ALLUVIONE GENOVA, LO SCANDALO DI UN PIANO FANTASMA CHE NON C’E’
IL PROTOCOLLO UFFICIALE BOCCIATO… UN ACCORDO DEL 1998 PREVEDEVA UN DETTAGLIO PER OGNI ZONA A RISCHIO CHE NON E’ MAI STATO SCRITTO
Carlo Barabino, architetto e urbanista genovese che progettò il Teatro Carlo Felice e il cimitero monumentale di Staglieno, ebbe pure un compito ingrato dopo l’alluvione che colpì Genova nel novembre 1822.
Dovette ispezionare, in tredici giorni, buona parte delle sponde del torrente Bisagno, e nello stesso tempo indicare i danni e compilare l’elenco degli interventi e delle cose da fare o non fare mai più, realizzando ciò che oggi sarebbe definita una superperizia. Un lavoro a tempo di record ed è vero che quella di Barabino, cui la sua città ha dedicato una delle vie più importanti del centro, era tutta un’altra storia.
E però oggi che proviamo a cercare la verità sull’ennesimo sfacelo nella macchina della prevenzione, sembra quasi un eroe.
Perchè all’ombra della Lanterna, dal 1998, non si è trovato il tempo di elaborare un piano di emergenze «specifico» per le zone maggiormente a rischio, nonostante il Comune fosse obbligato a farlo.
QUARTIERI ORGANIZZATI SOLO DOPO LE TRAGEDIE
Non solo. L’unico protocollo vigente, firmato nel 2009 dal sindaco Marta Vincenzi (che oggi è a processo per la strage dopo l’esondazione del Fereggiano nel novembre 2011) è stato ritenuto «generico» e «totalmente mancante» su alcuni punti da ben due autorità , non proprio secondarie: la Procura della Repubblica e il Comune stesso (non è uno scherzo), poichè una Commissione ad hoc creata tre anni fa a Palazzo Tursi disse che non andava bene.
Genova, una delle città che l’Europa definisce più pericolose in caso di pioggia, non ha insomma un dossier d’emergenza affidabile, e men che meno una serie d’istruzioni dettagliate sul da farsi nei punti più pericolosi.
Gli unici due documenti decenti – è quasi inutile dirlo – sono stati compilati quando i buoi erano già scappati.
Occorre subito sgombrare il campo da un dubbio.
I piani d’emergenza anti-alluvione sono tutt’altro che grigi incartamenti burocratici. Molto semplicemente, sono l’unica cosa che può salvare la vita in un centro violentato da settant’anni di cemento.
E i cui amministratori (finora) non sono stati in grado di realizzare le opere strutturali necessarie, tanto poi danno la colpa al Tar.
Per capire insomma cosa vuol dire essere sprovvisti di quei carteggi, basta riprendere una relazione scritta da cinque studiosi su incarico dei pm genovesi non più tardi di un anno e mezzo fa: «Queste mancanze rendono molto difficile affrontare con efficacia l’emergenza, dove ogni fase deve prevedere una serie di azioni da svolgere secondo determinate istruzioni, da parte di precisi attori, secondo una sequenza temporale ben chiara e utilizzando mezzi e risorse conosciuti a priori… Tutto questo è di fondamentale importanza, poichè non si può lasciare spazio a iniziative individuali soggettive, incomprensioni ed errate interpretazioni personali».
Bisogna sapere al millimetro quali strade chiudere nei singoli quartieri, quali appartamenti sgombrare, e i cittadini devono conoscere tutta la scansione per non creare caos.
A Genova succede? No, tranne nei due posti dove le piogge hanno già seminato morte e terrore. E gli sgomberi in apnea delle ultimissime ore, frutto di segnalazioni estemporanee, ne sono un’implicita conferma.
Bisogna quindi chiedersi: cosa sarebbe successo se il centro meteo avesse dato l’allerta qualche ora prima della piena del Bisagno nella zona di Borgo Incrociati?
Il sistema prevede sostanzialmente questo: i previsori della Regione informano la Protezione civile (regionale).
Questa comunica alla prefettura e soprattutto al Comune (che può chiedere l’ “appoggio” della prefettura stessa) il livello di attenzione o d’allarme.
Ma la palla, nella fase calda, è tutta nelle mani del municipio.
Su cosa si basa quindi il medesimo Comune?
Sul «Piano comunale di emergenza – schema operativo per la gestione delle emergenze meteo-idrologiche».
Funziona bene? No. E non è un’opinione empirica. Basta leggere cosa ne scrivono Alfonso Bellini (geologo), Marco Masetti (geologo). Nunzio Siviglia (ingegnere idraulico) e Marco Tubino (ingegnere idraulico).
Gli stessi esperti che – relazionando i pubblici ministeri dopo lo sfacelo del Fereggiano – rimarcavano quanto fosse importante avere dei prontuari adeguati: «Risulta alquanto generico o totalmente mancante sulla parte più importante», ovvero «uno specifico documento che spieghi cosa si deve fare in ogni singola e determinata area».
Si chiamerebbero “Piani di dettaglio”, ma a Genova sono stati realizzati solo per i quartieri sommersi l’anno prima
È normale? Proprio no. E qui c’è un’altra chicca da rivelare, che rende bene l’idea sul modo in cui vengono rispettati i tempi degli accordi fra enti pubblici.
Nel marzo 1998 Comune, Provincia e Regione – tutte rette da maggioranze di centrosinistra – siglano un protocollo d’intesa per affrontare l’emergenza Bisagno.
Si dice, come sempre, che servono due opere idrauliche complesse e costose. Ma nella parte conclusiva si spiega che «indipendentemente dallo stato delle progettazioni», occorre «un piano operativo di protezione civile per il bacino del Bisagno», da attivare «con urgenza».
DOCUMENTI CRUCIALI ATTESI DA SEDICI ANNI
Significa per esempio che la zona di Borgo Incrociati, che del bacino del Bisagno fa parte e dove un uomo giovedì sera è morto, dovrebbe avere uno schema millimetrico da circa sedici anni. C’è di più.
A dimostrazione dell’importanza di dare compimento a quelle decisioni in maniera tempestiva, si nominò un «comitato di coordinamento», investito del compito di «coordinare e verificare l’attuazione del presente protocollo».
Di verificare insomma che il decalogo anti-disastro fosse scritto e diffuso «con urgenza» (sedici anni fa) dove si rischiava di più.
Da chi era composto il team di controllori che avrebbero dovuto garantire la stesura-lampo?
Romolo Benvenuto, ex assessore regionale alla difesa del suolo, Paolo Tizzoni, vicepresidente della Provincia e Claudio Montaldo, ex vicesindaco, oggi vicepresidente della giunta regionale e assessore alla Salute.
Il Comune di Genova aveva invece come primo cittadino Giuseppe Pericu, la Provincia era guidata da Marta Vincenzi e la Regione da Giancarlo Mori
L’unico modo per avere dei pacchetti di norme efficaci, è aspettare che qualcuno ci lasci la pelle.
Tant’è che il solo «Piano di emergenza di dettaglio» è stato concepito per Sestri Ponente, dopo l’alluvione del 2010 (12 anni dopo l’ordine di «fare presto»), a tragedia avvenuta. E infatti, quando l’anno successivo arriva la nuova perturbazione, che ucciderà sei persone lungo il Fereggiano, Sestri si avvicina alla calamità molto preparata.
Vengono sgombrate le strade, dirottate le auto, chiusi e protetti negozi e scuole con tempismo perfetto. Precauzioni ottime, ma adottate lì e soltanto lì, non dall’altra parte della città .
Avvenuto il massacro di via Fereggiano, ecco che l’anno dopo, con un’ordinanza, si disciplina l’emergenza pure da quelle parti, strada per strada. E infatti nel 2012 e nel 2013, piogge inferiori ma comunque forti e concentrate sulla Val Bisagno medio-alta, non accade nulla.
Manca tuttavia sempre il “dettaglio” a ridosso del Bisagno. Perciò, se fosse scattato l’allerta qualche ora prima, le armi in mano al Comune sarebbero state “spuntate”.
Va ricordato che il prontuario comunale del 2009, per quanto «insufficiente», è stato ritoccato con altre ordinanze-tampone, in particolare sulla chiusura tout-court delle scuole in occasione dell’allerta 2.
C’è poi una beffa. Venerdì scorso, giorno successivo al disastro, in giunta l’assessore alla Protezione civile Gianni Crivello avrebbe presentato il nuovo Piano di emergenza ufficiale, che prevede(va) di contattare quasi 120 mila genovesi in tempo reale e il controllo dei torrenti con una serie di telecamere.
La natura, come sempre, ha fatto prima.
C’è un ultimo dato, che certifica invece il sistema a tentoni con cui si è proceduto giovedì 9, in assenza di un’allerta specifico dal centro meteo della Regione (vedi grafico in questa pagina per le cifre, ndr).
Il Comune, che da ieri è in grado di schierare 600 volontari di protezione civile e 50 pattuglie di vigili urbani per turno, aveva affrontato la giornata con un organico standard, pre-allertando soltanto (va ricordato, in assenza di un allarme specifico da chi lo doveva dare) tre squadre di volontari, e aggiungendo quattro auto di vigili solo a partire dalle 17,30.
Quando la situazione è precipitata era ormai tardi per schierare un esercito, nel senso dei numeri. E solo nel giro di diverse ore si è arrivati a cifre importanti.
Fermo restando che centinaia di persone hanno scelto di prolungare senza sosta gli orari per aiutare la propria città .
Interessante il discorso su polizia e carabinieri. Nel loro caso, aldilà della generosità dei singoli, manca un coordinamento specifico con la Protezione civile comunale, e non è prevista una reperibilità altrettanto “specifica” sulle emergenze meteo in una posto abbonato come Genova.
«Diciamo che sul tema c’è poca sensibilità a livello centrale – spiega Roberto Traverso, segretario provinciale del sindacato Silp – mentre il Ministero dell’Interno è molto più solerte e organizzato se in ballo ci sono partite di calcio…».
Marco Grasso e Matteo Indice
(da “il Secolo XIX”)
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