CITTADINANZA, LA LEZIONE DELL’ESTERO
IN ITALIA E’ SORTA UNA POLEMICA STRUMENTALE, IN EUROPA NESSUN APPROCCIO IDEOLOGICO, MA RICERCA CONCRETA DI SOLUZIONE AL PROBLEMA
L’ annuncio della ministra Kyenge di volere facilitare l’acquisizione della cittadinanza per i bambini nati in Italia ha suscitato anche reazioni negative.
Eppure, riaprire la discussione su una possibile riforma, partendo dai minori, significava muovere da quello che era apparso come un punto di potenziale consenso politico nella scorsa legislatura.
Allora, infatti, dopo poche sedute di discussione sulla riforma della cittadinanza in Aula, si decise di riportarla in Commissione, una sede dove è meno difficile trovare accordi per trovare un’intesa proprio sui minori.
Sul rendere più facile l’acquisizione della cittadinanza per i bambini nati in Italia, su una qualche forma di ius soli, si erano espressi con favore o almeno con interesse anche esponenti del centro-destra.
Peraltro, anche più di recente, appartenenti al Pdl, a Fratelli d’Italia e qualche leghista hanno firmato un manifesto di Telefono Azzurro che sponsorizzava la cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia.
A cosa si deve dunque la sollevazione anti ius soli di questi giorni?
A repentini ripensamenti o a un banale fraintendimento?
Si pensa forse che ius soli voglia dire che basta essere nati in un Paese per diventarne automaticamente cittadini?
In Europa non significa questo.
Lo ius soli semplice, all’americana, adottato peraltro anche in altri Paesi «nuovi», cioè popolati dall’immigrazione, nel vecchio continente non c’è proprio.
E nessuno lo vuole, neanche in Italia.
Per ius soli in Europa si intende la possibilità che la cittadinanza alla nascita possa essere riconosciuta ai figli di stranieri stabilmente residenti nel Paese.
Non solo, nel Vecchio Continente si parla pure di ius soli quando i nati sul territorio nazionale, anche se i loro genitori non hanno i requisiti di residenza richiesti, possono diventare cittadini dopo un certo numero di anni passati nel Paese e comunque prima della maggiore età .
Si è infine diffuso a macchia d’olio nel continente, un altro istituto che appartiene alla stessa categoria: il modello francese del doppio ius soli, secondo il quale è automaticamente francese il figlio nato in Francia da uno straniero a sua volta nato in Francia.
Un qualche tipo di ius soli condizionato è previsto dunque dalla stragrande maggioranza dei Paesi membri dell’Unione Europea.
Ed è quanto hanno proposto diversi progetti di riforma italiani.
In vari stati, il criterio di un certo tempo di residenza e, più spesso, quello dello studio nelle scuole del Paese, favoriscono quei minori che non possono contare sullo ius soli.
È una pista che potremmo seguire anche noi.
Qualunque siano gli strumenti che si vogliano adottare, basta smettere di essere tanto eccentricamente più severi rispetto ad altri stati europei.
Sebbene, infatti, la cittadinanza costituisca una materia sulla quale i singoli membri dell’Unione non sono disposti a cedere sovranità , quegli stessi Paesi dovrebbero evitare differenze eccessive, visto che lo status di cittadino di un singolo Stato costituisce condizione sufficiente per avere accesso alla cittadinanza dell’Unione con tutti i diritti che ne conseguono. Fortunatamente, i Paesi membri stanno un po’ convergendo.
Sullo ius soli, ad esempio, Stati tradizionalmente più severi come la Germania hanno introdotto la possibilità per i figli di stranieri lungo-residenti di diventare cittadini alla nascita, mentre ordinamenti giuridici più flessibili, come la Gran Bretagna, che non prevedevano criteri aggiuntivi, hanno imposto il requisito della carta di soggiorno a tempo indeterminato per i genitori.
Lo ius soli di stile europeo è nato dalla concretezza dei problemi più che da approcci ideologici. Non si capisce quindi perchè questo ius soli all’europea sia percepito da qualcuno in Italia come un innesto eversivo o semplicemente un’idea campata in aria.
Certo, in materia di cittadinanza è bene discutere per trovare accordi ad ampio raggio.
I criteri che selezionano chi ha diritto a far parte a pieno titolo di una comunità rappresentano regole fondamentali della convivenza pubblica.
La questione va presa sul serio. Il che implica porsi due interrogativi preliminari: in che tipo di comunità politica vogliamo vivere, e in quale mondo stiamo vivendo.
Il doppio binario di questi ragionamenti ci obbliga a estendere la discussione sulla cittadinanza al di là dello ius soli.
Allargare il dibattito di solito complica le cose, ma in questo caso può chiarirne i termini.
Se vogliamo mantenere in Italia un modello di convivenza pubblica di tipo liberaldemocratico, dobbiamo adattare le nostre istituzioni ai tempi: non possiamo accettare uno scollamento crescente tra appartenenza alla società e membership dello Stato.
Non possiamo ammettere che, a causa di una normativa sulla cittadinanza tra le più severe d’Europa, anche per quanto riguarda i tempi di naturalizzazione degli adulti, restino esclusi come membri a pieno titolo dello Stato italiano milioni di individui che risiedono stabilmente nel nostro Paese, che qui lavorano, spesso con mansioni pesanti.
Non possiamo continuare a declassare civilmente i loro figli che frequentano numerosi le nostre scuole.
La storia delle istituzioni liberaldemocratiche italiane sta facendo in questo modo un salto all’indietro nel tempo: una fetta cospicua di lavoratori è esclusa dalla comunità pubblica.
Ammodernare la cittadinanza, anche inserendo elementi di ius soli non significa, però, sbarazzarsi dello ius sanguinis.
Anzi, uno ius sanguinis ben temperato va tenuto da conto.
È uno strumento comodissimo e, infatti, tutti gli stati, anche quelli in cui predomina lo ius soli, continuano a farne buon uso.
Serve in particolare proprio nel mondo contemporaneo in cui sempre più famiglie si muovono. Per chi lavora per un certo periodo di tempo all’estero è fondamentale poter trasmettere la propria cittadinanza ai figli nati nel Paese straniero, e non dobbiamo dimenticare che gli italiani continuano a emigrare.
In particolare la nostra emigrazione in Germania è aumentata nel 2012 del 40%.
E i nostri emigrati sono sempre più spesso giovani e quindi potenziali genitori ai quali lo ius sanguinis è utile.
Per finire torniamo agli Usa e allo ius soli puro.
Lì quell’istituto incontra sempre più critiche e si moltiplicano le proposte di revisione.
Tuttavia, quello ius soli esagerato è temperato da un meccanismo di contenimento che può suggerire qualcosa a noi italiani.
Mi riferisco alla trasmissione della cittadinanza per discendenza, cioè per ius sanguinis, all’estero.
Chi ha ottenuto la cittadinanza Usa per nascita, se poi non passa una parte significativa della sua vita negli Stati Uniti, non può trasmettere a sua volta la cittadinanza ai figli.
La regola vale in generale per i bambini nati all’estero da cittadini americani che non abbiano mantenuto rapporti significativi con il Paese.
Inserire qualche legame culturale come requisito per consentire ai discendenti di chi sia emigrato definitivamente dall’Italia di ereditare la cittadinanza sarebbe un altro strumento utile per superare l’attuale sistema, che rende cittadini ed elettori persone che possono non avere alcun legame reale con il nostro Paese.
Questa è l’altra faccia dello scollamento tra appartenenza alla società e membership dello Stato che si dovrebbe superare.
Una seria manutenzione del nostro regime liberale serve proprio, se non vogliamo che degeneri in un vecchio organismo stizzoso e idiosincratico.
Perciò, possiamo continuare anche in questa legislatura a lasciar marcire la questione della riforma della cittadinanza in cantina?
Giovanna Zincone
(da “La Stampa”)
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