Destra di Popolo.net

TUTTI A OMAGGIARE ARIANNA. NEL LOCALE “SANCTUARY”, DI FRONTE ALLA STORICA SEDE DEL MSI DI COLLE OPPIO, IERI SERA ARIANNA MELONI HA FESTEGGIATO I SUOI 50 ANNI. ED È STATA L’OCCASIONE PER UNA SFILATA DELLA DESTRA AL POTERE, TRA AUTO BLU, SCORTE E LAMPEGGIANTI

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

PRESENTI TUTTI I BIG DI FDI, DA IGNAZIO LA RUSSA A RAFFAELE FITTO, FINO ALL’EX COGNATO D’ITALIA, FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – UNICA ASSENTE È STATA LA MELONI

Passato e futuro della destra italiana divisi da dieci metri di strada lunga almeno trent’anni. Da un lato l’ingresso, buio e desolato, della storica sede di Colle Oppio, prima sezione del Msi e già incubatore del melonismo tra mito e stramberie.Dall’altra parte della via, quella opposta, l’entrata del Sanctuary, locale raffinato di Roma (presente anche a Milano, Porto Cervo e in Valle d’Itria) con respiro internazionale, gestito da un dirigente di Fratelli d’Italia.
Il nuovo Santuario della destra italiana ieri sera era un via vai di ministri, sottosegretari e parlamentari di Fiamma. Tutti in corteo e in lista per festeggiare i 50 anni di Arianna Meloni, sorella maggiore della premier e responsabile della segreteria di FdI, gli occhi della presidente del Consiglio al partito. Con un futuro abbastanza certo in Parlamento.
La premier – prevista e attesa all’evento – alla fine ha dato forfait causa vertice a Palazzo Chigi. Tutti gli altri c’erano. In un turbinio di auto blu, scorte, carabinieri in borghese, agenti di polizia. […]
Una discreta, si fa per dire, sfilata di potere, del nuovo potere che ormai guida l’Italia da quasi tre anni. A partire dalla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa che ha presenziato al brindisi e al taglio della torta (una enorme millefoglie con fragoline e panna, sormontata da due palloncini rosa con i due numeri magici 5 e 0). […]
Si fa prima a dire chi non c’era. Perché ecco direttamente da Bruxelles il vicepresidente della commissione Ue Raffaele Fitto, i ministri Luca Ciriani, Eugenia Roccella, Alessandro Giuli (che si è presentato con una fetta di torta, inviata dalla festeggiata, per il cronista rimasto fuori a fare il ficcanaso). Immancabile Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e capodelegazione al governo nonché ex storico compagno di Arianna.
E poi una pletora di sottosegretari: Wanda Ferro con canetto Yorkshire René nella borsa di appena cinque mesi (“ho chiesto a Piantedosi l’autorizzazione di farlo entrare al Viminale e mi ha detto di sì: altrimenti gli avrei riconsegnato la delega; me lo porto anche in Senato, peccato non possa entrare alla Camera perché Fontana è contrario”), Paola Frassinetti, Emanuele Prisco, Gianmarco Mazzi, Marcello Gemmato.
E poi Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione del partito nonché ombra di Arianna Meloni in via della Scrofa (e molto viceversa), i capigruppo di Camera e Senato, Galeazzo Bignami e Lucio Malan. Onorevole di qua, signor ministro di là, presidente i miei omaggi, tanti auguri Ary!
I parlamentari di Fratelli d’Italia che non si potevano perdere l’occasione. Della vecchia guardia ecco Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e gran sacerdote della Colle Oppio che fu, intesa come sezione madre del partito romano che poi si è allargato al resto del paese uscendo dal Gra. Il capo dei Gabbiani se n’è andato via con la moglie Gloria a bordo del suo scooter.
A un certo punto i deputati hanno battuto la ritirata, con ancora la torta sul gozzo, per correre alla Camera a votare la fiducia prevista per le 21. Prima Arianna, poi il dovere è stato il moto di tutti. A partire da Luciano Ciocchetti, centrista melonista con forti ambizioni per il Campidogli
E ancora manager di partecipate, dirigenti Rai, dirigenti pubblici che contano. Nessuno voleva mancare. Il regalo? Si parla di una borsa Chanel, ma i racconti dei presenti sono contrastanti vista la quantità industriale di brindisi.
A fine serata ecco il post di ringraziamento Arianna Meloni sui social. Con simpatica postilla: “Nel caos totale della giornata, letteralmente inondata di auguri, fiori, baci e abbracci, ho decisamente dimenticato che le candeline sulla torta fossero 50.
Beh 50 cominciano ad essere tantine, ma tutto sommato non ho avuto il tempo di rendermene conto. Potevo passare la giornata su un divano a frignare mangiando cibo spazzatura ricordando gli anni passati, ma mi avete regalato un compleanno così speciale che guardando indietro l’unica cosa che ho pensato è che dobbiamo guardare avanti perché abbiamo ancora tante battaglie da vivere, combattere e vincere insieme, con la forza delle idee e la determinazione di chi crede davvero in ciò che fa. Ps e se qualcuno ha una crema anti-age da suggerire sono tutta orecchi!”

(da agenzie)

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COSA CI DICE IL RISULTATO DELLE COMUNALI. SUL REFERENDUM E SULLE PROSSIME ELEZIONI: GLI ELETTORI SONO STABILI, A FARE LA DIFFERENZA SONO LE COALIZION

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

L’ANALISI DELL’ISTITUO CATTANEO

La vittoria del centrosinistra a Genova e Ravenna alle comunali 2025 conferma una tendenza nazionale: gli elettori sono ‘stabili’, a fare la differenza sono le coalizioni. Insomma, il campo largo per provare vincere deve unirsi. Salvatore Vassallo, direttore dell’Istituto Cattaneo, ha risposto
alle domande di Fanpage.it per capire quali sono i segnali del voto ai partiti.
Le elezioni comunali 2025 hanno interessato 126 Comuni, tra cui quattro capoluoghi: Genova e Ravenna sono andati al centrosinistra al primo turno, mentre a Taranto e Matera si voterà al ballottaggio. Fanpage.it ha intervistato Salvatore Vassallo, direttore dell’Istituto Cattaneo, per analizzare i risultati e capire quali sono i messaggi ai partiti in vista dei prossimi appuntamenti con il voto: soprattutto i referendum dell’8 e 9 giugno e le regionali autunnali in Campania, Puglia, Veneto, Marche e Valle D’Aosta. Per il campo largo, superare le distanze e allearsi sembra essere l’unico modo per provare a battere il centrodestra.
Visto che si parla di elezioni comunali, cosa possono dirci questi risultati per l’andamento dei partiti nazionali?
Va considerato che le amministrative nei Comuni minori, spesso anche sopra i 15mila abitanti, presentano un’offerta politica peculiare: ci sono candidati e liste civiche, e spesso mancano i simboli dei partiti nazionali. Nella Prima repubblica si poteva dare una misura del risultato aggregato per tutte le elezioni comunali, perché i partiti si presentavano con lo stesso simbolo quasi ovunque, mentre oggi non è più possibile. Quindi ci concentriamo sui capoluoghi, sapendo che comunque in queste città l’elettorato del centrosinistra – per composizione socio-demografica – è prevalente rispetto a quello di centrodestra.
Quindi, guardiamo soprattutto a Genova e Ravenna.
Sì, e qui l’indicazione più chiara è una: non è cambiato quasi niente dall’anno scorso. L’equilibrio tra l’area di centrodestra e il campo largo è rimasto sostanzialmente invariato rispetto allo scorso anno. Lo vediamo sia confrontando i risultati con quelli delle regionali, sia guardando alla cosiddetta analisi dei flussi. Gli elettori dei candidati a presidente alle regionali, in grande maggioranza, hanno scelto il candidato sindaco della stessa parte politica. Non c’è nessuno scambio significativo da destra a sinistra o viceversa.
I genovesi che avevano votato Orlando alle ultime regionali hanno votato Salis, e lo stesso per i ravennati che avevano votato De Pascale (loro ex sindaco) e hanno sostenuto Barattoni
Sì, e con percentuali pressoché identiche, guardando agli aggregati centrodestra-campo largo.
Il punto politico più discusso è l’unione delle forze di opposizione: nei due capoluoghi i candidati sostenuti da Pd, M5s e forze centriste hanno vinto al primo turno. È una strategia da ripetere?
A Genova, tra il 2022 e il 2025 il centrodestra ha registrato una crescita: dal 34,9% alle politiche, al 44% alle ultime comunali. Il campo largo invece è passato dal 58% al 55% circa, restando più o meno stabile. La differenza l’ha fatta l’unione del campo largo. Nel 2022, si trattava di tre forze politiche che andavano per conto proprio. Quando si sono messe insieme, anche se hanno perso per strada qualche pezzo, sono diventate più competitive.
Ha ragione Elly Schlein a insistere sul fatto che, se il centrosinistra o campo largo si unisce, vince? O, per dirla in termini meno ottimistici, che l’unica possibilità per non perdere è unirsi?
I risultati di questi giorni sono una conferma di quanto si è visto già in alcune tornate regionali. È chiaramente il segnale che dovrebbe essere recepito dai leader del centrosinistra. Solo uniti diventano competitivi e possono vincere.
Ha detto che però “perdono qualche pezzo”…
Sì, perché sulla base delle evidenze che abbiamo è improbabile pensare che, se si facessero le elezioni, il campo largo otterrebbe la somma delle percentuali di voto delle tre componenti che allora si erano presentate divise. Qualche elettore, probabilmente, sceglierebbe di non votare la coalizione proprio a causa della presenza degli altri partiti.
Anche alle prossime regionali – Campania, Marche, Puglia, Campania, Valle D’Aosta, Veneto – l’unità del campo largo è l’unica strada per vincere? In alcune Regioni la strada verso un’alleanza sembra complicata…
Sì, senz’altro. È quello che è capitato in Umbria, se il campo largo non si fosse messo insieme avrebbe potuto perdere. La difficoltà è proprio restare tutti insieme. Ad esempio, a Genova c’è anche una componente che fa riferimento a quell’area di Azione, Italia viva e +Europa. È un’area che porrà comunque un problema per la costruzione di una coalizione a livello nazionale: si tratta di forze si mescolano più facilmente in elezioni amministrative, ma bisognerà vedere come andrà alle elezioni politiche.
A Genova e Ravenna il Movimento 5 stelle ha corso con il campo largo ed è arrivata una vittoria. A Taranto e Matera, dove presentava un proprio candidato, ci sarà il ballottaggio. È frutto solo delle dinamiche locali?Penso che si possa interpretare come la continuazione di una strategia, da parte del M5s nazionale, di non dimostrare di avere definitivamente aderito alla coalizione di centrosinistra. E d’altro canto è anche un’eredità del passato, quando gli esponenti locali del Movimento sono stati in aperto conflitto con la classe politica locale di centrosinistra, in particolare quella del Pd. È uno degli elementi che rende complicato prevedere cosa accadrà a livello nazionale.
Il risultato del centrodestra è preoccupante per il governo Meloni?
Direi che le uniche preoccupazioni su cui i leader possono prendere l’iniziativa, da una parte e dall’altra, riguardano le divisioni del loro campo. Da un lato, cucire un accordo che tenga insieme il Movimento 5 stelle e l’area europeista-liberale. Dall’altra, le tensioni latenti soprattutto tra Fratelli d’Italia e Lega, anche se a prima vista questi sembrano problemi meno acuti di quelli che il campo largo dovrà affrontare
Non mi sembra che ci siano i segnali di un grande cambiamento nell’elettorato nazionale rispetto a quanto abbiamo già visto negli scorsi anni. I risultati quindi dipenderanno dall’area geografica, dalla dimensione del Comune e dal formato delle coalizioni. Poi in alcuni casi conta anche la figura dei candidati, anche se apparentemente non è stato così nei due casi più in vista.
È così, al contrario di quanto ci si poteva aspettare ad esempio vista la novità della candidatura di centrosinistra a Genova. Nei due capoluoghi, nessuno dei candidati ha mostrato una particolare capacità di ‘pescare’ tra gli astenuti, né viceversa ha spinto più persone a non andare a votare.
Infine, l’affluenza. È stata sostanzialmente identica a quella di cinque anni fa, nei Comuni al voto, ed è arrivata al 56%. C’è chi, nel comitato promotore dei referendum dell’8 e 9 giugno, spera che sia un buon segno per il quorum da raggiungere. Lo èAlle amministrative ormai la tendenza è questa, con un’affluenza tra il 50 e il 60%. Ma bisogna considerare che si è arrivati al 53% nel contesto di competizioni che hanno mobilitato destra e sinistra. Nel caso del referendum c’è una la mobilitazione sostanzialmente di una parte sola. Può capitare di tutto, e sarebbe uno straordinario successo, ma sulla base dei dati che abbiamo è difficile immaginare che queste elezioni abbiano un effetto.

(da agenzie)

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PARLA FAUSTO BRIZZI, MARITO REGISTA DI SILVIA SALIS, NEO SINDACA DI GENOVA: “È UNA SPUGNA. IMPARA QUALSIASI COSA ALLA VELOCITÀ DELLA LUCE. AVREBBE POTUTO FARE QUALSIASI SPORT NELLA VITA, O QUALSIASI ATTIVITÀ. DOPO UN ATTIMO, SA FARE QUELLA COSA MEGLIO DI TE”.

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

“DAL CENTRODESTRA HO SENTITO TANTI ATTACCHI PERSONALI, ALCUNI INDEGNI. SI SONO RIVELATI CONTROPRODUCENTI. E’ STATO UN FAR WEST”

«Ancora per oggi (ieri, ndr ) sono il marito della sindaca e il papà del piccolo Eugenio. Da domani torno a Roma fare il regista».
Per tre mesi Fausto Brizzi ha messo da parte la sua professione, anche se
in realtà l’ha utilizzata adattandola alle esigenze della campagna elettorale, per dedicarsi al sostegno della moglie Silvia Salis. Deve riprendere la scrittura di un film e di una serie televisiva, ma chissà che l’impresa vincente della consorte non possa a sua volta diventare la trama di una pellicola.
Il titolo ci sarebbe già: «Primadonna». «Quello della campagna elettorale è un backstage non raccontato ancora, in un film italiano. Ci penserò» riflette Brizzi che non esclude nemmeno di girare un film su Genova. Lui qualche contaminazione con la politica l’ha avuta, visto che è stato il regista di alcune delle Leopolde di Matteo Renzi.
«Le mie idee sono sempre state di centrosinistra, non l’ho mai nascosto. Con Silvia c’è concordanza assoluta, anche se io non sono mai entrato nelle sue scelte».
Il regista è stato presente in tutte le tappe dell’intensa campagna elettorale. Sempre dietro le quinte. A chi gli chiede quale sia il segreto della neosindaca, risponde con un’immagine: «È una spugna.
Impara qualsiasi cosa alla velocità della luce. Avrebbe potuto fare qualsiasi sport nella vita, o qualsiasi attività. Dopo un attimo sa fare quella cosa meglio di te». L’abitudine alla competizione l’ha consolidata nello sport, dove ha conquistato dieci titoli italiani nel lancio del martello e due partecipazioni ai Giochi olimpici.
Ma quella politica è stata una gara con qualche stonatura che in famiglia sono state poco apprezzate. «Ho sentito tanti attacchi personali — conferma Brizzi — Alcuni davvero indegni. Non servivano e anzi, mi pare che si siano rivelati controproducenti. Chi ha governato la città per otto anni avrebbe dovuto puntare su altri argomenti. Evidentemente, non ne avevano».
Salis si è molto risentita, gli avversari l’hanno anche accusata di fare del vittimismo. Il marito spiega: «Lei ha applicato quello che si applica nello sport: il fairplay del linguaggio, ed è quello che insegna lo sport, dove se fai fallo vai fuori dal campo, mica continui a giocare. La politica è stato un far west in questi mesi».

(da agenzie)

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“IO CANDIDATO SBAGLIATO? NON SERBO RANCORE. MA HO IL RAMMARICO CHE SAREBBERO BASTATI DUE PUNTI IN PIÙ DAI PARTITI, FDI IN PRIMIS, PER ANDARE AL BALLOTTAGGIO”: PIETRO PICIOCCHI, IL FRONTRUNNER DEL CENTRODESTRA SCONFITTO DA SILVIA SALIS, REPLICA A LA RUSSA SECONDO CUI A GENOVA E’ STATO SBAGLIATO IL CANDIDATO

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

“SONO SORPRESO CHE CHI NON MI HA MAI CONOSCIUTO DICA CHE NON ERO IL CANDIDATO IDEALE. QUANDO FRATELLI D’ITALIA HA SOSTENUTO CON CONVINZIONE LA MIA CANDIDATURA FIN DALL’INIZIO. DOPO L’INCHIESTA TOTI S’È ROTTO IL RAPPORTO CON GLI ELETTORI”

“Mi sento ora “un po’ spaesato. Dopo otto anni di full immersion nel Comune, impegnato a gestire 25 deleghe, devo decidere se rimanere in Consiglio a fare opposizione. In molti me lo stanno chiedendo ma ci devo pensare”.
Così, al Corriere della Sera, Pietro Piciocchi, candidato del centrodestra a sindaco di Genova, sconfitto da Silvia Salis. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha detto che è stato sbagliato il candidato:
“Sono sorpreso che chi non mi ha mai conosciuto dica che non ero il candidato ideale quando Fratelli d’Italia ha sostenuto con convinzione la mia candidatura fin dall’inizio e la premier ha usato nei miei confronti parole di grande stima. Non serbo rancore a nessuno. Ma ho il rammarico che sarebbero bastati due punti in più dai partiti, FdI in primis, per andare al ballottaggio…”. ”
Le ragioni della sconfitta sono principalmente due. La prima risale al 7 maggio dello scorso anno, l’inizio dell’inchiesta che ha coinvolto Toti. Si è frantumato il rapporto tra il corpo elettorale e i cittadini che Toti aveva saputo cementare e che, di riflesso, aveva portato benefici anche a Genova.

Quella vicenda ha rianimato un’opposizione che era ‘morta’”.
Seconda ragione “un errore di comunicazione. Abbiamo dato grandissimo peso, anche nel messaggio ai cittadini, alle infrastrutture, trascurando implicitamente i servizi e le risposte alle esigenze quotidiane alle persone. Le abbiamo date, ma non ne abbiamo mai fatto un punto di forza”.
Un problema di arroganza? “Non ho questo difetto. Sicuramente ci sono persone che hanno avuto contrasti con Bucci. E qualcosa è ricaduto su di me”.
(da agenzie)

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CASO PARAGON, LUCA CASARINI: “CONTE MI HA SPIATO DAL 2019? CHIEDA SCUSA E AMMETTA L’ERRORE”

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

IL CAPO MISSIONE DI “MEDITERRANEA” DENUNCIA LE AMBIGUITA’ DI CONTE SULLE ONG

«Quando ho saputo che Giuseppe Conte aveva disposto la nostra sorveglianza usando i servizi segreti fin dal 2019, ammetto che mi e’ dispiaciuto». Inizia così una lunga riflessione di Luca Casarini, il capomissione di Mediterranea Saving Humans, in merito alla sorveglianza subita attraverso uno spyware dell’azienda israeliana Paragon. «Ricordo ancora qualche mese fa il dirigente della cybersicurezza, durante la deposizione in merito all’ultimo caso, Paragon, che candidamente ammetteva “a te ti abbiamo sempre spiato”.
Ma mi è dispiaciuto che la destra di governo, che sta anche approvando il famigerato decreto sicurezza, possa usare questa cosa per trovare l’alibi migliore possibile: lo fanno tutti, mica solo noi», scrive su Facebook.
Le «colpe» di Giuseppe Conte
«Se Conte ci ha fatto spiare, a noi di Mediterranea, fin dal 2019, non é stato perché le nostre biografie sono di quelle non proprio simpatiche al potere politico di ogni provenienza. Ma per il soccorso in mare. Era il periodo d’altronde, della teoria dei ‘taxi del mare’”», prosegue Casarini. L’attacco poi va diretto a Giuseppe Conte. «Quello che doveva far fuori la “casta” in Italia, e si ritrova ad essere oggi uno dei più grandi imboscati e garantiti, con stipendio d’oro, membri della casta europea. E quel “Giuseppi” di allora, stava al governo con il gatto e la volpe, al secolo Salvini e Piantedosi. […] Fu Conte il primo a metterci addosso i servizi segreti. Firma sua», scrive.
Casarini, nel suo lungo post di riflessione, si dice sicuro che «se la destra adesso gli chiuderà la bocca in Parlamento quando si proverà a dire che usare i servizi segreti contro attivisti, oppositori politici e giornalisti, è roba da regime, qualcun altro dirà “ma lo facevano anche quelli prima di me”». Per questo, è preoccupato che «quelli pericolosi che sono al governo, trovino una via d’uscita sbeffeggiando uno dei capi dell’opposizione in Parlamento, sostenendo che si era dentro una “notte in cui tutte le vacche sono nere”».
Il possibile incontro con Conte e le scuse mai fatte
Casarini fa sapere di aver chiesto un incontro a Conte per aprire una riflessione con lui sui diritti, le libertà e il rischio di uno stato di polizia. Ma, incalza, «per farlo Conte dovrebbe ammettere che ha sbagliato. Ma
fare questo, chiedere scusa, ammettere l’errore, addirittura fare dell’errore un’arma per il cambiamento e non qualcosa da insabbiare “speriamo che se ne scordino”, per la casta, è davvero difficile, mi rendo conto. Impossibile può darsi». Qui, la chiusa del suo discorso: «Se uno non riesce ad ammettere che ha sbagliato, profondamente sbagliato, se uno non riesce mai a chiedere scusa, vuol dire che il potere non può usarlo. Perché gli fa male, e soprattutto rischia di far male agli altri».

(da agenzie)

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AUTOSTRADE: IL MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE SI BOCCIA DA SOLO

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

INADEGUATEZZA DELLA VIGILANZA E MANUTENZIONI SPACCIATE PER INVESTIMENTI

«Chiare manifestazioni di inadeguatezza dei sistemi adottati nella gestione delle infrastrutture». Più limpido di così? Sono parole contenute nella relazione, tuttora riservata, della commissione tecnica del ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini, istituita il 9 agosto 2024 «per la valutazione dei piani di investimento» dei concessionari autostradali. In primo luogo, il nuovo piano di Autostrade per l’Italia (Aspi), rientrata da tre anni nell’alveo pubblico con i soldi della Cassa depositi e prestiti.
A che cosa e a chi esattamente si riferisca la frase, non è difficile capirlo, perché prende spunto dalle nuove regole introdotte dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici dopo il crollo del viadotto Morandi, il 14 agosto 2018, a Genova. «L’emanazione di dette direttive – è scritto a pagina 27 del rapporto – è finalizzata a procurare una maggiore sicurezza del comportamento di vigilanza e programmazione, considerati i casi di recenti chiare manifestazioni di inadeguatezza dei sistemi adottati nella gestione delle infrastrutture».
Il passaggio non si presta a equivoci. Se l’inadeguatezza della programmazione può riguardare magari il concessionario, non ci sono invece dubbi sul fatto che l’inadeguatezza della vigilanza riguardi il ministero. Cioè chi ha il compito di vigilare. E ora ammette, nero su bianco, di non averlo assolto come si doveva. Nulla che già non si sapesse ancor prima del disastro di Genova. Ma la conferma venuta ora proprio da chi avrebbe dovuto controllare che i concessionari rispettassero gli impegni presi nei piani approvati dallo stesso ministero, squarcia il velo su anni di negligenze e sciatteria, nella migliore delle ipotesi. Senza cancellare i sospetti di aperte connivenze, nella peggiore.
Non si può non rilevare che la commissione è presieduta da Elisabetta Pellegrini. Ingegnera che viene dalla Regione Veneto di Luca Zaia, unica donna a capo di un dipartimento, dove ha seguito il completamento della superstrada a pedaggio Pedemontana Veneta, gode della più completa fiducia del ministro delle Infrastrutture. Figura potentissima al ministero, è stata fortemente voluta da Salvini a capo della Struttura di missione per l’indirizzo strategico delle opere pubbliche.
Tuttavia non è solo per quella frase sulla «inadeguatezza» che il documento in mano a L’Espresso, datato 14 aprile 2025, può avere risvolti esplosivi. Il paragrafo intitolato «ASPI – Osservazioni» compreso fra le pagine 26 e 29 demolisce letteralmente il nuovo piano finanziario di Autostrade per l’Italia, allungando anche ombre sulla vendita della società dalla famiglia Benetton alla cordata guidata dalla Cassa depositi e prestiti. Quel piano presentato al ministero delle Infrastrutture dalla principale concessionaria autostradale prevede un aumento degli investimenti dai precedenti 14 a ben 36 miliardi. Una cifra enorme, che secondo Aspi avrebbe giustificato inizialmente la richiesta di una proroga di 15 anni della concessione, con la motivazione di non far gravare il costo di quegli investimenti sugli utenti con aumenti mostruosi delle tariffe. Peccato che quella somma, così spaventosamente cresciuta soltanto nel giro di un paio d’anni, sia dovuta ad altro. «Poiché risulta, da diversi atti ed eventi registrati, una carenza estesa di manutenzione almeno di oltre un decennio precedente al periodo attuale, ne deriva che le somme imputate per
manutenzione straordinaria non possono essere completamente riconosciute come investimenti», sentenzia la commissione ministeriale.
«Gran parte» di un incremento tanto vistoso, sostiene quindi il rapporto, è dovuto a «sottostima degli investimenti posti alla base della concessione»; ma anche, cosa decisamente più importante per la sicurezza, alla «sottostima della quantità di manutenzioni straordinarie poste a base dei contratti di concessione, anche come conseguenza della ridotta manutenzione ordinaria riscontrata negli ultimi anni».
Dunque, si fanno passare per investimenti le manutenzioni mai fatte nel corso del tempo allo scopo di sostenere un piano finanziario insostenibile? Fosse vero sarebbe gravissimo. E non potrebbe non far riflettere sull’operazione di cessione alla Cassa depositi e prestiti e ai fondi Blackstone e Mcquaire. Leggiamo: «Le principali cause d’incremento addotte dalla società concessionaria non sono pienamente condivise dalla commissione. Quest’ultima ritiene che gran parte dell’incremento sia riconducibile a una previsione sottostimata di tutte le opere da realizzare. L’ultimo atto aggiuntivo del 2022, che riporta gli investimenti, deriva dall’atto transattivo firmato nel 2021 (l’accordo fra gruppo Benetton e la cordata guidata da Cdp, ndr) e contiene stime effettuate negli anni precedenti, peraltro poco dettagliate. È di immediata considerazione che alla data delle recenti sottoscrizioni i valori di stima avrebbero dovuto essere già per lo più aggiornati rispetto a tutti i fattori di aumento di costo registrati fino al 2022 e pertanto molto più vicini agli attuali». E ancora: «La commissione tecnica non può non puntualizzare che la previsione con i relativi valori contenuti nell’atto aggiuntivo discendono dalla sottoscrizione di un accordo transattivo tra le parti per le note vicende (il crollo del viadotto Morandi, ndr) che quindi vincola in qualche modo anche ipotetiche rimodulazioni».
Posto che tutto ciò sia corretto, l’accordo che nell’autunno del 2021, durante il governo di Mario Draghi, ha portato la cordata pilotata dalla Cassa depositi e prestiti a pagare 8,2 miliardi per acquisire Autostrade per l’Italia, si sarebbe basato su stime dell’impegno finanziario futuro assai diverse rispetto alle attuali. Di conseguenza anche il valore economico della società stabilito per la transazione ne sarebbe stato influenzato.
La vicenda merita di essere seriamente approfondita, nell’interesse di tutti. Dello Stato acquirente e dei contribuenti, ma perfino della stessa società concessionaria. Non fosse altro, per fugare i dubbi oggettivamente posti dal rapporto ustionante della commissione tecnica. Questo anche alla luce della sentenza con cui la Corte di giustizia europea nel novembre scorso ha stigmatizzato il fatto che la tragedia di Genova sia sfociata in un accordo transattivo senza accertare le eventuali responsabilità del concessionario, anziché in una nuova gara come previsto dalle norme comunitarie.
Di sicuro la due diligence di Aspi disposta nel 2021 dagli acquirenti aiuterebbe a capire come davvero sono andate le cose. E siccome qui si parla di denaro pubblico speso per ricomprare un servizio pubblico, sarebbe assolutamente doveroso.
Quanto al tema delle manutenzioni, basta un’occhiata ai dati per farsi un’idea. Dal 2011 al 2023 Aspi ha contabilizzato spese per manutenzioni ordinarie pari a 4 miliardi e 735 milioni. Ma, sommando le voci degli interventi sulle opere d’arte (gallerie e viadotti) a quelli sulle pavimentazioni si arriva soltanto a 2 miliardi 731 milioni. Ballano, insomma, 2 miliardi tondi: mica bruscolini. E non è tutto qui. Perché la spesa per le manutenzioni ordinarie di gallerie e viadotti, decisamente modesta, s’impenna guarda caso a partire dal 2019, l’anno seguente al crollo del ponte Morandi. Dal 2011 al 2018 quella voce non aveva mai superato 55 milioni l’anno. Poi, improvvisamente, decolla a 304 milioni nel 2019, 450 nel 2020, 444 nel 2021. Per calare di nuovo a 179 e 111 milioni rispettivamente nel 2022 e 2023, quando la società era già passata di mano.

(da agenzie)

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LA MAFIA SUL PONTE NON E’ PRESUNTA, E’ UNA CERTEZZA

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

PERSINO MATTARELLA SI E’ RESO CONTO DEI GRAVI PROBLEMI CHE PONE LA REALIZZAZIONE DEL PONTE SULLO STRETTO

Persino il presidente della Repubblica si è reso conto dei gravi, e a volte drammatici, problemi che pongono il progetto e la realizzazione del Ponte di Messina. Mattarella ha centrato le sue perplessità soprattutto sulla possibilità di infiltrazioni mafiose negli appalti. Possibilità? Certezza. La mafia oggi è meno controllabile di un tempo, quello dell’epopea dei Riina, dei Provenzano e, da ultima, dei Messina Denaro (nomen omen) perché non ha più una struttura gerarchica ma si suddivide in rivoli di cento, mille, piccole mafie. Queste si ammazzano, ma sarebbe meglio dire ammazzano, per l’appalto di progetti infinitamente meno costosi e quindi meno appetibili di quello colossale del Ponte di Messina e certamente non si faranno sfuggire una polpetta avvelenata, un polpettone, ghiotto come la costruzione del Ponte. Il solo parlarne è come mettere un vampiro davanti a un lago colmo di sangue.
Ma prima di parlare dei problemi economici, ambientali, in terra e in mare, che pone la costruzione del Ponte sullo Stretto, sarà bene ricordare che siamo in un territorio sismico (L’Aquila, l’Irpinia). Il terremoto di Messina del 1908 uccise la metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella calabrese. Chi è favorevole al Ponte, in pratica solo Matteo Salvini e la sua cricca, sostiene che oggi ci sono i mezzi tecnici per fare una costruzione sicura. Ma la Natura ha soprassalti incontrollabili come dimostrano i tanti “eventi eccezionali” che avvengono in ogni parte del mondo. Si dice, prendendo dal latino, “natura non facit saltus”. Invece i salti li fa eccome, con buona pace di Leibniz.
Inoltre contro la costruzione del Ponte c’è il suo stesso peso, 887 mila tonnellate. Nei terremoti a essere pregiudicate sono innanzitutto le grandi costruzioni, non le piccole case, così come durante la tempesta sono le
querce le prime a essere abbattute perché oppongono più resistenza. Di più: se sei in un territorio sismico come è tutta l’Italia dovresti pensarci mille volte prima di azzardare un’opera come il Ponte. Gli indigeni delle Isole Andamàne, che sono soggette a devastanti maremoti, non costruiscono sulle coste perché, come tutti i “popoli primitivi”, così noi con disprezzo li chiamiamo, fanno esperienza della loro esperienza e non su ipotetici teoremi matematici.
Come se non bastasse, il Ponte pone gravi problemi ambientali, in cielo e in terra. In cielo perché lo Stretto di Messina è un collo di bottiglia dove devono necessariamente passare nelle loro migrazioni i più importanti volatili europei che sarebbero quindi costretti a cambiare le loro rotte sempre che riuscissero a sopravvivere. In terra perché il Ponte eroderebbe le coste soprattutto a est di Reggio. Una ventina di anni fa quando ero leader di Movimento Zero, ora in sonno (ma chissà che non lo risvegli con una sacrosanta violenza) mi trovavo spesso a Reggio perché attraverso il Movimento eravamo legati agli indipendentisti sardi e a quelli corsi. Era mia abitudine farmi portare dagli amici calabresi, anche d’inverno, a novembre, a dicembre, quando in realtà l’acqua è più calda perché risente ancora del calore dell’estate, il momento peggiore per chi ama nuotare in mare è aprile perché, al contrario, risente ancora del freddo dell’inverno, sulle coste a est di Reggio Calabria. Facevamo pochissimi chilometri per arrivare a rive dove si poteva fare il bagno. Una volta però mi accorsi che per una trentina di chilometri c’erano rive sassose e inabbordabili. Ne chiesi ragione ai miei amici calabresi. Risposero: “Sai, hanno costruito un porticciolo a est di Reggio”. Chiesi dunque di andare a vedere questo porticciolo. Era un porticciolo modestissimo, ma era bastato per rovinare 30 km di costa. Si può facilmente immaginare cosa può fare un’opera come il Ponte.
Il Ponte non lo vogliono né i calabresi né i messinesi, anche perché per salire all’altezza del Ponte ci metterebbero più tempo che a prendere il traghetto. C’è poi la questione dei necessari espropri. Dove andrebbero a vivere, in che contesto, e con che stress, persone che già in partenza sono contrarie al Ponte per ragioni anche psicologiche che non vanno sottovalutate (i calabresi dicono “noi siamo abituati da secoli e millenni ad
avere difronte un’isola”, i siciliani “noi siamo abituati da secoli e millenni ad avere difronte un continente”)? Infine noi italici siamo abituati a ragionare con i piedi ma a partire dalla testa, cioè dall’opera, senza aver creato prima le necessarie infrastrutture, nel caso messa a punto la disastrosa viabilità, ferroviaria e stradale, siciliana. Quasi inutile dire che i costi del Ponte sono nel frattempo lievitati a dismisura, per la gioia delle mafie: da 5 miliardi del 2001 ai 14,5 di oggi. Ma chi ha dato a Giorgia Meloni la demenziale idea di fare Matteo Salvini ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti? Qualcosa non quadra. C’è puzza di zolfo.

(da ilfattoquotidiano.it))

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BUSTA PAGA: STESSA ETA’, STESSO LAVORO

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

COME E’ CAMBIATO LO STIPENDIO IN 20 ANNI?

Quanto vale oggi la nostra busta paga rispetto a chi, alla nostra stessa età, lavorava dieci o vent’anni fa? Per rispondere a questa domanda abbiamo ricostruito l’andamento degli stipendi medi lordi per fasce d’età dal 2004 al 2024 di chi lavora in azienda. L’abbiamo fatto tenendo conto del reale potere d’acquisto, cioè al netto dell’inflazione. Il confronto mette in luce quanto è cambiata la capacità di spesa reale: cosa ci si poteva permettere allora e cosa oggi alla medesima età. L’obiettivo è misurare l’impatto concreto sulla nostra vita, generazione per generazione. Particolare attenzione sarà rivolta ai giovani, definiti una «risorsa strategica chiave per la competitività del Paese» (vedi rapporto Istat 2025 qui), ma da anni penalizzati da un sistema che tende a pagarli meno e a offrire meno prospettive. L’analisi si basa sui dati elaborati per Dataroom da ODM Consulting, società specializzata in indagini retributive. Nell’articolo prendiamo in considerazione il 2004, il 2014 e il 2024. I grafici in pagina raccontano l’intera evoluzione della busta paga degli ultimi vent’anni di tutte le fasce d’età.
Partiamo dei lavoratori nella fascia 41-50 anni. Nel 2004, lo stipendio reale medio lordo è pari a 29.813 euro all’anno, con un minimo ritocco all’insù a 30.009 euro nel 2014. Tuttavia, nel 2024 si registra un calo a 29.665 euro, con una riduzione dello 0,5% rispetto ai coetanei di vent’anni fa. Dal 2021 a oggi, la perdita di potere d’acquisto per questa fascia d’età sale al 4,8%.
Per i lavoratori tra i 51 e i 60 anni invece nel 2004 la retribuzione real media si attesta a 31.999 euro, a 32.375 euro nel 2014 e a 30.848 euro nel
2024. La diminuzione rispetto a chi aveva la stessa età vent’anni fa è del 3,6%. Dal 2021 ad oggi questa fascia d’età ha subito una perdita di potere d’acquisto del 7,7%.
Arriviamo ai giovani lavoratori nella fascia 25-30 anni. Nel 2004 la retribuzione reale media è di 22.530 euro, con un leggero aumento a 22.616 euro nel 2014. Nel 2024, si registra un calo a 22.426 euro, con una diminuzione dello 0,5% rispetto ai coetanei del 2004 e dello 0,8% rispetto a quelli del 2014. Dal 2021, la perdita è del 3,5%, percentuale inferiore rispetto alle fasce d’età più mature, ma questo dato va interpretato considerando che gli stipendi di partenza dei giovani italiani sono bassi che più bassi non si può. In Germania, i giovani lavoratori percepiscono retribuzioni superiori del 27,3% rispetto ai loro coetanei italiani.
La Generazione Z
Cosa vuol dire? Che in Italia chi fa parte della Generazione Z — cioè i nati tra il 1995-97 e il 2012 — entra nel mondo del lavoro ancora più svantaggiato rispetto ai giovani che l’hanno preceduto. Il contesto in cui questi trend vanno letti sono la crisi finanziaria del 2008, che ha determinato un lungo periodo di stagnazione salariale; la ripresa parziale del 2014-2019; la pandemia del 2020-2021 con i suoi effetti dirompenti sul mercato del lavoro; e l’inflazione che si è accumulata nel 2022, 2023 e 2024 con un aumento percentuale dei prezzi del 17%. Le misure fiscali adottate finora non sono state sufficienti a compensarla (qui Dataroom del 12 dicembre 2024).
Il tipo di laurea
Ovviamente, lo stipendio cambia anche in base al tipo di laurea. Vediamo la retribuzione media annua lorda d’ingresso per i neolaureati al 2024. Chi si laurea in discipline umanistiche inizia con 24.400 euro, che dopo tre anni di esperienza lavorativa aumentano a 27.300 euro. I laureati in discipline economiche partono da una base più alta, 27.342 euro, che dopo tre anni raggiunge i 31.900 euro. Infine, i laureati in discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica) godono di migliori prospettive retributive, con uno stipendio iniziale di 31.812 euro che dopo tre anni sale a 35.870 euro.
La fuga all’estero
In ogni caso c’è poco da essere contenti, e lo dimostrano i dati sulla fuga all’estero di chi ha tra i 18 e i 39 anni. Nel 2004 lasciano l’Italia 19.720 giovani, nel 2014 il numero è più che raddoppiato raggiungendo i 45.074 unità, e nel 2024 si tocca il record storico di 93.410 giovani che se ne vanno. Questi numeri riflettono la percezione diffusa di un contesto lavorativo italiano poco attrattivo, scarsamente meritocratico e con limitate opportunità di crescita professionale e retributiva. La combinazione di stipendi bassi e prospettive di carriera incerte rappresenta un potente incentivo all’emigrazione per molti giovani qualificati.
https://flo.uri.sh/visualisation/23420161/embed?auto=1
Ma cosa vogliono i Gen Z dal posto di lavoro? Decine di indagini raccontano tutte la stessa cosa, e cioè: voglio far parte del progetto e poter dire la mia; pretendo tecnologia adeguata, flessibilità, smart working e un buon equilibrio tra vita privata e lavoro; voglio sapere cosa mi aspetta, con chiarezza sul percorso di carriera e le opportunità di crescita.
Se queste condizioni mancano, i Gen Z hanno una maggiore propensione rispetto alle generazioni precedenti a cambiare lavoro. È il motivo per cui le aziende sono davanti a una nuova sfida. I baby boomer (nati tra il 1946 e il 1964) ancora in età lavorativa oggi sono circa 6,6 milioni (60-67 anni), mentre i membri della Generazione Z maggiorenni, già entrati o pronti a entrare nel mercato del lavoro, sono 7,4 milioni (18-29 anni).
Significa che se le aziende non si attrezzano, faranno i conti con un turnover mai visto prima, con gravi costi in termini di produttività, know-how e clima interno. I cambiamenti frequenti nel personale rendono più difficile costruire e mantenere un’identità aziendale coerente nel tempo. La sostituzione dei dipendenti comporta spese per il reclutamento, investimenti in formazione e tempo dedicato all’inserimento dei nuovi assunti. E quando ad abbandonare l’azienda sono i lavoratori più giovani, l’organizzazione rischia di perdere quella spinta all’innovazione e al cambiamento che caratterizza le nuove generazioni.

Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)

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IL BACIO TRA HITLER E NETANYAHU NEL NUOVO POSTER DI LAIKA

Maggio 28th, 2025 Riccardo Fucile

COMPARSO NELLA NOTTE A ROMA DAVANTI AL LICEO MANARA, E’ GIA’ STATO VANDALIZZATO… L’ARTISTA: “LA VERITÀ FA PAURA”

È ritratto nel poster della street artist mascherata Laika, ‘La Soluzione Finale’, ed è apparso nella notte tra il 25 e il 26 maggio davanti al liceo Manara, in via Basilio Bricci, a Roma. Nella nuova e provocatoria opera di Laika il dittatore nazista si complimenta idealmente con il premier israeliano per la conduzione della guerra a Gaza. Il riferimento alla “soluzione finale” nazista dell’artista è diretto e volutamente scioccante.
“Ho scelto un’immagine estrema per scuotere stampa e opinione pubblica. Il governo israeliano, con il sostegno di Stati Uniti, Unione Europea (Italia e Germania in testa), sta portando avanti una sistematica operazione di annientamento del popolo palestinese” dice Laika come riporta una nota del suo ufficio stampa.
“L’operazione ‘Carri di Gedeone’ è a tutti gli effetti una pulizia etnica. L’esercito israeliano ha già occupato l’81% della Striscia e ridotto la popolazione civile alla fame – sottolinea l’artista -; Gaza è una prigione a cielo aperto, oggi quasi completamente rasa al suolo, in cui sono morti decine di migliaia di civili, tra cui oltre 20.000 bambini. La fase successiva sarà la deportazione dei sopravvissuti”.
L’opera è un grido contro l’ipocrisia occidentale. Laika incalza: “L’Europa ha sanzionato la Russia per l’invasione dell’Ucraina, ma tace di fronte ai crimini israeliani. Il genocidio palestinese non solo è tollerato, è finanziato, mentre le proteste a difesa di questo popolo oppresso e martoriato vengono represse. Esorto anche tutte le comunità ebraiche a voltare le spalle a Netanyahu. Chi ha provato un dolore grande come l’Olocausto non può accettare le atrocità di Gaza”.
L’artista poi accusa anche il governo italiano, “che si definisce ‘pro-vita’, ma resta in silenzio davanti alla morte di migliaia di bambini, come nel caso di Alaa al-Najjar, pediatra e madre, cui un missile israeliano ha ucciso nove dei suoi dieci figli pochi giorni fa”. “Non abbiamo imparato nulla dal passato. La fine di Gaza coinciderà anche con la nostra fine in termini di democrazia e di difesa dei diritti umani” conclude Laika.
È durata meno di 24 ore l’opera della street artist Laika “La soluzione finale”. Nella notte tra il 25 e il 26 maggio sulle mura del liceo Manara in via Basilio Bricci, a Roma. L’opera è stata vandalizzata e strappata quasi del tutto. È rimasta, come mostra una foto condivisa su Instagram dalla stessa artista, solo una parte della sagoma di Hitler.
A commento della foto che mostra la sua opera, distrutta, l’artista scrive: “Quando la verità fa paura”. Aggiungendo poi: “Hanno ricevuto il messaggio”.

(da agenzie)

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