DEDICATO A CHI NON VUOLE L’EURO
CON QUALE SISTEMA DI CAMBI INTENDONO SOSTITUIRE L’EURO?… UN PO’ DI STORIA SERVE A CAPIRE
Fatico molto a considerare un successo il fatto che Marine Le Pen abbia ottenuto il 6% dei voti (sul 61,5% dei votanti) e conquistato il 2% dei 600 comuni in cui erano presenti suoi candidati (su oltre 36.000 che andavano al voto).
E mi lascia ancora di più perplesso che la questione euro sia stata determinante per la conquista di primarie località francesi come Bèziers, Frejus e Hènin-Beaumont.
La perplessità è confermata dalla lettura del programma del Front National (fermo alle presidenziali del 2012): all’euro è dedicata una pagina e poco di più (la n. 68), su 106 di sciocchezze tardo ottocentesche, in cui si dice candidamente che si vuole tornare al franco francese. E basta.
Mi dispiace per la sovrappesata signora transalpina, ma non basta.
Perchè una domanda si impone: e poi, cosa succede?
Non mi riferisco tano alle temute conseguenze economica (svalutazione, inflazione, tassi di interesse), sulle quali, bene o male, un po’ di discussione c’è.
Parlo di qualcosa di più strutturale: quale sistema monetario, quale sistema di cambi fra le monete hanno in testa la Le Pen e, con lei, i Grillo, i Maroni, i Salvini, le Meloni e compagnia?
E la risposta mi sembra quella che consente loro la competenza in materia: nessuna. O, almeno, nessuna è quella che sembrano dimostrare.
Il problema è che un sistema di cambi tra diverse monete non può non esserci.
Anche la sua assenza è un sistema, detto di cambi flessibili, che si contrappone al sistema opposto, quello dei cambi fissi.
E, per capire cosa convenga di più, ancora una volta la storia ci può dare una mano.
Fino alla prima guerra mondiale vigeva il gold standard, un sistema di cambi fissi in cui le monete si scambiavano fra loro in base al valore in oro.
Squilibri economici interni o esterni venivano rimessi a posto, in linea di massima, modificando i prezzi di beni e servizi all’interno dei singoli paesi, per rendere i prodotti nazionali più o meno competitivi rispetto a quelli esteri.
È quella che oggi si chiama fiscal devaluation; un’idea che era anche di Keynes, per inciso.
Dopo la guerra si cercò di restaurare il sistema precedente, ma il tentativo fallì. Dal 1931-1932 il sistema monetario fu a cambi flessibili: esso si frammentò in alcune aree, dove le monete dei singoli paesi erano agganciate alle valute più importanti, come dollaro, sterlina, franco, marco, ecc.
Fu un periodo caotico, fatto di svalutazioni competitive e dazi doganali crescenti, ai quali si cercava di porre rimedio con l’autarchia o con un complicato sistema di accordi bilaterali fra i singoli stati. Il commercio mondiale ristagnò (tavola 1), la Grande Depressione, anzichè risolversi, peggiorò e la speculazione finanziaria si scatenò, sfruttando il nuovo giocattolo dei cambi flessibili.
Con il secondo dopoguerra tutti gli stati furono d’accordo per tornare a un sistema ordinato di cambi quasi fissi, stabiliti con riferimento al dollaro, il quale era a sua volta convertibile in oro.
Quasi fissi, perchè era ammessa un oscillazione dell’1% e perchè erano possibili modifiche consistenti dei cambi, ma solo in presenza di forti squilibri economici.
Era il sistema detto di Bretton Woods, che accompagnò (non senza qualche difficoltà , per franco e sterlina, ad esempio) la più formidabile espansione economica della storia mondiale.
Nel 1971 Nixon annunciò che il dollaro non era più convertibile in oro e mise fine al sistema di Bretton Woods. Si tornò a un sistema di cambi flessibili, accompagnato, guarda caso, dagli stessi simpaticoni degli anni Trenta: crisi economica e speculazione finanziaria.
La Tobin Tax, volta a combattere quest’ultima, fu proposta nel 1972 e aveva ad aggetto proprio per le operazioni in cambi.
Un sistema di cambi flessibili poteva (forse) funzionare per le principali economie, come USA, Giappone, Germania.
Per gli altri paesi europei (Gran Bretagna, Francia e Italia comprese) avrebbe significato restare in preda alla speculazione; per l’Europa nel suo insieme avvitarsi in una spirale di svalutazione e protezionismo, come negli anni Trenta, spaccando il mercato unico costruito con tanta fatica nei tre-quattro lustri precedenti, garanzia non solo di prosperità , ma anche di pace.
Particolare, quest’ultimo, che dovremmo sempre tenere a mente.
L’alternativa era secca: o allinearsi a una moneta (il marco, di fatto) o creare un’unione monetaria.
Il primo tentativo (subito fallito) fu il serpente monetario europeo (1972), seguito dallo SME — Sistema Monetario Europeo (1979). Quest’ultimo era un sistema di cambi fissi, ma con bande ampie di oscillazione (2,25% per tutti e 6% per la lira) e possibilità di svalutazioni e rivalutazioni (i “riallineamenti”).
Ebbe un successo limitato: nei 14 anni di vita ci furono 16 riallineamenti e alla fine, nel 1993, crollò.
Da lì venne la decisione di creare una moneta unica, che altro non è se non un sistema di cambi fissi irrevocabili, senza bande di oscillazione e senza riallineamenti.
Perchè una scelta così radicale? Proprio sulla base dell’esperienza dello SME: si era visto che la possibilità di svalutazioni e riallineamenti invogliava attacchi speculativi, con la finalità esplicita di provocare la crisi di questa o di quella moneta, come avvenuto, da ultimo, nell’estate del 1992.
In conclusione, gran parte del secolo e passa che abbiamo alle spalle lo abbiamo trascorsi con cambi (quasi) fissi; e, per quanto i cambi fissi (e la moneta unica) possono aver creato dei problemi, non sembra che il passaggio ai cambi flessibili abbia risolto veramente quei problemi.
Chi pensa di costruire la propria sopravvivenza politica al grido del “no all’euro”, dovrebbe ricordarsi — o imparare una volta per tutte — che alla moneta unica ci siamo arrivati non per capriccio, ma perchè gli altri sistemi hanno fallito in passato.
E non si vede ragione per cui dovrebbero riuscire in futuro.
Ma anche ammettendo di farla finta con l’euro, il quadro non cambierebbe molto.
La tanto rimpianta sovranità monetaria, oggetto più di vacua retorica che di seria riflessione, sarebbe pura illusione (come già era): o finirebbe di nuovo con lo scomparire in qualche meccanismo di accordo di cambio più o meno rigido o ci darebbe, se presa alla lettera con monete nazionali liberamente fluttuanti, la stessa autonomia di una noce di cocco in mezzo ai marosi dell’oceano, con in più il rischio di andare ugualmente a fondo.
E se qualcuno, in Italia, si illude di potersela cavare con qualche svalutazione competitiva, si legga bene il programma di madame Le Pen: a pagina 73 prevede “diritti doganali al fine di ristabilire una giusta concorrenza con i paesi il cui vantaggio concorrenziale risulta da … manipolazioni monetarie”, oltre a un prelievo del 3% su tutte le importazioni. Il che conferma che cambi flessibili e protezionismo vanno a braccetto e che il beggar-thy-neighbour è la politica economica degli stupidi. E che bisogna non averlo ancora capito per dare retta al M5S, alla Lega o a Fratelli d’Italia.
Ernesto Maria Ruffini
(da “L’Espresso“)
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