mettendo i dentini.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
LO SCORSO ANNO IL COMPENSO MEDIO ORARIO DI UN LAVORATORE ITALIANO È AUMENTATO SOLO DEL 2,3% MENTRE I PREZZI AL CONSUMO SONO SALITI DELL’ 8.2%
Le banche centrali sono preoccupate che la rincorsa fra prezzi e salari alimenti l’inflazione in Europa. In Italia possono stare tranquille: la gara non è mai cominciata. E in Italia il distacco sta aumentando. L’anno scorso il compenso orario medio è cresciuto del 2,3% in Italia, il dato più basso dell’Unione europea, e nell’arco del triennio 2019 e 2022 l’incremento è stato inferiore al 3%.
In Italia, assenti meccanismi di indicizzazione all’inflazione, gran parte degli stipendi sono fermi al palo. «C’è un problema salariale grande come una casa», ha tuonato il segretario della Cgil, Maurizio Landini.
I dipendenti pubblici non sono gli unici a sperare in un nuovo accordo collettivo che consenta il recupero di almeno parte del potere di acquisto perso negli ultimi tempi. La Cgil calcola che a marzo dei 188 contratti firmati dalle sigle Confederali 112 risultano attualmente scaduti, il 61%. Nel complesso, 7 milioni di lavoratori italiani sono in attesa di un rinnovo, un’attesa che si protrae in media per quasi due anni ma che per un quarto dei contratti supera i quattro anni.
Spesso si tratta di categorie di lavoratori poco sindacalizzate o attive in settore in crisi, dove il potere negoziale delle maestranze è inferiore. Secondo l’Istat, i lavoratori di edilizia, commercio, farmacie private, pubblici esercizi e alberghi non hanno ottenuto incrementi salariali nell’ultimo anno. Hanno invece beneficiato di incrementi significativi i vigili del fuoco (+11,7%), dipendenti dei ministeri (+9,3%) e del servizio sanitario nazionale (+6,4%).
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
PER RAGGIUNGERE LA MEDIA EUROPEA L’ITALIA DOVREBBE IMPIEGARE 433.000 DONNE IN PIU’
Nelle regioni del Sud Italia, meno di una donna su tre lavora. Lo rileva uno studio di Confcommercio sull’occupazione femminile, che mette in luce ancora una volta non solo il gap tra le diverse regioni italiane ma anche quello tra l’Italia e il resto dell’Europa.
Al Sud il tasso di occupazione delle donne è del 29,9%, mentre al Nord la percentuale sale al 52%.
A livello nazionale i dati non sono certo più incoraggianti: in Italia il tasso di occupazione delle donne è del 43,6% contro una media europea del 54,1%.
Una differenza molto più marcata rispetto al dato sugli uomini, dove il gap tra l’Italia (60,3%) e il resto dei Paesi Ue (64,7%) è di solo quattro punti percentuali. Se la disoccupazione femminile, oggi pari all’11,1%, «venisse portata alla media europea, che si attesta al 7,2%, l’Italia avrebbe 433mila donne occupate in più», spiega Confcommercio.
Le opportunità del terziario
Le maggiori opportunità di lavoro per le donne sono concentrate nel settore terziario di mercato. È lì che lavora il 75% di chi ha un contratto di lavoro dipendente, di cui più di due terzi a tempo indeterminato. «Il terziario di mercato è il settore scelto da sette donne su dieci che decidono di fare impresa, ma è anche il settore dove vi sono le maggiori opportunità di occupazione femminile» spiega la presidente nazionale del gruppo Terziario donna Confcommercio, Anna Lapini. Secondo l’associazione di categoria, si tratta di «occupazione di qualità, che Confcommercio sostiene anche promuovendo progetti concreti, come la certificazione di parità di genere, un sistema premiante per le aziende che contrasta il divario di genere in termini di inclusione professionale, di retribuzioni, di opportunità di carriera, di formazione, di conciliazione fra tempi di vita e lavoro».
Il confronto con gli altri Paesi
Per quanto riguarda il confronto del mercato del lavoro italiano con quello di altri Paesi europei, il report di Confcommercio parla di un «ritardo cronico», soprattutto per quanto riguarda la componente femminile della forza lavoro. Con notevoli differenze da regione a regione. Al Nord, il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è di due punti e mezzo sotto la media europea, al Centro di 5 punti, al Sud di 25. «Per migliorare questa condizione – spiega Confcommercio – al di là delle necessarie politiche attive e della riorganizzazione dei servizi a supporto della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la soluzione non può che passare per la valorizzazione della produttività e dall’incremento di innovazione e investimenti nel terziario di mercato».
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
IL DELIRIO RAZZISTA: “NON VI PERMETTEREMO DI SCENDERE IN PIAZZA”
La vittoria matematica dello Scudetto da parte del Napoli potrebbe arrivare già domani, domenica 30 aprile. E i tifosi partenopei di tutta Italia si stanno preparando a festeggiare un traguardo che manca da più di trent’anni. Eppure, c’è chi sta facendo di tutto per impedire che questo accada. Sui social si moltiplicano i volantini e le minacce dei gruppi ultras di altre squadre di Serie A. L’ultimo è intitolato “Bergamo non festeggia”: «In questa terra non possono essere tollerati festeggiamenti per la squadra partenopea – si legge nel volantino che circola su Twitter -. Ricordiamo ai ristoratori, baristi, pizzaioli che per festeggiamenti e pagliacciate varie riceveranno adeguate risposte alle loro attività anche a distanza di tempo». E alle minacce si sommano anche gli insulti: «Da cento anni è sempre quella… Ci fai schifo Pulcinella!». Gli ultras bergamaschi non sono gli unici ad aver minacciato ritorsioni in caso di festeggiamenti dei tifosi partenopei in città.
A Varese, alcuni gruppi di tifosi di estrema destra hanno pubblicato un messaggio simile: «Varese tifa Varese. Festeggiamenti di altre squadre nella nostra città non sono graditi. In particolar modo quelli del Napoli», si legge nel messaggio scritto con un font molto diffuso tra le organizzazioni neofasciste.
Stessa storia anche a Torino, dove il gruppo ultras Primo Novembre 1897 ha pubblicato minacce ancora più esplicite: «A Torino ci sono solo due squadre che possono colorare le piazze. Già quando lo fanno i nostri i cugini per festeggiare le loro promozioni dalla B alla Serie A facciamo fatica a contenerci e a non scendere, ma è anche la loro città. Questa non è la vostra città, quindi evitate perché non ve lo permettiamo», scrive il gruppo di ultras sulla sua pagina Instagram, dove anche in questo caso non mancano i richiami al mondo del neofascismo.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
GLI ITALIANI RIMPIANGONO LA SUA PRESENZA
Mario Draghi è ancora il leader politico più apprezzato dagli italiani, nonostante si sia praticamente ritirato dalla scena dalla caduta del suo governo nell’estate del 2022. Lo rileva un sondaggio di Demos, pubblicato oggi su Repubblica, che sottolinea come l’alto indice di consensi registrato dall’ex presidente del Consiglio sia segnale di quanto molti cittadini rimpiangano la sua presenza nella vita politica. Dopo Draghi, gli altri due gradini del podio quando si parla di fiducia nei leader sono occupati da Giorgia Meloni, al secondo posto, e dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, in terza posizione.
A seguire troviamo il leader del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, ed Emma Bonino, di gran lunga più apprezzata del suo partito, che spesso nei sondaggi sulle intenzioni di voto non raggiunge nemmeno la soglia di sbarramento. Al sesto posto c’è invece Silvio Berlusconi, e solo dopo il leader azzurro troviamo Elly Schlein, da due mesi alla guida del Partito democratico.
Proprio il Pd, però, continua a salire nei sondaggi che riguardano le forze politiche. I dem sono ormai consolidati in seconda posizione, oltre la quota del 20%. La tendenza in positivo è ricominciata con le primarie che hanno portato Schlein ai vertici.
Dall’ultima indagine di Demos il Pd guadagna ben tre punti, riducendo così ulteriormente il divario con Fratelli d’Italia, dalle elezioni primo partito nel Paese, ma ormai sceso stabilmente sotto il 30%.
In calo anche i Cinque Stelle, che scivolano al 15,6%. Tutte le altre forze politiche sono sotto la soglia del 10%. Sale leggermente Forza Italia, che va al 7,6%, mentre crollano Azione e Italia Viva dopo la rottura tra Carlo Calenda e Matteo Renzi. Il Terzo polo passa infatti dal 7,2% di poche settimane fa al 6,6%.
(da Fanpage)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
DICHIARO’ DI AVER FIRMATO LUI L’ATTO DI NASCITA DI KARIMA
È stato arrestato mercoledì 26 aprile dalla polizia di Casablanca con l’accusa di corruzione Mohamed Mobdii, parlamentare, già ministro della Funzione pubblica del Marocco e leader del Partito del movimento populista. Mobdii per 27 anni è stato anche sindaco del comune di Fkih Ben Saleh e le accuse riguardano anche la gestione dei fondi e degli appalti di questo municipio.
Mobdii ebbe un momento di celebrità anche in Italia quando scoppiò l’inchiesta su Silvio Berlusconi e Ruby Rubacuori, alias Karima El Marough.
Da ministro della Funzione pubblica e sindaco diede una intervista al quotidiano marocchino Al Akhbar, sostenendo di avere firmato e registrato lui l’atto di nascita di Karima-Ruby e di avere inviato la documentazione al consolato marocchino di Milano perché secondo la sua versione all’epoca dei fatti Ruby aveva già compiuto la maggiore età. L’intervista fu cavalcata subito da Forza Italia e la parlamentare allora azzurra Suad Sbai chiede ai magistrati milanesi di acquisire subito la documentazione.
La procura di Milano smentì la sua ricostruzione dicendosi certa che Ruby all’epoca non era ancora maggiorenne. Lo stesso Mobdii in un successivo collegamento telefonico con la trasmissione di Raio Uno Un giorno da pecora provò a fare marcia indietro sostenendo di non avere mai dato quella intervista e di non sapere nulla di Ruby e della sua famiglia che mai aveva conosciuto.
Il giorno dopo però il quotidiano marocchino Al Akhbar pubblicò on line foto e audio di quella intervista (l’audio fu poi tradotto in italiano), dimostrando di avere riportato correttamente tutto quanto detto dall’allora ministro della Funzione pubblica. Mobdii era ancora oggi parlamentare e presiedeva la commissione Giustizia e diritti umani da cui si è dimesso il giorno dopo l’arresto.
(da agenzie)
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