“CIAO SPLENDORE, SONO ALLA 506”: BOBO E “LA REGINA DI TOKYO”
MARONI, DA ASPIRANTE STATISTA A ESTREMISTA? PER RESPINGERE LE ACCUSE PIU’ CHE I PROFUGHI
Di Roberto Maroni, almeno nella Lega, ce ne è sempre stato uno. Equilibrato, rassicurante, al limite grigio ma non esente da guizzi, sposato con una compagna classe, tre figli, sempre uguale a se stesso.
Di recente, pare invece che da uno si sia fatto bino: e il bello è che nessuno dei due Maroni di oggi sembra somigliante al Maroni di ieri.
Ce ne è uno, per dire, grafomane: due lettere ai prefetti lombardi in quattro giorni, roba che nemmeno Angelino Alfano.
Grafomane e appassionato alla causa no-immigrati persino più di Matteo Salvini e Beppe Grillo messi assieme: diffida i comuni lombardi ad accoglierli, dice che il governo ha una gestione “inadempiente” e “improvvisata” nella distribuzione dei migranti alle regioni, spiega che bisogna “sospendere Schengen”, “impedire le partenze con il blocco navale”, “fare campi profughi in Libia”.
L’altro Maroni, quello che spunta dalle carte dell’inchiesta milanese condotta dal pm Eugenio Fusco, è altrettanto inedito: uno che scrive “ciao splendore” alla sua ex collaboratrice Maria Grazia Paturzo, secondo i magistrati legata a lui da una “relazione sentimentale”, la invita in camera al berinini bristol “sono alla 506”, si impegna per un (poi mancato) viaggio a Tokio, e soprattutto per far ottenere a lei e un’altra amica un paio di contratti di lavoro, in Expo e in Eupolis.
Ancora non è ufficialmente stabilito se si tratti di comportamenti penalmente rilevanti: ad ogni buon conto, nell’avviso di conclusione indagini, il pm ipotizza induzione indebita e turbata libertà nella scelta del contraente.
Insomma, sul Maroni supposto gaudente pende ora la tegola giudiziaria, potenzialmente in grado di abbattersi anche sotto forma di legge Severino, ossia di sospensione dalla guida della Regione. Si vedrà .
Ma intanto, che imbarazzo, che disagio, che disdetta.
Proprio adesso che il governatore della Lombardia per dirla col Foglio era “uscito dal coma”, rilanciando la Lega verso Forza Italia, lanciando Salvini verso le primarie.
Proprio adesso che dopo anni da pacato amministratore, pareva pronto a lanciarsi di nuovo nell’agone della politica sanguinolenta.
E va bene che, dopo i Belsito e Trota e i diamanti, la Lega di un tempo non c’è più da un pezzo, e va bene che non ci sono più le mezze stagioni, però che l’ultima primavera portasse via anche l’immagine che Maroni si è costruito in oltre un ventennio di politica leghista toglie anche l’impressione che qualcosa il tempo lo salvi.
Immalinconisce, oltretutto.
Nella Lega bossiana di lotta e di governo, Bobo era quello di governo. Ragionevole, sorridente, accomodante, al limite di sinistra (e non solo per il passato remoto, da ragazzo, nel gruppo marxista-leninista o in Democrazia proletaria), appassionato di musica e addirittura suonante l’Hammond o il sax nel suo gruppo, il Distretto 51.
Mai un pettegolezzo, mai un capello fuori posto, figurarsi inchieste.
Poi, dopo tante stagioni da autorevole secondo, il grande passo: sfilare al bossismo decadente il Carroccio, farselo intestare, diventare lui il capo.
Ricostruire un minimo sindacale di credibilità , a colpi di ramazza. E, dopo diciotto mesi di transizione difficilissima, il capolavoro politico, l’accordo di spartizione che (salvo il caso Tosi) ha funzionato magnificamente: chiudersi in regione, passando lo scettro — la scopa magicamente tramutatasi in felpa — a Matteo Salvini, l’artefice del risorgimento leghista, dell’inimmaginabile riscossa.
Ma, al di là della verità processuale ancora tutta da stabilire, c’è intanto questo pastrocchio di immagine, nel quale l’unità almeno pubblica del personaggio pare essersi andata a farsi benedire.
E un giorno Maroni tuona contro gli immigrati, un altro litiga con Renzi e con Alfano e smentisce gli accordi che lui stesso aveva siglato da ministro, un altro finisce in prima pagina per gli sms imbarazzanti, i curruculum tutti da inventare (“ma che ci devo scrivere? Io non ho fatto un cavolo”, dice Paturzo ad una amica), le raccomandazioni che la madre della sua ex collaboratrice fa alla figlia: “A Tokio vai a fare la regina”.
E più escono notizie giudiziarie, più il governatore lombardo picchia duro sui migranti, e scrive, e avverte, e minaccia: quasi che respinger loro sia respingere il resto.
O serva, per lo meno, a non pensarci.
Susanna Turco
(da “l’Espresso”)
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