COME NASCE IL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA QUIRINALE E PROCURA DI PALERMO E PERCHE’ HA RAGIONE NAPOLITANO
FINCHE’ NON SI CAMBIA L’ART 90 DELLA COSTITUZIONE E SI TOLGONO LE NORME A TUTELA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, PIACCIA O MENO A SECONDA DELLE SIMPATIE VERSO I PROTAGONISTI, NAPOLITANO HA RAGIONE
In Italia è «assolutamente» vietato intercettare le conversazioni alle quali partecipa il Presidente della Repubblica.
Lo stabilisce l’articolo 90 della Costituzione e l’articolo 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219.
Nel caso si venisse in qualunque modo in possesso di intercettazioni in cui uno degli interlocutori è il capo dello Stato le conversazioni «non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione».
È a questo principio che fa riferimento Giorgio Napolitano nell’affidare all’Avvocatura dello Stato l’incarico di promuovere il cosiddetto «conflitto di attribuzione» nei confronti della Procura di Palermo che indaga sulla presunta trattativa tra apparati dello Stato e i capi della mafia per mettere fine alla stagione delle stragi del 92/93.
A dirimere il conflitto viene ora chiamata la Corte costituzionale.
INTERCETTAZIONI SU ALTRA UTENZA
Nel decreto pubblicato sul sito del Quirinale si fa esplicito riferimento proprio a quella normativa che impedisce di intercettare le conversazioni del capo dello Stato.
E questo perchè proprio durante le indagini della Procura di Palermo «sono state captate conversazioni del presidente della Repubblica nel corso di intercettazioni telefoniche effettuate su utenza di altra persona». Conversazioni che, fa rilevare il Quirinale, la stessa Procura di Palermo ha ritenuto «irrilevanti» e delle quali dunque non si prevede «alcuna utilizzazione investigativa o processuale ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge».
AUTORIZZAZIONE DEL GIUDICE
Ma allora perchè Napolitano solleva il conflitto di attribuzione?
Una risposta in qualche modo si può trovare sempre nel comunicato del Quirinale dove si fa riferimento all’intervento il 9 luglio scorso sul quotidiano La Repubblica del procuratore di Palermo Francesco Messineo.
In quella circostanza il capo della Procura siciliana disse che pur essendo quelle intercettazioni irrilevanti «alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti».
Ed è proprio questo il punto chiave della controversia che il Quirinale ritiene lesivo delle prerogative del Capo dello Stato.
Cioè il fatto di mettere le intercettazioni a disposizioni delle parti e poi del Gip. Con la sottintesa preoccupazione che in questo modo finiscano facilmente anche sui giornali.
Le prerogative del capo dello Stato, secondo il decreto presidenziale, sarebbero quindi state già state lese dai pm di Palermo con la valutazione dell’irrilevanza delle intercettazioni e la loro permanenza agli atti dell’inchiesta; sarebbero ulteriormente lese da una camera di consiglio per deciderne in contraddittorio la distruzione.
Le intercettazioni cui partecipa il presidente della Repubblica quindi, anche se indirette, ”non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte”: è quanto si legge nel decreto con cui il Capo dello Stato ha promosso il conflitto di attribuzione, citando l’art. 90 della Costiturzione e la legge 5 giugno 1989, n. 219.
Nel decreto è scritto che “a norma dell’articolo 90 della Costituzione e dell’articolo 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento di accusa – le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorchè indirette od occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione”.
LE TELEFONATE DI MANCINO
Ma cosa concretamente hanno ascoltato i magistrati indagando sulla trattativa Stato-mafia? Difficile dirlo.
I Pm di Palermo anche dopo il comunicato del Quirinale hanno tenuto a ribadire l’irrilevanza delle conversazione registrate.
In ogni caso tutto lascia pensare che il tema sia in qualche modo legato alle insistenti telefonate, queste ampiamente finite sui giornali, con le quali l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza proprio nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, sollecitava un intervento presso i magistrati di Palermo del consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio.
In particolare alcune tra queste intercettazioni hanno acceso il dibattito sui giornali in queste ultime settimane.
Come per esempio quella del 5 aprile quando D’Ambrosio dice a Mancino: «Il presidente condivide la sua preoccupa… cioè, diventa una cosa… inopportuna…».
E l’ex ministro replica: «Questi si dovrebbero muovere al più presto».
Commento del ns. direttore
Non facciamoci condizionare dalla presunta e probabile trattativa Stato-mafia che è all’origine della giusta e doverosa inchiesta dei magistrati palermitani. Se si trattasse di quella, è evidente che staremmo come sempre dalla parte di Paolo Borsellino che probabilmente ha pagato con la vita la sua opposizione a qualsiasi accordo con la mafia stragista di quegli anni cupi.
E sulla trattativa l’indagine deve andare avanti e arrivare a scoprire le complicità politiche.
Ma qua si tratta di altro: o cambi completamente l’art 90 della Costituzione e le prerogative del presidente della Repubblica o ha ragione Napolitano, non ci piove.
Quelle intercettazioni andavano subito distrutte “senza essere valutate, utilizzate e trascritte”.
Questo dice la legge attuale, giusta o sbagliata che sia.
C’è chi difende, in nome della legalità , i magistrati di Palermo.
Ma la legalità la rappresentano tutte le istituzioni, non solo la magistratura.
E anche quest’ultima può sbagliare in buona fede.
La legalità vera prevale quando si interpreta correttamente la norma vigente, non perchè Ingroia ci può essere più simpatico di Napolitano.
Semmai qualcuno piuttosto pensi a cambiare le norme in vigore, se ne vale la pena.
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