DI MAIO, SALVINI, RENZI: ECCO CHI VUOLE METTERE LE MANI SUI SERVIZI SEGRETI
CORDATE, TRAME, LOTTE INTESTINE, IL MONDO DELL’INTELLIGENCE E’ IN AGITAZIONE
C’è Matteo Renzi, che – come racconta un suo fedelissimo – «vuole stare all’opposizione anche per prendersi la guida del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, in modo da capire se la vicenda Consip nasconda una macchinazione contro di lui organizzata da pezzi dei servizi segreti».
C’è Matteo Salvini, che si è scagliato contro la proroga dei vertici dei nostri 007 decisa dal governo Gentiloni, e che ha litigato con il compagno di partito Giacomo Stucchi, il presidente uscente del comitato che non è stato nemmeno ricandidato in Parlamento perchè sospettato d’essere troppo vicino a Marco Minniti.
C’è Luigi Di Maio con i suoi adepti, che spiegano come, in caso di governo pentastellato, le barbe finte dovranno essere rivoluzionate, grazie all’aiuto di esperti e operativi che con i grillini hanno intessuto, da qualche mese, impreviste relazioni.
Insomma, mentre il presidente Sergio Mattarella cerca di trovare una difficile quadra per uscire dal pantano, dare un esecutivo al Paese ed evitare di andare a nuove elezioni, dietro le quinte i leader politici stanno lavorando al dossier, delicatissimo, delle nostre agenzie di sicurezza.
Tra scontri tra e dentro i partiti, veleni interni ai servizi e sospetti incrociati, Paolo Gentiloni ha da poco prorogato sia il vertice del Dis (il dipartimento che coordina e vigila sulle nostre due agenzie) guidato dal prefetto Alessandro Pansa, sia i mandati dei direttori dell’Aise e dell’Aisi, rispettivamente il generale Alberto Manenti e il prefetto Mario Parente.
Una blindatura necessaria a garantire la continuità operativa della nostra intelligence, per evitare vuoti di potere in un momento in cui l’allarme terrorismo resta altissimo.
L’operazione, apparentemente semplice, è stata invece tutt’altro che agevole.
Il premier, che ha tenuto per sè le deleghe ai servizi segreti, non solo è stato attaccato pubblicamente da Salvini e da Angelo Tofalo del M5S. Ma il blitz di fine febbraio per portare a casa una proroga di ben due anni, caldeggiato anche da Minniti, è stato osteggiato anche dai membri del Copasir più vicini a Renzi, come Ettore Rosato e Lorenzo Guerini.
Alla fine il governo ha potuto differire l’uscita di Pansa e Manenti (che sono in età pensionabile) per un solo anno, e il Comitato ha approvato a maggioranza un testo alternativo rispetto a quello uscito da Palazzo Chigi, che ha specificato come il prossimo esecutivo potrà nominare i nuovi vertici in qualsiasi momento voglia.
La vicenda, soprattutto, ha esasperato i rapporti, mai lineari al di là delle apparenze, tra Renzi e il ministro dell’Interno: il primo non ha mai amato chi può fargli ombra (il nome di Minniti torna spesso come uno dei pochi spendibili come guida di un governo di larghe intese, anche perchè molto stimato sia da Salvini che da Di Maio per l’efficace contenimento dei flussi migratori), mentre il democrat calabrese è ancora arrabbiato con l’ex segretario, che in una notte di fine gennaio cancellò dalle liste elettorali Nicola Latorre, Andrea Manciulli e Enzo Amendola, ossia tutti i parlamentari a lui più vicini.
Si formasse davvero un governo con il Pd all’opposizione, la priorità , per Renzi, sarà quella di provare a piazzare un suo uomo a capo del Copasir.
Guerini e Rosato sono in campo, ma il prescelto di Matteo sarebbe Luca Lotti.
Sul petalo del Giglio magico, però, ad oggi pesa l’avviso di garanzia per una presunta divulgazione di notizie riservate: la procura di Roma ha indagato l’attuale ministro, insieme all’ex comandante dei carabinieri Tullio Del Sette e al generale Emanuele Saltalamacchia, con l’accusa di aver rivelato all’allora amministratore delegato della centrale d’acquisti Luigi Marroni l’esistenza dell’inchiesta portata avanti dai pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano e poi finita a Roma per competenza.
L’indagine è incentrata anche sulle gare d’appalto della Consip e sul possibile ruolo di corruttore dell’imprenditore Alfredo Romeo. E, come è noto, sul presunto traffico di influenze illecite del papà di Renzi, Tiziano, del suo sodale Carlo Russo e dell’ex parlamentare Italo Bocchino, consulente di Romeo. In merito alla posizione di Lotti, la scorsa settimana i pm di Giuseppe Pignatone hanno sentito come persona informata sui fatti anche l’ex premier.
All’Espresso risulta che la procura si appresta a chiudere le indagini, e a richiedere il rinvio a giudizio di quasi tutti gli indagati.
Sia davvero Lotti o un altro dei suoi pretoriani, l’obiettivo di Renzi è quello di dare contorni più chiari, attraverso il Copasir, a quelle che sono, da un anno esatto, le sue ossessioni.
Al netto dei sospetti sulle presunte falsificazioni del maggiore del Noe che ha condotto le indagini su Consip (per i pm di Roma Gianpaolo Scafarto è colpevole di aver contraffatto alcune prove per incastrare babbo Renzi, qualche giorno fa i giudici del riesame hanno parlato solo di «errori involontari», si aspetta la decisione della Cassazione), l’ex premier ha promesso ai suoi che farà di tutto per accendere un faro su tutte le ombre che ancora avvolgono i rapporti tra Scafarto e il suo ex capo al Noe. Cioè Sergio De Caprio, il mitico colonnello Ultimo che arrestò Totò Riina, passato a marzo 2016 all’Aise, e poi frettolosamente restituito – in seguito allo scandalo Consip – all’Arma nel luglio del 2017 insieme a tutti i fedelissimi che aveva portato nei servizi e al Rud (il Raggruppamento Unità Difesa dentro Forte Braschi). In circostanze finora mai del tutto chiarite.
Anche dentro l’agenzia per la sicurezza esterna e all’interno dell’Arma i veleni del caso Consip ribollono furiosi, compressi in una pentola a pressione pronta a esplodere.
Ed è un fatto che qualche fonte autorevole dell’intelligence ha raccontato ai renziani versioni diverse rispetto alle ricostruzioni della vicenda finora circolate.
Se l’inner circle del generale e quello vicino a Minniti hanno fatto filtrare per mesi che furono i carabinieri a chiedere al governo di prendersi De Caprio (dal 2015 inviso a Renzi e al comando generale dopo che “Il Fatto” pubblicò un’intercettazione imbarazzante tra il leader Pd e il generale della Gdf Michele Adinolfi contenuta nell’inchiesta sulla cooperativa Cpl Concordia, sempre firmata dal Noe e da Woodcock), altre barbe finte e qualche confidente molto vicino a Del Sette ha sussurrato al Giglio Magico che la verità sarebbe un’altra.
Affermando, infatti, che fu Minniti, al tempo sottosegretario del governo Renzi con la delega ai servizi, a chiedere alla Benemerita lo spostamento di Ultimo tra gli 007.
Anche a L’Espresso risulta che l’ex comandante generale e il suo Capo di Stato Maggiore Vincenzo Maruccia, in effetti, ripetono come un mantra ai loro amici intimi che loro – per eliminare quella che consideravano ormai l’anomalia del Noe – avevano proposto a De Caprio, con il più classico dei promoveatur ut amoveatur, un comando. In particolare, quello per la Tutela agroalimentare.
Proposta fatta nella pizzeria “Il mendicante” della onlus Mistica, casa famiglia creata dal colonnello nella zona di Torre Spaccata, a Roma. Ultimo, però, rifiuta la proposta. Spiega ai suoi superiori di voler lasciare i carabinieri e trasferirsi ai servizi.
Con l’autorità delegata del governo, dice, c’è già un accordo di massima. Se il capo dell’Aisi Mario Parente si era però subito sfilato dall’operazione (qualcuno inizialmente aveva pensato di usare le abilità investigative di De Caprio per dare la caccia al boss mafioso Matteo Messina Denaro), Minniti riesce a convincere Manenti ad accogliere Ultimo con tutti gli onori: l’incarico, prestigioso e delicato, è quello della direzione dell’ufficio delegato alla sicurezza interna, il reparto dell’Aise che investiga anche sulle possibili talpe che si annidano tra gli 007.
C’è un dettaglio, però, che hanno notato in pochi. De Caprio conosce da tempo, e bene, sia Manenti sia Minniti. Nel senso che ha investigato a lungo sia sul generale, che ha intercettato nel 2011 nell’ambito di un’inchiesta su Finmeccanica, sia sulla fondazione Icsa, fondata proprio da Minniti nel 2009 e finita nella lente d’ingrandimento degli uomini di Ultimo nel 2014 in uno dei filoni dell’inchiesta sulla Cpl Concordia.
Già . Una delle informative del Noe su Finmeccanica contiene alcune telefonate tra l’allora vicedirettore dell’Aise Manenti e alcuni manager del colosso degli armamenti come Francescomaria Tuccillo e Alessandro Toci.
Non solo: nelle stesse carte il generale viene definito in un verbale del dirigente Lorenzo Borgogni «il referente di Orsi», l’ex ad della multinazionale, «all’interno dei servizi segreti», mentre gli uomini di Ultimo che firmano l’informativa lo descrivono «persona molto vicina al “mondo” Finmeccanica»). Negli atti viene citato anche Giuseppe Caputo, fedelissimo di Manenti diventato lo scorso dicembre numero due dell’agenzia, e avversario principale dell’altro vice Giovanni Caravelli nella corsa per la successione di Manenti.
L’intera indagine è finita in una bolla di sapone (l’ultima sentenza di assoluzione per Orsi e di Bruno Spagnolini ex Agusta Westland è dello scorso gennaio), e la circostanza che Manenti non sia stato nemmeno indagato dopo mesi di intercettazioni sembra evidenziare la sua totale estraneità agli iniziali sospetti investigativi.
Eppure i nemici del direttore si domandano per quale motivo il generale abbia potuto avallare l’ingresso nei servizi dell’uomo che lo intercettò per mesi e che guidò un’inchiesta che, per usare le parole dell’attuale presidente della fondazione Icsa Leonardo Tricarico, «ha distrutto la vita di alcune persone mettendo in ginocchio la più grande azienda italiana del settore».
Forse Tricarico non sa che De Caprio è stato “perdonato” anche da Minniti: fu sempre il Noe, infatti, a investigare sulla Icsa creata dal ministro dell’Interno nel 2009 (quando fu nominato sottosegretario da Enrico Letta Minniti lasciò però ogni incarico nell’ente), e furono sempre gli agenti di Ultimo a svelare come la cooperativa Cpl Concordia nel 2014 aveva versato 20 mila euro alla fondazione.
La congettura investigativa, anche questa tramontata, si basava sull’ipotesi che, in cambio di erogazioni liberali, la Icsa desse poi «una mano» alla Cpl Concordia nell’aggiudicazione di alcuni appalti pubblici.
E fu sempre De Caprio, nell’aprile del 2015, a portare al procuratore di Modena Lucia Musti le carte sulla Cpl Concordia – che lambivano anche Massimo D’Alema – e sulla Icsa. Il giudice archiviò tutto ma qualche mese fa, audita al Csm, disse che Scafarto e De Caprio le sembrarono due esagitati: «Il colonnello Ultimo mi disse: dottoressa, lei se vuole ha una bomba in mano, lei se vuole può fare esplodere la bomba», ha chiarito in un’audizione nel luglio del 2017 «Non so in riferimento a cosa lo disse».
Nonostante i “precedenti” con Manenti e l’ente di Minniti, Ultimo nel febbraio-marzo del 2016 diventa parte della loro squadra, in posizione di alto rango. Passando all’Aise, il colonnello chiede a Manenti di portarsi un gruppo di fedelissimi in blocco. Vengono richiesti all’Arma decine di carabinieri, molti dei quali provenienti dal Noe. Alcuni di loro stanno già lavorando da tempo al caso Consip quando vengono trasferiti ai servizi.
All’Espresso risulta che il nome in cima alla lista arrivata sulle scrivanie di Del Sette e Maruccia è proprio quello di Scafarto. Il comando generale mette il veto: sanno che il maggiore sta lavorando con Woodcock, e non vogliono attriti con la procura di Napoli.
Di carabinieri, alla fine, all’Aise ne arrivano 23. Inseriti nella Divisione sicurezza interna e al Rud. Il loro compito è quello di sorvegliare gli altri 007, controllare la loro fedeltà , le loro spese per le operazioni sotto copertura. Ma, nel periodo in cui Minniti cerca di mettere d’accordo le tribù del Sud della Libia con la speranza di bloccare all’origine il mercato e il flusso di profughi, vengono usati anche per alcune missioni in Africa.
Tutto fila liscio per qualche mese. Ma tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 esplode il caso Consip, e molti cominciano a sentire puzza di bruciato. Quando Scafarto viene accusato dai pm di Roma di aver falsificato prove e di aver fatto delle soffiate sull’andamento delle indagini a due marescialli ex Noe che erano passati ai servizi con De Caprio; e quando si scoprirà che, come ha scritto Carlo Bonini su Repubblica, che il maggiore aveva inviato una mail a Forte Braschi contenente il file “Mancini.docx”, (spiegando che era «sempre per il capo», presumibilmente Ultimo), le antenne di Renzi e di altri alti dirigenti dei nostri servizi si rizzano. Quel file, in particolare, contiene infatti documenti investigativi sui rapporti tra un pezzo grosso del Dis, quel Marco Mancini coinvolto anni fa nello scandalo del rapimento di Abu Omar, con Italo Bocchino.
L’avvocato di Ultimo spiega che le mail non furono nemmeno aperte nè tantomeno sollecitate, e all’Aise giurano che nessuno dei vertici fosse mai stato a conoscenza dei legami mai recisi tra De Caprio e il maggiore.
Finora non c’è stata nessun altra prova di un reale coinvolgimento dei servizi nelle indagini sulla Consip. E la procura di Roma, dopo che i 23 Ultimo Boys sono stati riconsegnati in meno di un giorno all’Arma, non ha aperto alcun fascicolo per accendere un faro sull’Aise. Ma i sospetti non si sono mai diradati. Anzi.
Cinque mesi fa Renzi ha stampato e conservato due articoli del “Tempo” e del sito “Lettera 43”. Che hanno ipotizzato come alcuni uffici in disuso di una banca di fronte a Forte Braschi sarebbero stati trasformati dagli uomini di De Caprio in una potente centrale d’ascolto.
Un’altra fonte interna all’agenzia ci conferma la storia, aggiungendo che per la sede era stata creata appositamente un’utenza fittizia che permetteva l’afflusso di dati (fino a 100 GB per audio, video e localizzazione Gps di persone e veicoli), e che le investigazioni sarebbero state effettuate con costose valigette Cobham Capsure da oltre 30 mila euro.
La domanda che si sono fatti in molti, soprattutto i renziani che hanno gridato al complotto, è una soltanto: la centrale serviva a intercettare preventivamente il personale (operazione che sarebbe stata autorizzata, come vuole la legge, dal procuratore generale della corte d’appello di Roma Giovanni Salvi e che avrebbe visto coinvolti una quindicina di spioni) o anche per altre attività diverse da quelle ufficiali? Altri 007 vicini alla direzione smentiscono seccamente che l’ufficio sia stato utilizzato per intercettazioni di qualsiasi tipo, legali o tantomeno illegali: «La ex banca per Ultimo e i suoi era solo un “appoggio”, venivano parcheggiate auto e materiale tecnico. C’è qualcuno dei nostri che vuole seminare zizzania».
Se i generali dei nostri servizi sono preoccupati dei vecchi veleni ancora in circolo e dalle mosse di pezzi del Pd, i capi dell’intelligence devono contemporaneamente tentare di indovinare quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi, in caso la Lega e il Movimento Cinque Stelle riuscissero a formare un governo.
Se nella compagine fosse presente anche Forza Italia, gli 007 farebbero sponda innanzitutto con l’ex sottosegretario Gianni Letta: il numero uno dei servizi interni, il prefetto Parente, è considerato vicinissimo al grande vecchio, che negli ultimi decenni ha coltivato ottimi rapporti anche all’Aise con dirigenti di ogni ordine e grado.
Ma molti generali e 007 stanno bussando anche alla porta dei maggiorenti della Lega e del Movimento Cinque Stelle, grandi vincitori delle elezioni di inizio marzo. I rapporti tra i grillini e la nostra intelligence non sono allo stato embrionale come i più sprovveduti possono immaginare: grazie all’attivismo di alcuni parlamentari e di qualche spione attento alla crescita elettorale della creatura di Grillo e Casaleggio, nell’ultima legislatura qualche seme è stato piantato, e le relazioni tra il mondo dell’intelligence e il M5S sono meno lasche di quel che si può pensare.
I grillini che si occupano dei dossier forze dell’ordine e servizi sono big come Danilo Toninelli e Manlio Di Stefano, e i due parlamentari Vito Crimi e Angelo Tofalo, che hanno messo a frutto l’esperienza quinquennale al Copasir, e che da tempo parlano con i generali e i colonnelli che vogliono accreditarsi con il nuovo che avanza.
Gli uomini di Di Maio sono comunque assai critici con l’attuale struttura: se l’Aisi nello scenario politico e internazionale è considerato, spiega un big pentastellato, «quasi ininfluente», e il capo del Dis Alessandro Pansa viene bacchettato per non aver investito quanto il suo predecessore «nella comunicazione e nella trasparenza, che per noi è fondamentale», l’Aise è considerato un mondo ancora ostile, dove «comandano ancora uomini vicini a Letta, a D’Alema, a Gianni De Gennaro e, ovviamente, a Minniti».
I grillini più che a cercare nuovi profili per le direzioni stanno lavorando a un piano di riforma radicale delle agenzie. «Andassimo a Palazzo Chigi vorremmo dar vita a un gruppo di saggi che abbia cinque-sei mesi di tempo per disegnare un nuovo modello organizzativo, che possa finalmente eliminare la nefasta competizione tra Aisi e Aise», spiegano dal quartier generale di Di Maio.
«Una concorrenza che talvolta danneggia la qualità delle indagini e rallenta la ricerca delle informazioni sensibili alla sicurezza nazionale, con strutture che si sovrappongono e che spesso non comunicano. Il M5S al governo potrebbe proporre un rafforzamento del Dis, e la creazione – al posto di Aisi e Aise – di quattro dipartimenti specializzati: per la lotta al terrorismo, per lo spionaggio e il controspionaggio, per il cyber e per l’analisi dei dati».
Chi potrebbe lavorare alla riforma grillina? Sicuramente le due ministre in pectore Elisabetta Trenta e Paola Giannetakis, che Di Maio sogna come titolari di due dicasteri strategici come gli Esteri e l’Interno. Entrambe, come è stato raccontato dai giornali, sono professoresse alla Link Campus University , l’ateneo fondato dall’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti specializzato in «studi strategici, diplomatici e sicurezza» i cui corsi sono stati seguiti proprio da Tofalo.
Meno noto è che nei master della Link dedicati all’intelligence insegnano da anni, oltre alle due docenti grilline, uomini di spicco dei nostri servizi segreti. La Trenta è infatti «coordinatore didattico» del master di II livello per «l’intelligence e la sicurezza» in cui insegnano Adriana Piancastelli, vedova dell’ex capo della polizia Manganelli e dirigente del dipartimento guidato da Pansa, Bruno Valensise (anche lui al Dis), l’ex prefetto Adriano Soi e Alfredo Mantici (capo dipartimento al Sisde dal 2002 al 2007).
Nella lista dei prof ci sono anche Umberto Saccone ex Sismi e l’ex numero uno del Dis e attuale presidente di Fincantieri Giampiero Massolo, molto stimato dagli uomini di Beppe Grillo. Se Mantici, Soi, Saccone (che ha scritto pure per il blog del garante del movimento) e la Giannetakis parteciparono al convegno sull’intelligence organizzato dal loro studente-parlamentare Tofalo nell’aprile del 2016, il direttore del master risulta essere Marco Mayer, docente anche alla Luiss e da maggio dell’anno scorso consigliere della cybersicurity per Minniti.
«Non c’è nessun collegamento organico tra l’università e il M5S» ha ragionato indignato Scotti. «Nel nostro comitato scientifico ci sono cinque parlamentari eletti o rieletti in schieramenti diversi, non solo dei Cinque Stelle. Ci chiamano l’università degli 007? Chi lo scrive è in malafede o ignorante».
Vero, i corsi sono tanti e variegati. Ma è un fatto che tra i docenti più attivi del master della Trenta e della Giannetakis all’Espresso ci sia pure Paolo Scotto di Castelbianco, direttore della scuola di formazione del Dis che è stato fotografato in prima fila ad alcuni eventi della Link, e che è intervenuto come moderatore alle presentazioni di libri della casa editrice dell’università , la Eurilink. Scotto è uno 007 sui generis: se da un lato ha il compito di promuovere – come indica la legge di riforma dei servizi del 2007 – un rapporto più stretto tra università e intelligence (anche per trovare eventuali candidati da reclutare, sul modello usato nella Cia e nel britannico MI5), è famoso tra i gourmet italiani per le sue recensioni gastronomiche sotto lo pseudonimo di “Giacomo A. Dente”, critico culinario del Messaggero e collaboratore delle Guide L’Espresso.
Lo 007, già alla presidenza del Consiglio nel 2010, ha un destino simile a quello del suo vate: ossia il prefetto Federico Umberto d’Amato, per decenni direttore del potente Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno e finito pure nelle liste della P2, che firmava recensioni gastronomiche sulle Guide con il nom de plume “Federico Godio”.
(da “L’Espresso”)
Leave a Reply