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300.000 IN PIAZZA A ROMA PER IL CESSATE IL FUOCO A GAZA

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

UNA MOBILITAZIONE OLTRE OGNI PIU’ ROSEA PREVISIONE.. GI INTERVENTI DI SCHLEIN, CONTE, FRATOIANNI E BONELLI

Schlein: «Il governo ha messo l’Italia dalla parte sbagliata»
Elly Schlein, leader del Pd e una dei quattro organizzatori del centro sinistra della manifestazione di Roma per Gaza è intervenuta per ultima dal palco allestito in piazza San Giovanni: «Basta con il massacro dei civili palestinesi, basta con il crimine di Netanyahu» ha esordito. «I morti non sono numeri fono famiglie spezzate sono distrutti, basta con le occupazioni illegali e con le distruzioni delle scuole e basta con gli spari sulle persone che vanno a chiedere cibo». «Come dice l’Onu è in corso una pulizia etnica, abbiamo assistito all’esecuzione di 15 medici e paramedici, bisogna fermare i crimini del governo, non può farlo il governo codardo di Giorgia Meloni che non è riuscito a esprimere una condanna di questo massacro» . «Siamo qui per chiedere lo sblocco di tutti gli aiuti umanitari indispensabili a una popolazione martoriata. Stanno violando ogni norma di diritto internazionale per questo noi chiediamo sanzioni ed embargo totale di armi da e verso Israele perché non vogliamo essere complici».
«La nostra critica a Netanyahu non è antisemitismo, noi continueremo a contrastarlo in ogni forma come il razzismo. Come si può rimanere fermi di fronte a quello che sta accadendo a gaza dov’è l’Italia? Gaza è dei palestinesi no dei multimiliardari amici del nostro governo, il governo italiano tace è sempre stato silente ma da quando è venuto Trump si è ammutolito del tutto, deve uscire dal suo silenzio complice e fare qualcosa a partire da una condanna del governo di Netanyahu. Bisogna farla finita con doppi standard del diritto internazionale. Il governo meloni ha messo l’Italia dalla parte sbagliata, tradiscono la tradizione diplomatica del nostro paese e disonorano la nostra storia. La presidente Meloni ha detto che non condivide le proposte del governo israeliano, ma i governo israeliano fa crimine. È ora che il governo italiano dia un segnate non rinnovando il memorandum di collaborazione con Israele mi rivolgo
alla presidente Giorgia Meloni: chiedo di ascoltare questa piazza e questo paese e di riconoscere lo stato di Palestina anche i palestinesi hanno bisogno di uno Stato, ascolti qui non si tratta di maggioranza e opposizione ma di umanità, non si rivolta dall’altra parte l’hanno fatto tanti paesi europei, Francia, Spagna, ascolti questi piazza i palestinesi non sono da soli la loro liberà è la nostra libertà, Palestina libera, due stati che convivano». La piazza grida «unità». E partono le note di «Bella ciao», in molti cantano e battono le mani. Sul palco sono saliti tutti gli organizzatori e hanno inviato al voto «Sì» ai referendum di domani.Conte: «Questo massacro non può proseguire con i nostri soldi»
Intervento accorato quello dell’ex premier e leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, tra gli organizzatori della manifestazione a Roma per Gaza, dal palco di piazza San Giovanni: «Questo massacro non può proseguire con i nostri soldi, voi siete l’umanità, stop al genocidio, Palestina libera». Conte ha anche detto: «Mettersi la mano sulla propria coscienza, perché è successo tutto questo? Perché i palestinesi sono poveri non hanno nulla da offrire in cambio ed è per questo che il nostro governo in compagnia di tanti altri governi e soprattutto in compagnia del primo governo complice gli Stati Uniti ha lasciato che tutto questo accadesse giorno dopo giorno».
Si tratta di, «oltre 60 mila vite distrutte di palestinesi a gaza, trucidati oltre 16 mila bambini, distrutti ospedali scuole, tutto questo lo chiamiamo genocidio». E poi: «Questo è un governo che quando vuole agire agisce rapidamente quando vuole salvaguardare lo stupratore di bambini lo fa in poche ore, invece poi si astiene tre volte all’Onu per non condannare un criminale che è un amico. E poi riesce a stringere le mani insanguinate di Netanyahu, un governo che non si è opposto alla revisione degli accordi tra Europa e Israele». «Ci insultano quando hanno licenziato le persone perché hanno invocato stop di questa mattanza, ci volevano ridurre al silenzio. Mi hanno insultato perché ho detto che dovevamo fermare tutte le forniture di materiale a Israele come ho fatto io nel 2021 con l’Arabia saudita non è questa l’Italia che vogliamo non è questo il governo che ci rappresenta. Il governo dovrebbe decretare stop all’embargo tutale di tutte le forniture militare».
Fratoianni a Meloni: “Se non riconosci la Palestina, sei ipocrita”
“Un governo codardo non è riuscito a pronunciare una parola di verità. L’Italia che in questi 600 giorni ha tenuto la schiena dritta e’ in questa piazza e restituisce dignità a questo paese”. Lo dice Nicola Fratoianni dal palco di San Giovanni, alla manifestazione per Gaza. “Al governo dico: come fate a dormire la sera. E’ arrivato il momento delle scelte. Non sopportiamo piu’ di vedervi in parlamento e dire la stessa cosa, ancora e ancora: abbiamo un impegno umanitario. Ma non siete a capo di una organizzazione umanitaria. Ci dicono che sono per due popoli e due Stati. Allora, Giorgia Meloni riconosci lo stato di Palestina. Altrimenti è solo ipocrisia”, aggiunge Fratoianni. “E siccome l’ipocrisia quando è ripetuta troppo diventa complicità, noi non siamo complici. Giorgia Meloni chieda sanzioni per lo stato di Israele. E’ il momento di dire basta. È un dovere”.
Bonelli contro Salvini: “Stringi le mani sporche di sangue di Netanyahu, sei la vergogna d’Italia”
Dal palco di piazza San Giovanni a Roma, il leader di Avs Angelo Bonelli si è scagliato contro il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. “A Salvini che è andato a stringere le mani sporche di sangue di Netanyahu dico: sei la vergogna d’Italia”, ha gridato. E ricordando “la disquisizione nominalistica sul genocidio”, ha domandato visibilmente commosso: “Che cos’è vedere una bambina correre tra le fiamme di una scuola bombardata? Vedere una bambina con un orsacchiotto in mano tra le rovine di una casa demolita per fare posto a una colonia israeliana e’ inaccettabile. Non posso dimenticare il bambino di sei anni all’ospedale del Cairo, dove sono andato a visitare i feriti palestinesi, che svegliandosi ha chiesto alla sua mamma: ‘Dov’e’ la mia gamba?’ Non posso dimenticarlo”, ha sottolineato Bonelli con la voce rotta dal pianto.
(da agenzie)

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MELONI STANZIA 94MILA EURO PER REALIZZARE UN VOLUMETTO IN MILLE COPIE CON IL BEST OF DELL’ANNO DI PRESIDENZA ITALIANA DEL G7

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

LE FACCETTE DI GIORGIA MELONI, GLI SGUARDI TORVI A MACRON, LE SBANDATE SUL PRATO DI JOE BIDEN: MOMENTI INDIMENTICABILI CHE LA DUCETTA VUOLE FISSARE SU CARTA PATINATISSIMA

Le faccette – diventate un iconico meme – con l’ex primo ministro britannico Rishi Sunak. La pizzica, le mozzarelle e i panzerotti con i grandi del mondo (e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano) nel cortile di Borgo Egnazia.
E, chissà, forse anche la “scorta” all’ex presidente americano Joe Biden un po’ smarrito sul prato della masseria Beneficio […] o gli sguardi torvi con il presidente francese Emmanuel Macron, con cui si scontrò sulla parola aborto da inserire o meno nelle dichiarazioni finali del summit.
Giorgia Meloni vuole immortalare l’anno di presidenza italiana del G7 appena concluso, culminato con il vertice in Puglia di giugno 2024.
E così a Palazzo Chigi hanno deciso di produrre un libro di propaganda con le migliori foto e la sintesi degli eventi organizzati dal governo italiano con i grandi del mondo.
Compresi anche gli eventi dei ministri nelle proprie città d’origine: dal G7 di Fiuggi dei ministeri degli Esteri guidati da Antonio Tajani a quello a Mirabello Eclano (Avellino) dei ministri dell’Interni
capitanati da Matteo Piantedosi. Un profluvio di foto, comunicati e dichiarazioni conclusive per esaltare le magnifiche sorti e progressive della nuova Italia meloniana nel mondo.
D’altronde per sostenere che dopo quell’evento l’Italia sia “tornata centrale” nei contesti internazionali (come ripete spesso la premier Meloni), a qualcuno bisognerà pur dirlo.
Così è nato il volume celebrativo da consegnare “alle istituzioni e alle delegazioni coinvolte negli eventi”, si legge nella delibera di tre pagine della Delegazione per la presidenza italiana del G7 di Palazzo Chigi che Il Fatto ha visionato.
La Presidenza del Consiglio – premettendo che questa è una “prassi” già successa nei “precedenti forum” – ha chiesto alla Zecca di Stato un preventivo per sfornare mille volumi: 500 saranno stampati in lingua italiana e 500 in lingua inglese per renderli comprensibili nelle principali cancellerie internazionali. Il tutto con le principali istantanee del G7 del 2024 e le relative descrizioni.
Un libro con carta riciclata e copertina low cost? Neanche per idea. Nella delibera di Palazzo Chigi si legge che per il libro servirà una “carta patinata di alta qualità e con copertina rigida”. Una sorta di album fotografico. Costo totale stimato: 94 mila euro, una media di 94 euro per ogni volume finanziati con i fondi che Palazzo Chigi ha stanziato per l’organizzazione del G7 a presidenza italiana.
(da Il Fatto Quotidiano)

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IL CRIMINALE NETANYAHU SI AGGRAPPA AI VIGLIACCHI ULTRAORTODOSSI PER TENERSI LA POLTRONA : VUOLE TRASFORMARE IN LEGGE DI STATO L’ESENZIONE DALL’ARRUOLAMENTO NELL’ESERCITO DEGLI ORTODOSSI

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

UNA MOSSA PER ACCONTENTARE L’ESTREMA DESTRA DELLA SUA COALIZIONE ED EVITARE LA CRISI DI GOVERNO. MENTRE I GENERALI AVVERTONO CHE ALLE FORZE ARMATE MANCANO ALMENO 10 MILA SOLDATI … ORMAI APPENA IL 37% DEGLI ISRAELIANI È CONVINTO CHE L’OPERAZIONE DI GUERRA RIPORTERÀ A CASA I RAPITI E SOLO IL 38,5% PER CENTO PENSA CHE PORTERÀ ALLA SCONFITTA DEFINITIVA DI HAMAS

La guerra che è diventata la più lunga combattuta da Israele dai tempi della fondazione contabilizza ormai 609 giorni e quasi 60 mila palestinesi uccisi. Nel 1948 il padre fondatore David Ben-Gurion era convinto di poter rinunciare all’arruolamento degli ultraortodossi, altri avrebbero imbracciato le armi per loro.
Settantasette anni dopo il premier Benjamin Netanyahu vorrebbe
trasformare quell’esenzione d’istinto in legge dello Stato perché solo così la sua coalizione di estrema destra può sopravvivere e il conflitto andare avanti.
Perfino Eyal Zamir, il capo di Stato maggiore voluto da Netanyahu, dubita che altre bombe e distruzione possano spingere Hamas alla capitolazione, al rilascio degli ultimi 56 ostaggi ancora tenuti, solo una ventina tra loro in vita.
Come lui la pensa la maggior parte degli israeliani: solo il 37 per cento — tra gli intervistati in un sondaggio dell’Israel Democracy Institute — è convinto che l’operazione Carri di Gedeone riporterà a casa i rapiti e il 38,5 per cento che porterà alla sconfitta definitiva dei fondamentalisti.
Così il primo ministro più longevo nella Storia del Paese prova a resistere al potere promettendo agli alleati religiosi che lo studio delle sacre scritture può sostituire l’obbligo di prestare il servizio militare obbligatorio. Sono i partiti dei rabbini a porgli l’ultimatum perché presenti la norma da approvare in Parlamento, mentre i generali avvertono che alle forze armate mancano almeno 10 mila soldati, dei quali 6 mila da arruolare nelle unità combattenti.
L’esercito non vuole la responsabilità per la distribuzione del cibo e il fondo umanitario che dovrebbe assicurare la sopravvivenza dei palestinesi non è in grado di garantire le operazioni: i centri dove la popolazione si ammassa ogni giorno per ottenere gli aiuti ormai funzionano solo nelle ore diurne, come se la fame potesse aspettare.
«Per il resto del tempo sono considerate zone militari» annunciano i portavoce dell’esercito. Chi si avvicina verrà colpito.
(da agenzie)

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VIOLENTATO E TORTURATO PER GIORNI AL CARCERE DI MARASSI DA 4 COMPAGNI DI CELLA, LA PROCURA INDAGA ANCHE PER OMESSA VIGILANZA

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

E’ NORMALE CHE UN RAGAZZO DI 18 ANNI VENGA STUPRATO E TORTURATO PER GIORNI (DA DUE ITALIANI E DUE EGIZIANI) E NESSUNA GUARDIA CARCERARIA SI SIA ACCORTO DI NULLA? COSA ASPETTA IL GOVERNO A TRASFERIRE I VERTICI DEL CARCERE?

E’ stato sentito a lungo nel pomeriggio di ieri dal sostituto procuratore Luca Scorza Azzarà il detenuto 18enne seviziato e violentato nel carcere di Marassi per almeno due giorni da quattro compagni di cella e li ha individuati uno ad uno dall’album fotografico che gli hanno mostrato gli inquirenti. Il ragazzo ha anche escluso la responsabilità di un quinto detenuto che non avrebbe partecipato alle violenze. Il ragazzo si trova in ospedale al San Martino: ha ottenuto i domiciliari e quando sarà dimesso sarà trasferito in una comunità sanitaria.
Trasferito per 6 volte da una cella a un’altra: non riusciva a stare con gli altri
Il 18enne, che era entrato in carcere per la prima volta a marzo, viveva in strada. Ha una storia di disagio e fragilità tanto che i famigliari (che vivono in Toscana) avevano interrotto i contatti con lui. Da marzo era stato già spostato ben sei volte tra le celle dentro il carcere di Marassi: non era un violento e non era mai stato picchiato, ma aveva difficoltà a rapportarsi con gli altri con tratti – trapela da fonti qualificate – oppositivi e talvolta provocatori. E proprio il fatto che si trattava di un ragazzo tanto giovane quanto problematico è uno degli aspetti che la Procura vuole approfondire anche acquisendo tutte le relazioni del carcere su questi continui trasferimenti da un cella a un’altra. Si tratta di accertamenti di cui anche gli ispettori ministeriali del Dap si stanno occupando e che potrebbero coinvolgere gli stessi vertici del carcere se dovessero
emergere profili di negligenza.
Gli accertamenti sull’omessa sorveglianza nelle celle
Poi c’è la questione della sorveglianza, visto che al momento la domanda che anche gli inquirenti si stanno facendo è come sia possibile che gli agenti di polizia penitenziaria addetti al controllo delle celle non si siano accorti di nulla per giorni. Secondo il regolamento carcerario infatti gli agenti a ogni cambio turno devono entrare dentro la cella e verificare le condizioni dei detenuti: se un detenuto è sotto le coperte dovrebbero accertarsi che sia vivo e che stia bene. Una persona privata della libertà personale perché ha commesso un reato, infatti, è sotto la diretta tutela dello Stato che dovrebbe garantirne l’incolumità e l’integrità fisica. Il protocollo è stato rispettato? E cosa hanno visto gli agenti? Il ragazzo oltre agli altri abusi aveva anche dei tatuaggi osceni sul volto, realizzati con un ago artigianale.
E’ evidente che essendo il carcere di Marassi tra i più sovraffollati la problematica della sorveglianza impatta sulla sicurezza degli agenti (che spesso devono intervenire in condizioni di inferiorità numerica) ma anche su quella degli stessi detenuti, come dimostra il numero dei suicidi e i tanti tentativi di gesti autolesionistici sventati dagli stessi agenti di custodia.
Sono stati i suoi aguzzini a chiamare aiuto: “Si è fatto male da solo”
Dopo le dichiarazioni del ragazzo la Procura iscriverà nel registro degli indagati i 4 aguzzini: due sono italiani, due egiziani. Hanno età comprese tra i 40 e i 23 anni ed erano tutti i carcere per reati di strada, spaccio, furti e rapine. Per loro, dopo che la sistematicità e la durata delle violenze è stata confermata dalla vittima si profila la doppia gravissima accusa di violenza sessuale aggravata e di tortura.
Anche loro sono detenuti in custodia cautelare e sono stati proprio loro martedì sera, dopo aver abusato del ragazzino per più giorni, a
dare l’allarme visto che il 18enne rischiava di morire: hanno chiamato loro le guardie carcerarie dicendo che si era “fatto male da solo”.
Nel giro di poche ora la voce si è diffusa grazie al tam tam del carcere e la mattina dopo tra chi è andato alla ricerca dei colpevoli e chi voleva difenderli è scoppiato il caos.
/da Genova24)

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“QUELLO DI GAZA E’ UN GENOCIDIO, LO DICE IL DIRITTO INTERNAZIONALE A PRESCINDERE DALLE OPINIONI”

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

INTERVISTA A MICAELA FRULLI, DOCENTE DI DIRITTO INTERNAZIONALE ALL’UNIVERSITA’ DI FIRENZE: “L’INAZIONE DI PAESI TERZI RISCHIA DI ESSERE SANZIONABILE”

“Il genocidio non è un’opinione”, dice a Fanpage.it Micaela Frulli, docente di diritto internazionale all’Università di Firenze che è da poco rientrata da Rafah, la città palestinese al confine con l’Egitto. “È una categoria giuridica definita con chiarezza dalla Convenzione del 1948”. E ciò che sta accadendo a Gaza “sembra concretizzarne i presupposti”: le condotte ci sono tutte, così come l’intento.
La parte che vale il tutto
Si tratta di chiamar le cose con il loro nome: “La distruzione anche parziale di un gruppo nazionale è sufficiente perché si possa parlare di genocidio”, spiega la giurista. Non importa, se nel mirino ci sono solo i palestinesi di Gaza e non tutto il popolo palestinese. È successo qualcosa di simile anche in passato: “A Srebrenica i soldati di Mladic uccisero solo gli uomini. Eppure quel massacro fu riconosciuto come genocidio”, ricorda l’esperta.
Era il luglio del 1995. Le unità militari della Republika Srpska a Srebrenica mica pensavano di ammazzare tutti i musulmani di Bosnia, no. Si limitarono – diciamo così – a trucidare 8.000 tra ragazzi e cittadini maschi di quella cittadina e dei dintorni. Il parallelo con Gaza, dove vive e muore solo una parte del popolo palestinese, è quasi ovvio. E a Gaza muoiono anche donne e bambini.
Gli Stati Uniti mettono il veto su una risoluzione dell’ONU per il cessate il fuoco a Gaza: è la quinta volta
Per il massacro di Srebrenica, il Meccanismo residuale per i Tribunali Penali Internazionali (Mict), che ha sostituito il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, ha condannato definitivamente all’ergastolo il generale Ratko Mladić e il suo capo, l’allora presidente della Republika Srpska Radovan Karadžić.
La Convenzione descrive Gaza
L’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948) elenca gli atti genocidari. I primi quattro sono: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; sottoposizione deliberata a condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti ad impedire nascite. A Gaza, “queste condotte sembrano essersi concretizzate”, osserva la professoressa Frulli.
Secondo lo stesso articolo, ciascuno dei comportamenti descritti è un atto genocidario quando ci sia l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Anche qui, condizione realizzata, fino a prova contraria: “L’intento esplicito di annientare un gruppo nazionale è stato dichiarato da esponenti di vertice del governo israeliano”, argomenta Micaela Frulli. Il riferimento è alle dichiarazioni pubbliche in cui ministri del governo Netanyahu e generali delle forze armate di Israele hanno definito “animali” i palestinesi, e auspicato una loro “distruzione totale”.
Gli obblighi per i Paesi terzi (noi)
Per il diritto internazionale, le responsabilità non sono limitate ai governanti del Paese che compie un genocidio. “C’è una responsabilità giuridica – concreta – anche per i Paesi terzi che non fanno nulla per prevenirlo”, sottolinea l’accademica. Infatti, l’obbligo generale di prevenire il genocidio – anche quando viene commesso da altri Stati – “vale per tutti i firmatari dellA
Convenzione”.
Obbligo rafforzato dalla risoluzione R2P dell’Assemblea delle Nazioni Unite (2005) e ribadito dalla giurisprudenza. In sostanza, per il diritto internazionale gli Stati terzi non possono rimanere inerti quando si verifica un rischio di genocidio, ma devono adottare misure per prevenire il crimine o reprimere gli autori. Devono almeno provarci.
La Corte dell’Aja (Cig), il più importante organo giudiziario dell’Onu, ha inoltre fatto chiarezza sul rapporto tra la responsabilità dello Stato e la responsabilità dell’individuo per atti di genocidio, stabilendo che uno Stato può essere ritenuto responsabile in relazione a condotte ad esso imputabili, anche se le persone responsabili del genocidio non sono cittadini dello Stato.
Almeno proviamoci
La Cig ha precisato che se gli Stati terzi agiscono diligentemente, secondo le loro possibilità politiche e considerando anche la distanza geografica, per impedire a un Paese di commettere il delitto di genocidio, non incorrono in responsabilità internazionale. Quindi, l’obbligo di prevenzione vale in modo diverso caso per caso, anche se riguarda tutti i contraenti della Convenzione. E a volte, la Corte è andata anche oltre i firmatari, parlando di obbligo erga omnes. Ovvero, per tutta la comunità internazionale.
Certo che se anziché sanzionare Israele si continua a fornirgli armi e a implementare accordi commerciali, si rischia – nel caso in cui il genocidio a Gaza venga dimostrato – di diventare corresponsabili. “Più stretti sono i legami con lo Stato che commette il genocidio, maggiore è la tua responsabilità nel prevenirlo”, si limita a dire Frulli.
Chiamare le cose col loro nom
Se le si obietta che non si può usare la parola genocidio quando non
ci sono ancora sentenze internazionali di condanna per chi l’ha commesso, la risposta della giurista è netta: “La legge definisce il crimine, non il tribunale. Anche in assenza di giudizio, un genocidio resta tale se ci sono gli elementi”. Altrimenti sarebbe come dire che un omicidio non è tale se l’assassino scappa e non viene processato.
Esistono rapporti delle Nazioni Unite, di Amnesty e di altre organizzazioni umanitarie che documentano in modo sistematico i crimini in atto. “Se mai si arriverà a una sentenza, ci vorranno anni”, riconosce Micaela Frulli. Ma questo non significa che non si debba parlar di genocidio quando si parla di cosa sta succedendo a Gaza.
Sfida alla Corte
Dopo l’ordinanza della Cig che imponeva misure per prevenire il genocidio, la situazione a Gaza è semmai peggiorata: fame, assedio totale, blocchi degli aiuti. I report che Israele è tenuto a inviare alla Corte sono segreti. Ma i fatti parlano chiaro. E questo peserà, quando si arriverà a una sentenza definitiva.
L’accademica fiorentina è da poco rientrata da Rafah, il valico egiziano per Gaza. Faceva parte di una delegazione di politici, giornalisti, giuristi ed esponenti della società civile. Ha potuto constatare il blocco degli aiuti umanitari, che marciscono negli autocarri. E ha parlato con le persone fuoriuscite dalla Striscia. “In realtà, i palestinesi lanciano un appello molto semplice”, afferma. “È un appello che richiama l’intero sistema giuridico internazionale alle sue responsabilità. E che interroga l’Europa e l’Occidente”.
È indicativo che siano sopratutto Paesi del Sud globale a promuovere azioni davanti alle corti internazionali. “È la prova che questi strumenti giuridici vengono ancora visti come risorsa dai Paesi che non detengono una forza militare significativa”.
“Il diritto serve e le parole contano
Dobbiamo guardare in faccia la realtà, contestiamo all’accademica:al diritto internazionale nessuno dà più peso. I casi di Mosca – con l’invasione dell’Ucraina e altro – e di Israele sono eclatanti. Ma possiamo parlare anche di Washington, con Donald Trump che sanziona i giudici della Corte penale internazionale. E dell’Italia, che ha rilasciato e riaccompagnato in patria su un comodo Falcon dei servizi il libico Osama Almasri, inutilmente colpito da un mandato di arresto della Cpi.
“Non è vero che il diritto internazionale non serve a nulla”, si arrabbia la professoressa. “È un gigantesco equivoco. Anche se non sempre ottiene giustizia, limita gli abusi, organizza la convivenza. Senza diritto internazionale non potremmo nemmeno usare il telefono o volare su un aereo. La Convenzione sul Genocidio fa parte della costruzione giuridica che ha seguito la Seconda guerra mondiale, sulle ceneri di milioni di morti. Per dire ‘mai più’. Il diritto va difeso”. Il fatto che non riesca a fermare un genocidio – già in atto o in divenire – non toglie valore allo strumento. Solo, richiede che venga utilizzato.
“Molti governi evitano la parola genocidio perché temono le conseguenze. Successe la stessa cosa per il Ruanda” (dove nel 1994 furono uccise tra 500 mila e un milione di persone, ndr), ricorda Micaela Frulli. “Ma non usare la parola non salva nessuno. Invece, il diritto può salvare”. E Gaza rischia di esserne la tomba.
(da Fanpage)

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ELON MUSK È UN TOSSICO SVALVOLATO, MA SUI RAPPORTI TRA EPSTEIN E TRUMP NON HA TUTTI I TORTI: IL TYCOON ERA UN GRANDE AMICO DEL FINANZIERE PEDOFILO NEWYORKESE, MORTO (UFFICIALMENTE) PER SUICIDIO NEL 2019

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

IL NOME DEL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO, INSIEME A QUELLO DEI FIGLI IVANKA, DONALD JR ED ERIC, ERA NELLA RUBRICA TELEFONICA DI EPSTEIN. DONALD VIENE CITATO A BORDO DEL FAMIGERATO “LOLITA EXPRESS” TRA IL 1993 E IL 1994 … NEL 2024 UNA DELLE PRESUNTE VITTIME DI EPSTEIN, SARAH RANSOME, RACCONTÒ CHE UNA SUA AMICA “ERA UNA DELLE TANTE RAGAZZE CHE AVEVANO AVUTO RAPPORTI SESSUALI CON TRUMP

Gli “Epstein files” sembrano l’unica cosa a interessare gli americani,
ventiquattr’ore dopo il clamoroso scontro tra Elon Musk e Donald Trump. Il miliardario sudafricano aveva parlato su X di «vera grande bomba»: «Donald Trump — aveva scritto giovedì — è nei file di Epstein. Questa è la ragione vera del perché non sono stati resi pubblici. «Segnatevi questo post — aveva aggiunto poco dopo — la verità verrà fuori». Poi aveva messo «sì» al commento di un follower che chiedeva se a questo punto Trump dovesse essere sottoposto a impeachment
Due deputati democratici — Stephen Lynch, del Massachusetts, e Robert Garcia, della California — hanno chiesto alla ministra della Giustizia Pam Bondi e al direttore dell’Fbi Kash Patel di accertare il ruolo del presidente: «Va chiarito subito se questa accusa sia vera e perché non sia stato pubblicato altro », dopo le cento pagine rivelate a febbraio.
Gli “Epstein files” sono una vasta raccolta — oltre duemila pagine — di documenti giudiziari, agende, contatti telefonici, registrazioni legate al finanziere newyorkese Jeffrey Epstein, arrestato nel luglio 2019 per traffico sessuale di minorenni e trovato morto in cella un mese dopo.
Gli investigatori hanno stabilito che il finanziere si è suicidato ma i complottisti trumpiani di Maga sono convinti sia stato eliminato per non compromettere big del mondo liberal, dall’ex presidente Bill Clinton al co-fondatore di Microsoft Bill Gates al filantropo George Soros. Epstein era stato accusato di aver creato, all’inizio degli anni duemila, un harem di ragazzine, anche di 13 e 15 anni, per soddisfare i piaceri sessuali di un ristretto giro di amici.
I principali file dell’inchiesta sono quattro. Il “Black Book”, la rubrica personale di Epstein in cui il milionario aveva segnato centinaia di numeri di telefono di personaggi influenti, dall’ex premier britannico Tony Blair all’ex primo ministro israeliano Ehu
Barak, i magnati Les Wexner, Richard Branson e Rupert Murdoch, gli attori Alec Baldwin, Chris Tucker, il cantante Mick Jagger e lo stilista Tom Ford.
Il secondo file riguarda il “logbook”, il registro dei voli sul jet privato del finanziere, il Lolita Express, usato per trasportare ospiti eccellenti verso le sue proprietà, inclusa un’isola privata alle Isole Vergini. Il terzo fascicolo riguarda testimonianze di vittime e collaboratori. Il quarto, atti delle cause civili e penali contro Epstein e l’ex amante e collaboratrice, Ghislaine Maxwell, condannata a vent’anni di carcere.
Il nome di Trump era già emerso in una pagina della rubrica telefonica del finanziere, assieme ai numeri dei cellulari dei figli Ivanka, Donald Jr ed Eric. Nei registri di volo, Donald viene citato sette volte a bordo del Lolita Express tra il 1993 e il 1994.
Nel gennaio 2024 una delle presunte vittime di Epstein, Sarah Ransome, raccontò che una sua amica «era una delle tante ragazze che avevano avuto rapporti sessuali con Trump». «Mi disse — aveva aggiunto — come lui continuasse a ripeterle quanto gli piacessero i suoi “capezzoli sodi”».
Negli anni ’90 il tycoon aveva magnificato la sua amicizia con Epstein, ricordando come a entrambi piacessero le «belle donne, anche giovani». Dopo l’arresto nel 2019 del finanziere, ne aveva preso le distanze. Senza fornire prove, Musk ha suggerito che tutto sia stato insabbiato per non compromettere il tycoon.
Molti hanno pensato allo strano dietrofront della ministra Bondi, che all’inizio del suo incarico aveva annunciato l’intenzione di pubblicare tutti i file ma poi si era limitata a mostrare alcuni stralci.
Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell, uniti negli affari e nella vita privata, hanno legato i loro nomi in uno degli scandali di abusi sessuali e traffico di minori più grandi e roboanti degli ultimi anni
Lui è morto suicida a 66 anni nel 2019 in una cella del Metropolitan Correctional Center di New York, dove era detenuto da un mese per accuse federali di traffico sessuale di minori. Lei, 64 anni, è stata condannata nel 2022 a 20 anni di carcere per adescamento di minori e altri reati commessi con o per conto dell’ex compagno Epstein.
Dell’oro che luccicava intorno alle immagini che li ritraggono sorridenti tra feste ed eventi, vicini a politici e famosi, oggi resta solo l’oscurità di una controversa vicenda che ha trascinato nell’abisso tanti dei suoi protagonisti.
Per ultima Virginia Giuffre – la grande accusatrice del principe Andrea, uno degli amici e clienti del finanziere pedofilo che la ragazza aveva denunciato nel 2021 – suicidatasi lo scorso aprile a 41 anni.
Affermatosi come gestore di fondi di investimento, Epstein era già finito in carcere nel 2008 in Florida con l’accusa di molestie su minori ma dopo 13 mesi di carcere era riuscito a strappare un controverso patteggiamento. Poi di nuovo l’arresto, nel 2019, per le nuove accuse di molestie su minori compiute dal 1999 al 2005.
Ad aiutarlo c’era Ghislaine Maxwell, accusata di aver adescato, manipolato e a volte anche partecipato agli abusi sessuali su minori. Secondo molte testimonianze, agiva come intermediaria, convincendo ragazze molto giovani a fidarsi e poi portandole da Epstein.
(da agenzie)

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LA NAVE DELLE ARMI E’ ARRIVATA “VUOTA” NEL PORTO DI GENOVA: PRESIDIO A PONTE ETIOPIA

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

I PORTUALI DI MARSIGLIA AVEVANO BLOCCATO L’IMBARCO DI MUNIZIONI PER ISRAELE

Un centinaio di manifestanti hanno partecipato questa mattina al presidio organizzato dal Calp, il Collettivo autonomo Lavoratori portuali, per verificare che la nave Contahip Era, che avrebbe dovuto avere a bordo armamenti destinati a Israele, fosse effettivamente vuota.
Questo perché due giorni fa i portuali marsigliesi, in coordinamento con quelli italiani, erano riusciti a non far caricare a Marsiglia 14 tonnellate di nastri per mitragliatrici.
Gli antimilitaristi genovesi hanno risposto comunque numerosi alla chiamata al presidio. Tra loro i volontari di Emergency e gli studenti di Cambiare Rotta che ribadiscono: “Non vogliamo essere complici
del genocidio a Gaza”.
La nave è arrivata alle 5 di stamani per uno scalo tecnico e dovrebbe ripartire dopo aver imbarcato beni di prima necessità. Il presidio rimarrà comunque finché la nave non riprenderà il mare.
Un piccolo gruppo di manifestanti, scortati dalla polizia ha dato anche vita a un piccolo corteo interno al porto per potersi avvicinare alla nave senza comunque raggiungere la banchina.
Sono stati accesi alcuni fumogeni e si sono susseguiti alcuni interventi al megafono, poi i manifestanti sono usciti dal porto attraverso il varco di via Albertazzi.
(da Genova24)

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LO STRANO NERVOSISMO SOVRANISTA ALLA VIGILIA DEI REFERENDUM

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

COME INTERPRETARLO?

Tutto considerato, il nervosismo della destra è inspiegabile. Il modo aggressivo, rancoroso e inutilmente polemico con cui i partiti e i giornali della destra stanno gestendo questi ultimi giorni di campagna elettorale per i cinque referendum e per i pochi ballottaggi delle amministrative, evidentemente, nasconde qualche preoccupazione che non siamo in grado di cogliere.
Ragionando freddamente, infatti, sono poche le insidie che sembrano attendere al varco Giorgia Meloni e i suoi sostenitori, alla vigilia della tornata elettorale dell’8 e 9 giugno.
Partiamo da una considerazione banale: il raggiungimento del quorum sarebbe un’impresa clamorosa, non soltanto data la tendenza a disertare le urne che ormai affligge il nostro Paese da anni. Peraltro, le opposizioni si sono divise in mille rivoli sull’appuntamento elettorale, con distinguo non sempre comprensibilissimi agli occhi dell’opinione pubblica. La scelta, per la verità non di tutti i sostenitori del referendum, di trasformarlo in un test sull’operato del governo, in tal senso, potrebbe essere un clamoroso regalo alla compagine guidata da Giorgia Meloni.
Il formidabile atto di sabotaggio messo in campo da gran parte della galassia informativa, in particolare da quello che teoricamente sarebbe il servizio pubblico, ha già garantito che i cittadini conoscessero il minimo indispensabile del merito dei quesiti, aiutando il centrodestra a nascondere le proprie contraddizioni in merito. Nella sostanza, non solo non si è aperto un dibattito su temi
centrali come la sicurezza sul lavoro, ma è emersa una visione distorta delle richieste dei promotori dei referendum (il caso della sovrapposizione tra concetti diversi come cittadinanza e immigrazione è emblematico).
Contestualmente, i sondaggi continuano a segnalare l’ottimo stato di salute dei partiti di maggioranza, con Fratelli d’Italia che galleggia intorno al 30% e rappresenta un caso pressoché unico di gradimento dopo due anni e mezzo al governo. Meloni, inoltre, sembra essere riuscita a recuperare un minimo di credibilità internazionale, o meglio a riprendere il controllo della narrazione sul tema, dopo clamorose figuracce e scelte azzardate di posizionamento (a proposito, chissà cosa pensa della rottura Trump / Musk).
Tutto o quasi, sembra andare nella direzione giusta per la causa meloniana. E allora, come si spiega questa scelta di alzare i toni sul referendum? Come va interpretata la posizione tra il ridicolo e il provocatorio della presidente del Consiglio rispetto al suo recarsi alle urne senza ritirare le schede? Perché l’ordine consegnato ai giornali di riferimento è quello di attaccare a testa bassa “la sinistra e le divisioni interne”, se la partita del referendum sembra semplicissima?
Non sarà che dal Paese stiano arrivando segnali contraddittori?
Leggere i giornali della destra forse può aiutarci a chiarire l’arcano. Su La Verità, alla cui festa Meloni è stata “intervistata” (si fa per dire) da Maurizio Belpietro, l’ex ideologo della destra Marcello Veneziani tradisce una certa preoccupazione sulle intenzioni degli italiani: “Se chiedi a un italiano se va a votare al referendum si arrampica sugli specchi per non dirtelo: nell’attesa che capisca come la pensi tu o se c’è nei paraggi qualche militante referendario, cominciano le contorsioni verbali, la danza dei verbi condizionali, la vaghezza di propositi, come se si trattasse di un impegno tra sei anni.
Oppure dichiarazioni reticenti del tipo: di solito vado a votare, se non ci sono imprevisti… O peggio, ci si barrica dietro impegni improrogabili quanto improbabili, ragioni climatiche, si scarica l’eventuale latitanza dai seggi sulla famiglia, il nonno da assistere, i figli da accompagnare alla recita o la moglie che esige dopo una settimana stressante che si vada al mare o a sistemare la casa di campagna. Magari addolcendo l’annuncio con una mezza promessa, ma se riuscirò a sbrigarmi in tempo, magari… Meglio non scoprirsi. È un’indole antica di noi italosauri, che esercitiamo d’istinto, per autodifesa, per paura del nemico, come se fosse pericoloso esporsi con un sì o con un no, o nel caso dei referendum con un vado o non vado. Non ti compromettere, dicevano un tempo le mogli prudenti. E noi stiamo sempre nel mezzo, tra il liscio e il gassato…
Ma come, non era tutto in discesa? Nel dubbio, Veneziani ci dice cosa farà: “Visti i reali obiettivi non vado a votare. Preferisco lasciare le cose come stanno e non perdere una mezza giornata a tornare in città, fingere di votare, e quando lo scrutatore mi offre la scheda, rispondere grazie ma ho già fatto colazione di schede a casa, oppure non desidero, sono astemio, sono vegano, non ho appetito referendario. Se non ci andrò se ne faranno una ragione, anche perché non sarò certo il solo…”
Ma è convincente un appello di questo tipo, che punta sulla poca rilevanza o sulla problematicità dei quesiti e sul contestare la tesi del voto come dovere civico? Non saprei, ma a giudicare dalle strategie degli altri giornali di area direi di no. Tant’è che, ad esempio, Libero preferisce puntare sulla caratterizzazione politica dei referendum, parlando di partita interna alla sinistra e ipotizzando traumi sul governo. Fausto Carioti spiega: “Vendono i referendum come lo strumento per migliorare le condizioni dei lavoratori e «rendere il Paese più giusto», come dice Elly Schlein. E con queste motivazioni
spingono sugli elettori di centrodestra, affinché pure loro vadano ai seggi. «Ci rivolgiamo a tutti», ripete da settimane Maurizio Landini. “Chiediamo a tutte e tutti di andare a votare”, predica la segretaria del Pd. E si capisce perché: si rivolgessero solo agli iscritti della Cgil e agli elettori di Pd, M5S e Avs, le possibilità di farcela sarebbero zero; così, invece, possono sperare di giocarsela. Ma è una bugia, una trappola, e tra loro c’è chi lo ammette. Tipo Francesco Boccia, il capogruppo del Pd al Senato. Parole sue di ieri, testuali, rilasciate a Radio Cusano: “La premier Meloni ha preso alle elezioni 12 milioni e 300 mila voti, se al referendum andassero a votare 12 milioni e 400mila persone, sarebbe un avviso di sfratto alla presidente del consiglio. Significherebbe che un pezzo di Paese sul lavoro e sulla cittadinanza le sta dicendo “non ci piace come stai governando”
Le vere poste in gioco sono altre, ambedue politiche. Una riguarda i rapporti interni alla sinistra. Se la partecipazione sarà alta, Schlein potrà dire di aver chiuso i conti col “vecchio” Pd, al quale si deve il Jobs Act. La seconda partita è quella che Boccia, bontà sua, ha illustrato in termini tanto chiari: l’obiettivo del referendum è «dare un avviso di sfratto» a Meloni.
È chiaro che un elettore di centrodestra, in questo senso, non avrebbe interesse ad andare a votare. Una linea che piace molto anche a Il Tempo e al Giornale, che spingono molto sulle divisioni interne al Partito democratico. Ma è sempre il quotidiano di Sechi a picchiare più forte: Libero infatti rispolvera Gianluigi Paragone, che scrive un duro pamphlet sul “Popolo che ha scaricato la sinistra e i sindacati”. Nella lettura dell’ex leader di Italexit, infatti, “la gente non sa perché non ne vuole sapere di essere informata nel senso che ha scelto di chiudersi per non sapere. In poche parole, è una questione che non interessa”. Questo perché si tratta di una contesa interna alla sinistra, utile solo a Schlein e Landini per rafforzare le loro posizioni,
secondo il giornalista: “La Schlein sta chiedendo il voto agli italiani contro una legge approvata dal suo stesso partito; è un regolamento di conti contro quel pezzo di partito che ancora oggi non vuole uno scivolamento a sinistra. Landini invece fa di più, cerca di coprire il suo fallimento in questi anni di segreteria e proporsi come politico più che come sindacalista”.
Insomma, un fuoco di fila teso a coprire tutte le basi, dal merito dei quesiti al pericolo di rafforzare Schlein e Landini, con annessa paura di contraccolpi sulla stabilità del governo.
E meno male che sono tranquilli.
(da Fanpage)

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IL “DAZISMO SENZA LIMITISMO” DI DONALD TRUMP COLPISCE ANCHE UNO DEI SIMBOLI DELLA “DEEP AMERICA” TRUMPIANA: IL JACK DANIEL’S

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

IL GIGANTE DEI SUPERALCOLICI HA DICHIARATO CHE SUO FATTURATO NETTO È DIMINUITO DEL 5% RISPETTO A UN ANNO FA, MENTRE L’UTILE NETTO HA SEGNATO UN -15% … IL CROLLO È DOVUTO DAL CALO DELLE VENDITE ALL’ESTERO

Il produttore del whisky Jack Daniel’s Tennessee Whiskey, Brown-Forman, ha registrato un calo delle vendite a causa delle condizioni di mercato difficili generate dai conflitti commerciali globali e della contrazione dei consumi.
Il gigante dei superalcolici con sede a Louisville, nel Kentucky, ha dichiarato che il fatturato netto dell’intero anno fiscale, pari a quasi 4 miliardi di dollari, è diminuito del 5% rispetto a un anno fa e del 7% nel quarto trimestre. L’utile netto è diminuito del 15% per l’intero anno fiscale e ha registrato un crollo del 45% nel quarto trimestre conclusosi il 30 aprile, ha affermato la società.
Il calo trimestrale è arrivato quando Brown-Forman e altri produttori di alcolici statunitensi che dipendono fortemente dalle vendite all’estero hanno risentito delle ripercussioni dei piani tariffari radicali del presidente Donald Trump e dell’ansia dei consumatori per l’economia. L’amministratore delegato di Brown-Forman, Lawson Whiting, ha previsto un altro anno difficile. «L’anno fiscale 2025 è stato un anno diverso da qualsiasi altro che abbia visto negli ultimi trent’anni», ha dichiarato durante una teleconferenza con gli analisti di mercato del settore.
Whiting ha citato i dati del settore che mostrano che molti consumatori stanno acquistando bevande alcoliche in confezioni più piccole. Lo ha definito un fenomeno insolito e ha affermato che riflette un consumatore «che ha le tasche vuote e va al negozio con 10 dollari invece che con 20 e poi compra la confezione più piccola». «I consumatori e i loro portafogli semplicemente non hanno più tanti soldi», ha proseguito.
Nelle sue previsioni per il prossimo anno, la società ha affermato che le sfide includono la continua incertezza dei consumatori e il «potenziale impatto dei dazi attualmente sconosciuti».
«Sappiamo che è una situazione molto instabile», ha affermato Leanne Cunningham, CFO dell’azienda, rispondendo a una domanda sui dazi durante la teleconferenza. «Nessuno di noi può prevedere cosa succederà».
I dirigenti di Brown-Forman hanno dichiarato che i marchi di alcolici americani rimangono per lo più fuori dagli scaffali dei negozi in Canada. Trump ha fatto infuriare i canadesi con la sua guerra commerciale e le richieste di rendere il Canada il 51° stato. Nel frattempo, i risultati annuali di Brown-Forman hanno mostrato che le vendite nette dei suoi prodotti a base di whisky sono rimaste invariate. La crescita registrata dal Jack Daniel’s Tennessee Whiskey e dal marchio Woodford Reserve è stata compensata dall’effetto negativo dei cambi e dal calo delle vendite di altri prodotti super premium Jack Daniel’s, ha affermato la società.
A gennaio, Brown-Forman ha annunciato la riduzione del personale a livello globale di circa il 12% e la chiusura dello stabilimento di produzione di botti nella sua città natale, Louisville. Whiting ha ribadito che tali misure dovrebbero consentire un risparmio annuo compreso tra 70 e 80 milioni di dollari.
(da agenzie)

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