DIMEZZARE I MILIARDI EVASI VALE 355.000 POSTI DI LAVORO
SE IL BUCO DELL’EVASIONE FISCALE IN ITALIA FOSSE LA META’ DEGLI ATTUALI 122 MILIARDI, IL PIL SALIREBBE DEL 3,1%
A prima vista sembra una tesi di quelle fatte apposta per compiacere il pensiero corretto: se l’evasione calasse drasticamente, il Paese crescerebbe molto di più.
Ogni anno fra Iva, contributi previdenziali, Irpef e Ires vengono sottratti al Fisco 122 miliardi.
Se – per ipotesi – fossero la metà , il Pil crescerebbe del 3,1 per cento, i consumi del 5,2, gli investimenti del 5,9, i posti di lavoro di ben 355mila unità .
Possibili numeri simili concedendo ancora più fondi ad uno Stato già onnivoro e più inefficiente di altri? Ovviamente no.
Una ricerca apparsa di recente sull’Economist conferma quel che molti studiosi sostengono da tempo: quanto più le tasse sono alte, tanto più è probabile che aumenti la propensione ad evadere.
I numeri citati da Sergio Mattarella, raccolti in una indagine di Confindustria, devono essere accompagnati da un caveat: la pressione fiscale è troppo alta perchè sono in troppi ad evadere.
Ma le ragioni per le quali c’è troppa evasione non hanno solo a che fare con la tendenza tutta italiana a non fare il proprio dovere. Basta mettere in fila i numeri dell’analisi.
Prendiamo il numero medio dei pagamenti da effettuare in un anno per adempiere agli obblighi fiscali: in Italia sono quattordici, in Germania nove, in Francia otto.
O il numero delle ore necessarie a calcolare il dovuto: 269 l’anno, appena sei in meno di quelle chieste ad un portoghese, 51 in più di quelle imposte ad un tedesco, il doppio di quelle che servono ad un francese.
Se dividiamo quelle ore per una media di otto ore al giorno sono 33 giorni, poco meno di tre al mese.
Ovviamente non si tratta del tempo necessario ad una normale dichiarazione dei redditi, o ad una fattura Iva.
La gran parte di quel tempo – ben 198 ore all’anno – servono a calcolare le imposte dovute sul lavoro.
Ecco una prima conferma alla tesi di cui sopra: quanti più dipendenti si occupano in un’azienda, tanto più è alta la possibilità di rimanere ingarbugliati nelle fitte maglie degli adempimenti.
Quando si ha a che fare con fenomeni di massa, le risposte non possono essere univoche. Però la logica dei numeri aiuta a farsi un’idea.
Prendiamo il numero dei lavoratori indipendenti, le cosiddette partite Iva: in Italia sono uno su quattro, in Grecia uno su tre, in Germania e Francia uno su dieci.
O ancora la dimensione delle imprese: in Italia il valore aggiunto prodotto da imprese con meno di dieci occupati sfiora il trenta per cento; in Grecia è del 35 per cento, in Germania del 15.
Tanto più è piccola l’impresa, tanto più è alta la propensione ad evadere e bassa la probabilità di ricevere un controllo dal fisco.
A proposito di controlli: l’indagine calcola che il 99 per cento dei contribuenti ha la probabilità di ricevere un controllo ogni 33-50 anni. Non tutti però.
Fatti cento il numero dei dichiaranti, nel 2014 sono stati fatti accertamenti sul 98 per cento delle grandi imprese, il 25 per cento delle medie, il 3 per cento delle più piccole. Alcuni sono convinti che proprio per questa ragione il governo non avrebbe dovuto alzare la soglia per l’uso del denaro contante, o i criteri per la punibilità in sede penale dell’evasione Iva.
Ma secondo gli estensori della ricerca il problema è un altro: la scarsa volontà politica di combattere l’evasione su larga scala.
«Va fatto un uso integrato delle banche dati, costantemente aggiornate». E soprattutto «è indispensabile realizzare l’integrazione dell’Anagrafe tributaria con le banche dati di altre amministrazioni pubbliche».
Insomma, gli strumenti ci sono. Si tratta di farli funzionare.
Alessandro Barbera
(da “La Stampa”)
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