Gennaio 30th, 2025 Riccardo Fucile
LA CONFERENZA STAMPA ALLA CAMERA DI TRE RIFUGIATI CHE ANNO TESTIMONIATO LE VIOLENZE SUBIRE DA ALMASRI
«Chiediamo una spiegazione ufficiale sul motivo per cui Almasri è stato rilasciato invece
di essere consegnato alla Corte penale internazionale». A parlare è David Yambio, sudanese rifugiato in Italia dal 2022 e portavoce di Refugees in Libya, intervenuto oggi alla Camera durante una conferenza stampa organizzata dalle opposizioni insieme ad altri due sopravvissuti alle torture inflitte dal generale libico Almasri. «Abbiamo atteso a lungo questo giorno, ma ora ci troviamo di fronte a una profonda delusione. Speravamo nella giustizia, speravamo che il nostro aguzzino pagasse per ciò che ci ha fatto. E invece abbiamo scoperto che è stato liberato», prosegue Yambio, detenuto e torturato nel lager di Mitiga. «Almasri è direttamente responsabile di innumerevoli crimini», sottolinea, aggiungendo che la battaglia per la giustizia riguarda non solo loro, ma anche «tutti i nostri compagni morti o ancora intrappolati in Libia». Rivolge poi un ringraziamento (amaro) all’Italia: «Siamo grati per averci dato un posto sicuro, ma non possiamo dimenticare ciò che abbiamo subito». La conferenza stampa è stata organizzata da tutta l’opposizione ed erano presenti Nicola Fratoianni (Avs), Elly Schlein (Pd), Riccardo Magi (+Europa), Maria Elena Boschi (Italia Viva) e Vittoria Baldino (M5S).
Le richieste al governo
Le vittime hanno poi avanzato richieste precise al governo Meloni, stilate in tre lettere che verranno consegnate alla premier Giorgia Meloni, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e al sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano. «Chiediamo l’immediata cessazione di tutti gli accordi tra Italia e Libia che permettono abusi contro i migranti, un impegno pubblico per ottenere il rilascio di chi è ancora detenuto a Mitiga e in altri centri libici, e una spiegazione ufficiale sul perché Almasri, che lo stesso governo italiano, nella persona del ministro Piantedosi, ha definito “pericoloso”, sia stato liberato invece di essere consegnato alla giustizia internazionale». Inoltre, hanno sollecitato l’attivazione di un percorso legale per i migranti bloccati nei centri di detenzione libici, inclusa la riapertura dell’Ambasciata Italiana a Tripoli per il rilascio di visti umanitari.
Le testimonianze ai sopravvissuti delle carceri libiche
Il secondo a prendere la parola è Lam Magok, anche lui membro di Refugees in Libya, che ha vissuto cinque anni in Libia, Paese che definisce un vero e proprio «inferno»: «Ogni giorno i migranti muoiono dopo essere stati violentati, torturati, lasciati senza cibo e acqua». Lui stesso è stato prigioniero nel lager di Mitiga: «Almasri mi ha picchiato. Quando ho saputo che era stato arrestato, ho provato una sorta di sollievo ma poi, alla notizia della sua liberazione, sono rimasto scioccato». Rivolgendosi direttamente alla presidente del Consiglio, aggiunge: «Ho sentito dire che Giorgia Meloni è una madre e una cristiana: da madre, come ha potuto permettere che un uomo che tortura e uccide anche bambini fosse rimesso in libertà?». E denuncia: «Mi rendo conto di quanta complicità ci sia da parte del governo italiano in tutto quello che ho vissuto». Della sua detenzione, Magok racconta anche il tentativo di fuga (fallito) da Mitiga: «Ci hanno catturati, Almasri è venuto di persona e ci hanno torturato per cinque giorni. Poi ci hanno obbligato a trasportare i cadaveri dei nostri compagni».
«Almasri è un trafficante di esseri umani»
Il terzo a intervenire è Mohamed, originario del Sud Sudan: «Anche io sono stato detenuto in un lager libico. Nel 2021 ho partecipato a una protesta davanti alla sede dell’Unhcr a Tripoli, ma le forze libiche l’hanno smantellata con violenza e ci hanno deportato in un altro campo, sotto il controllo di Almasri», dichiara. Anche lui, come gli altri, è rimasto sconvolto dalla notizia della sua scarcerazione: «Chi si assume la responsabilità di tutte le morti nei lager? Chi risponderà per le vittime di Almasri?». Mohamed conclude con un appello: «Almasri è un trafficante di esseri umani, una persona estremamente pericolosa. Chiediamo che la verità venga riconosciuta. Non saremo mai liberi finché tutti i rifugiati non saranno liberati dalle violenze atroci».
(da agenzie)
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Gennaio 30th, 2025 Riccardo Fucile
LE REGOLE SOTTOSCRITTE DALL’ITALIA PREVEDONO L’ARRESTO IMMEDIATO DEL RICERCATO, COSA CHE INFATTI LA POLIZIA HA FATTO… SE POI QUALCUNO L’HA LIBERATO NE RISPONDERA’ ATTRAVERSO UN PROCEDIMENTO DELLA CORTE
Nessun giallo, nessun complotto. Non c’è nulla di misterioso nel ritardo con cui la Corte penale internazionale ha spiccato il mandato di cattura internazionale per Najem Osama Almasri: lo sostiene l’ex giudice della Corte dell’Aja Cuno Tarfusser.
Da giorni il governo Meloni ventila dubbi sulle tempistiche del mandato d’arresto: perché – è la domanda che viene mossa in filigrana – la Cpi ha rotto gli indugi solo il 18 gennaio, proprio quando Almasri era appena arrivato in Italia, se il super-trafficante di migranti libico girava indisturbato per l’Europa da ormai 12 giorni?
A rispondere, quanto meno dal suo punto di vista, ora è Tarfusser: «Non c’è stato nessun cortocircuito. È un passaggio che richiede giorni perché bisogna che il mandato di cattura sia ben scritto, sia ben motivato, vanno studiati gli atti», dice il magistrato all’Ansa. A dimostrazione della buona fede dei giudici internazionali, sostiene ancora Tarfusser, si ricordi il fatto che una volta spiccato il mandato la Cpi «ha informato sei Paesi». Un comportamento, insomma, «assolutamente trasparente».
Cosa può fare la Cpi se l’Italia non collabora
A poter contestare errori e inadempienze, piuttosto, sarebbe proprio la Corte dell’Aja nei confronti dell’Italia. Già, perché a norma dello Statuto di Roma e delle leggi italiane che lo recepiscono, l’Italia dovrebbe dare esecuzione senza indugio ai mandati d’arresto della Corte. Cosa che quel 19 gennaio era in effetti avvenuta, ma secondo le autorità italiane in forma irregolare. E così Almasri è stato lasciato libero, e poco dopo rispedito in Libia dal governo stesso su un volo di Stato. Questione di «sicurezza dello Stato», ha ribadito Giorgia Meloni.
La Cpi appare tutt’altro che convinta di queste spiegazioni. Ma cosa potrebbe fare, in concreto? Di certo non irrogare sanzioni, non ne ha il potere. Potrebbe però agire su un altro fronte. «Se questa cooperazione viene meno, la Corte apre un procedimento nei confronti dello Stato accusato di non aver cooperato, per accertare l’avvenuta violazione degli obblighi statutari», spiega ancora Tarfusser. «All’esito, si chiederà all’Italia di giustificare i motivi. Se questi motivi non sono ritenuti adeguati, la Corte emette una decisione in cui accerta la violazione dello Statuto di Roma, e trasmette questa decisione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e all’Assemblea degli Stati aderenti allo Statuto di Roma, che poi provvederanno o meno». Sarebbero dunque, anche in tal caso, «decisioni politiche, certamente non giudiziarie». Ma pesanti.
(da agenzie)
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Gennaio 30th, 2025 Riccardo Fucile
CHE POI PALAZZO CHIGI NON SAPPIA GESTIRE LE SITUAZIONI DI CRISI E’ LAMPANTE: SAREBBE BASTATO METTERE IL SEGRETO DI STATO, INVECE CHE MANDARE PIANTEDOSI A CIANCIARE DI ” ALMASRI, PERICOLO PER LA SICUREZZA”, E NESSUNO SI SAREBBE FATTO MALE
E pensare che sarebbe stato semplice. Sarebbe bastato invocare la “ragion di Stato” e
nessuno si sarebbe fatto male sul caso Almasri. E invece la scarcerazione del torturatore libico è diventata l’ennesima prova di come al Governo non sanno gestire le situazioni di crisi.
Come scrive su “Repubblica”, Francesco Bei, “gli italiani non si bevono la versione raccontata dal ministro Piantedosi in Parlamento e ripetuta da Meloni. Ovvero che il capo della milizia libica Rada sia stato rimandato a Tripoli perché minacciava la sicurezza nazionale.
Un’inerzia collosa, un muro di gomma troppo evidente per non sospettare una precisa volontà politica, motivata dalla ragion di Stato, che siano le forniture di gas dalla Libia o il blocco dei migranti (non a caso, nei giorni di detenzione di Almasri, gli sbarchi dalla Libia sono ripresi). Entrambe motivazioni configurabili, queste sì, come “ricatti” a cui Meloni si è piegata”.
Per farla breve: quando Giorgia Meloni ripete come una nenia “Non sono ricattabile” (una frase che pronunciò già a inizio legislatura, quando Berlusconi si fece vedere in Senato con il celebre foglietto in cui la definiva “supponente, prepotente, arrogante e offensiva”), dice una cazzata grande come una casa.
Il governo libico usa i migranti a mo’ di pistola alla tempia dell’Italia. La prova? La scorsa settimana, dopo l’arresto di Almasri, gli sbarchi dal paese del Nord Africa sono aumentati del 130%. Un’evidente ritorsione per l’incarcerazione del ricercato internazionale per crimini di guerra.
Giorgia Meloni avrebbe dovuto gettare il cuore oltre l’ostacolo, e dire: Abbiamo un accordo segreto con la Libia, che ci ha permesso nel 2024 di far calare gli sbarchi del 35-40%, ed è una questione di interesse nazionale su cui poniamo il segreto di Stato.
E invece, la Ducetta ha mandato il povero Piantedosi a schiantarsi, e fare una doppia figura barbina: come si può definire Almasri “un pericolo per la sicurezza” e poi liberarlo e rimpatriarlo con un volo di Stato, gentilmente offerto dai contribuenti italiani?
Altro errore di valutazione: togliere l’aereo di Stato al procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, per i suoi viaggi a Palermo, significa sconfessare se stessi.
Per quei voli, serviva un’autorizzazione, che solo l’autorità delegata alla sicurezza, Alfredo Mantovano, può aver dato. Togliere un “privilegio” che in passato è stato lo stesso Governo a riconoscere a Lo Voi è schizofrenia politica.
Il danno comunque ormai è fatto. Come ha sintetizzato perfettamente la “Jena” Barenghi, oggi sulla “Stampa”, Giorgia Meloni “non sarà ricattabile, non si farà intimidire, però una bella cazzata l’ha fatta”.
Una “bella cazzata” che, come reso noto dalla stessa premier nel video rabbioso di ieri pomeriggio, si è trasformata in un esposto, presentato dall’avvocato Luigi Li Gotti.
Un esposto molto circostanziato, dove l’ex sottosegretario del governo Prodi, come ha ammesso lui stesso, si è “limitato a raccontare cosa è accaduto in quei giorni, allegando anche articoli di stampa. Credo che ci siano gli estremi per valutare possibili condotte sia di favoreggiamento sia di peculato”.
Giorgia Meloni ha definito Li Gotti un uomo “di sinistra”, vicino a Romano Prodi, di cui appunto è stato sottosegretario in quota Italia dei Valori di Antonio Di Pietro.
Una polemica un po’ stantia, considerato anche il passato del legale calabrese, ex militante del Movimento sociale italiano. Piuttosto, è vero che Li Gotti è molto vicino ai magistrati: in passato ha difeso pentiti di mafia del calibro di Buscetta e Brusca, e adesso sta seguendo i familiari delle vittime della tragedia di Cutro.
Incarichi che gli vengono affidati dalla magistratura stessa, come ha raccontato lui stesso in un’intervista alla “Stampa”: “Ho preso la difesa di alcuni.
Ad esempio quando Giovanni Falcone mi chiese di assistere Francesco Marino Mannoia che non aveva più difensori. In quel periodo stavo facendo il processo Calabresi. Falcone mi chiamò e mi chiese se me la sentivo di assistere Mannoia. E io per rispetto per me stesso, per la deontologia, dissi di sì. Poi arrivarono altri. Io difendo la persona, non il reato”.
Una volta presentata la denuncia, la Procura ha proceduto a iscrivere la Meloni e i ministri Nordio e Mantovano nel registro degli indagati, come “atto dovuto”. Attenzione, non si tratta di un “avviso di garanzia”, come lo ha definito impropriamente Giorgia Meloni, ma di una “comunicazione”.
A spiegarlo è stata l’Associazione nazionale Magistrati in una nota: “Si segnala il totale fraintendimento da parte di numerosi esponenti politici dell’attività svolta dalla procura di Roma, la quale non ha emesso, come è stato detto da più parti impropriamente, un avviso di garanzia nei confronti della presidente Meloni e dei ministri Nordio e Piantedosi, ma una comunicazione di iscrizione che è in sé un atto dovuto.
La legge impone al procuratore della Repubblica, ricevuta la denuncia nei confronti di un ministro, ed omessa ogni indagine, di trasmettere, entro il termine di 15 giorni, gli atti al Tribunale dei ministri, dando immediata comunicazione ai soggetti interessati, affinché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati”.
Un’indagine nei confronti di un presidente del Consiglio, peraltro, non è una novità: è successo (più volte) con Silvio Berlusconi, ma anche con Dini, D’Alema, Renzi, Conte, e anche con lo stesso Prodi.
Quello di Giorgia Meloni appare quindi un “eccesso di reazione”, come lo definisce ancora Francesco Bei su “Repubblica”, che lo imputa alla volontà di evitare di rispondere nel merito delle molte domande rimaste appese dal caso Almasri, insieme al “tentativo di contropiede rispetto alla protesta della magistratura”.
Una protesta, quella delle toghe, in effetti clamorosa, quasi senza precedenti: nemmeno ai tempi di Berlusconi si era vista una tale compattezza tra i magistrati, uniti contro il Governo. Del resto, la separazione delle carriere è considerata pericolosa dalle toghe di ogni corrente.
Come ripete spesso Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli che sabato ha disertato la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, alla presenza del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, l’opinione dei magistrati sulla riforma del Governo è questa: “Serve per indebolire il pubblico ministero, e a sottoporlo al controllo dell’esecutivo”.
Un divide et impera che danneggerebbe il potere giudiziario, rafforzerebbe la presa della maggioranza sui tribunali e ovviamente fa andare su tutte le furie i magistrati di tutta Italia.
Nei palazzi romani si dà anche un’altra interpretazione al giramento di otoliti della Ducetta, associandolo al caso Santanchè: c’è chi sostiene la contrapposizione con i giudici servirebbe a coprire lo scazzo interno a Fratelli d’Italia sulle possibili dimissioni della “Pitonessa”. Non è così: i due fatti non sono legati.
Vero è che anche sulla “Santa” si sta consumando una lotta tutta interna in Fratelli d’Italia, partito storicamente giustizialista. La vecchia guardia dei Rampelli e dei Donzelli è infastidita dal garantismo senza limitismo invocato dall’ex proprietaria del Twiga, e pressa per farle fare gli scatoloni.
Un’altra fronda del partito, invece, così come Lega e Forza Italia, sostiene che non si possa far dimettere la ministra del turismo senza apparire ambigui. “Ci sarebbero due pesi e due misure”, sostiene chi predica la permanenza della Santanchè al Governo, visto il caso Salvini (che non si è dimesso da indagato, e poi è stato assolto in primo grado) e pure quello di Delmastro, rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio, nel caso Cospito, e rimasto sottosegretario alla Giustizia.
Lo scazzo sul destino di Danielona è l’ultima spia della “svolta” di Fdi: un tempo partito “staliniano”, centralista, con un’unica corrente (i “gabbiani” di Rampelli) e ora invece diviso, frantumato in mille fronde, dai “donzelliani” ai “Lollo-boys”, e chi più ne ha, più ne metta.
Se il caso Santanchè non c’entra con quello Almasri, anche la minaccia del voto anticipato è solo uno specchietto per gli allocconi. Innanzitutto, a decidere di sciogliere il Parlamento non è la Meloni, ma Sergio Mattarella. Ed è praticamente impossibile che il Capo dello Stato lo faccia senza una vera crisi di Governo. Ciò significa che o la Lega o Forza Italia dovrebbe togliere la fiducia alla premier (con il rischio di perdere consensi, e quindi seggi, nella nuova tornata elettorale).
Chi, dal partito della Meloni, dice: “Andiamo al voto così prendiamo il 40%”, sa di finire sui giornali (nello specifico, “Repubblica”), ma è ben consapevole di parlare a vuoto, ma lo fa consapevolmente e su input della “Giorgia dei due mondi”.
La best friend europea del ketaminico Musk, infatti, ormai inebriata dal trumpismo, pensa di governare l’Italia come Donald può fare in America, a suon di ordini esecutivi che diventano immediatamente applicabili.
Non ha capito, la “pora Giorgia”, che in Italia la Costituzione è diversa, e il presidente del Consiglio, da solo, può promettere, ma non quaglia senza il Parlamento.
Lo si è visto anche con la “deportazione” cacio e pepe in Albania. Mentre Trump, in dieci giorni, ha fatto partire un’operazione “stealth”, con arresti e rimpatri forzati di poveri cristi in catene, i centri in Albania, costati mezzo miliardo di euro, accolgono poche decine di persone. Sempre che i giudici non blocchino di nuovo i trasferimenti.
Se ci fosse un’opposizione politica, in questo Paese, non esiterebbe a ricordarlo alla Ducetta.
(da Dagoreport)
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Gennaio 30th, 2025 Riccardo Fucile
IL 55% SAREBBE FAVOREVOLE A UN IPOTETICO RIENTRO DI LONDRA NELL’UNIONE
La maggioranza dei britannici considera oggi come oggi la Brexit una delusione, a 8 anni e mezzo dal referendum segnato dal voto pro-Leave che sancì l’addio a Bruxelles e a 5 dall’entrata in vigore definitiva degli accordi di divorzio. Lo conferma un sondaggio dell’istituto YouGov, sulla scia di altre indicazioni demoscopiche analoghe negli ultimi anni.
Il totale di chi crede senza mezzi termini che l’isola abbia fatto bene a separarsi dall’Ue è sceso al 30%, secondo questa ricerca (condotta su un campione di 2225 persone): picco minimo fra i dati delle periodiche rilevazioni YouGov. Risale inoltre al 55% la quota di chi si dice sulla carta favorevole a un ipotetico rientro di Londra nell’Unione (incluso un 20% di coloro che affermano di aver votato Leave nel giugno del 2016); mentre non supera tuttavia il 39% quella degli intervistati “fortemente” convinti a impegnarsi per la prospettiva di una retromarcia in nome della cosiddetta ‘Bregret’ (i rimpianti anti Brexit).
Numeri che secondo alcuni analisti non garantirebbero in effetti la certezza di una rivincita, laddove mai si creassero in un qualche futuro le condizioni per un referendum bis da tenersi non a bocce ferme – come i sondaggi attuali – bensì al culmine di una nuova campagna di propaganda contrapposta. Ipotesi del resto esclusa ripetutamente in modo categorico anche dal nuovo governo laburista di Keir Starmer (pur sostenitore a suo tempo della campagna pro-Remain), subentrato con le elezioni di luglio a 14 anni di governi Tory e a predecessori brexiteer come Boris Johnson o Rishi Sunak.
Governo Starmer che teme di riaprire un dossier comunque divisivo, anche nell’elettorato del Labour, e che si è limitato finora a evocare “un reset” con Bruxelles, auspicando relazioni commerciali e politiche più soft, ma con l’impegno a non rimettere in discussione la Brexit né l’uscita del Regno dal mercato unico, dall’unione doganale o dal circuito europeo di libertà di movimento delle persone.
(da agenzie)
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Gennaio 30th, 2025 Riccardo Fucile
LA FECCIA D’AMERICA LA INONDA DI COMPLIMENTI PER AVER CHIAMATO “IMMONDIZIA” LA GENTE DEPORTATA… E’ QUELLA CHE AVEVA AMMAZZATO A FUCILATE IL PROPRIO CANE “PERCHE’ TROPPO VIVACE”, UN SOGGETTO DA MINICOMIO CRIMINALE
Dopo l’immagine di Donald Trump in borsalino stile Al Capone postata su Truth, è il
turno di Kristi Noem versione “Atomic Brunette”. Il nuovo segretario alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha partecipato al raid dell’ufficio immigrazione nel Bronx, New York, e pubblicato sul social un video in cui è apparsa all’alba con giubbotto antiproiettile, cappello da baseball della polizia con visiera calata sugli occhi, giubbotto nero, unghie smaltate di rosso e Rolex Daytona al polso.
«In diretta da New York — ha scritto su X — ci sto lavorando». Poi ha pubblicato video di un arresto e immagini di lei seduta in prima fila alla riunione operativa degli agenti, come in un film d’azione: mentre attraversa la strada illuminata dai fanali delle auto della polizia, e in piedi, mani in tasca, mentre guarda lontano. Sui social è stato il delirio dei fans.
“America is Back!”, hanno scritto. Ma anche Hollywood is back: da una settimana la propaganda trumpiana ha riversato su social e tv i volti degli arrestati.
Noem ha compiuto un passo ulteriore: si è presentata come la ministra in azione, un po’ Charlize Theron di Atomic Blonde , un po’ Emily Blunt di Sicario o la Jennifer Lopez di Out of Sight .
«Noi — ha detto ai suoi oltre 600 mila follower su X — stiamo facendo esattamente ciò che il presidente Trump ha promesso al popolo americano: rendere le nostre strade sicure». E poi: «Sacchi di immondizia come questo — ha aggiunto, commentando il video di un clandestino arrestato — li continueremo a rimuovere dalle nostre strade».
Nata a Watertown, South Dakota, 53 anni, sposata, tre figli, Noem si è costruita una fama da dura: a 22 anni, perso il padre in un incidente col trattore, dovette lasciare l’università per guidare l’azienda di famiglia. È diventata allevatrice, cacciatrice, ha partecipato a rodei, è riuscita a laurearsi a 40 anni, come aveva promesso al padre, incarnando la versione pop della donna americana rurale, tutta lazo, cappello da cowboy ma sempre con il rossetto giusto sulle labbra. Prima donna governatrice del South Dakota nel 2019, rieletta con record di voti tre anni dopo, è stata tra le prime a dire no ai vaccini per il Covid e a inviare in Texas soldati della Guardia nazionale nella guerra all’immigrazione clandestina.
Da governatrice ha accusato le tribù di nativi di essere un branco di ubriaconi arricchiti con i cartelli della droga. Gli Oglala Sioux le hanno vietato di entrare nella loro riserva, seguiti dai Cheyenne. Di recente la tribù dei Flandreau Santee Sioux ha revocato la decisione dopo che Noem si era scusata. Appena nove mesi fa l’ascesa della governatrice sembrava essersi esaurita: nella sua autobiografia, No Going Back , per mostrare il suo senso pratico, Noem aveva raccontato di aver sparato a freddo al suo cane da caccia, Cricket, un pointer di quattordici mesi, perché indisciplinato e considerato «inutile».
Inoltre aveva millantato di aver respinto un invito del presidente francese Emmanuel Macron, e di aver incontrato il dittatore nordcoreano Kim Jong Un. I due episodi sono stati smentiti dai due Paesi
(da La Repubblica)
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Gennaio 30th, 2025 Riccardo Fucile
VUCEVIC EVOCA IL COMPLOTTONE ORDITO DAGLI USA: “DIETRO QUESTI CORTEI, CI SONO SENZA DUBBIO AGENTI STRANIERI. ME NE VADO PERCHÉ VOGLIO EVITARE NUOVE TENSIONI SOCIALI”
Domani aspettava la Meloni e s’era già preparato il discorso. Niente visita, tutto cancellato, non la vedrà arrivare: «Ho preso la decisione di dimettermi». Dalle finestre del Palazzo di Serbia, Milos Vucevic ha sentito per due mesi la folla che gliene urlava di ogni: soprattutto «ostakvu!», vattene a casa. Ieri mattina, travolto dalle proteste, stravolto dal sospetto d’un complotto internazionale, il premier s’è immolato in una conferenza stampa a sorpresa.
«Me ne vado perché voglio evitare altri problemi e nuove tensioni sociali», ha spiegato, ma sia chiaro: dietro questi cortei, ci sono «senza dubbio agenti stranieri» che «vogliono mettere a repentaglio il Paese». È il complottismo che la dirigenza nazionalista di Belgrado agita ogni volta, se la piazza contesta. Un po’ quel che ha detto due giorni fa anche Aleksandar Lukashenko, grande amico di Vucevic: «A Belgrado come in Slovacchia — è sicuro il dittatore bielorusso —, sono le ambasciate Usa a organizzare tutte queste manifestazioni contro i governi. L’ho visto un milione di volte: chi mette i soldi, ordina la musica».
La musica era già finita da un pezzo, per il primo ministro serbo. Che è durato in carica 272 giorni e ha fatto giusto in tempo a dichiararsi contro le sanzioni alla Russia e insieme a smentire d’aver venduto armi all’Ucraina, a rivendicare il solito Kosovo e a prendersi l’ultimo Covid, prima di finire un venerdì di novembre sepolto (politicamente) dal crollo improvviso d’una tettoia alla stazione ferroviaria di Novi Sad, il suo feudo elettorale: 15 morti, compresi due bambini, decine di feriti.
La rabbia popolare è cresciuta di settimana in settimana, quando s’è scoperto che la stazione era stata inutilmente ristrutturata, ben due volte in pochi anni, coi ricchi fondi stanziati per l’alta velocità. «La corruzione uccide!», lo slogan delle proteste.
Per placare le manifestazioni, Vucic aveva già preteso la testa del ministro dei Trasporti, cacciato il sindaco di Novi Sad, promesso di rimpastare il governo. Le dimissioni di Vucevic gli danno una chance in più: fra un mese, se il Parlamento non riuscirà a votare un altro premier, il capo dello Stato potrebbe appellarsi alla base turbo-serba e azzardare elezioni anticipate. Le opposizioni spingono per un governo di transizione, vogliono preparare un voto più pulito ed evitare — dicono —i brogli dell’ultima tornata che incoronò Vucic.
(da Corriere della Sera)
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