ELEZIONI REGIONALI, SALVINI NON SFONDA MA AFFONDA
LA MELONI CRESCE MA NON FA SALTARE IL BANCO… DOPPIO SCHIAFFO PER SALVINI: PERDE IN TOSCANA E ZAIA LO SURCLASSA
E alla fine, contendibile non era la Toscana bensì la leadership di Matteo Salvini. Per la seconda volta il Capitano incespica nel tentativo di espugnare il “fortino rosso”: dopo Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, non ce la fa neppure la “leonessa” Susanna Ceccardi.
Due donne, due stili, due diverse campagne elettorali — questa assai più soft per non spaventare i moderati — due fallimenti. L’auto che da via Bellerio, storica sede milanese della Lega, doveva rombare fino a Firenze in serata per rivendicare la fine del dominio di sinistra sulla Toscana, resta a motore spento nel cortile.
L’aria che tira si capisce già verso le quattro e mezza. Quando l’incrocio dei primi exit poll e dei sondaggi vede allargarsi la forbice tra Ceccardi e l’avversario Eugenio Giani: da un punto di vantaggio (per lei) a due, quattro, sei (per lui).
Due ore dopo tra Giani e Ceccardi c’è un fossato di sette punti, tra Michele Emiliano e Raffaele Fitto in Puglia — l’altra Regione data dal centodestra più che per contendibile, quasi per presa — un abisso di nove punti.
La Lega è chiusa in un cupo silenzio. La “passerella” trionfale diventa rapidamente una doccia gelata. Lorenzo Fontana, plenipotenziario salviniano nel Veneto in cui “l’unica certezza — si scherza sui social — è che Luca Zaia non supererà il 100%”, ci mette la faccia.
Ma per dire che forse le scelte del meloniano Fitto e dell’azzurro Stefano Caldoro in Campania (peraltro, due eterni ritorni) non sono state apprezzatissime dagli elettori del Carroccio: “Si apra una riflessione nel centrodestra, nel Mezzogiorno servono un linguaggio e persone nuove”.
Un invito al “rinnovamento” magari fondato, ma fuori tempo massimo.
In Puglia, però, le liste di Giorgia Meloni conquistano le due cifre: 10%, la stessa percentuale di cui gode la Lega da quelle parti. Sono le prime avvisaglie del confronto che da domani si aprirà nel centrodestra: Fratelli d’Italia governerà le Marche con Francesco Acquaroli, ma resta lontanissima dal fotofinish con il governatore pugliese uscente (e a questo punto rientrante) Emiliano, osso assai più duro sul campo di quanto potesse apparire nei sondaggi.
E dunque, a destra la linea del Piave diventa non chi ha vinto bensì chi ha perso di meno.
Salvini è azzoppato: il suo progetto di Lega Nazionale sul modello lepeniano non sfonda, i toni responsabili e l’assenza di incursioni al citofono non lo premiano. A Nord, l’unico pronostico rispettato è quello che vede Zaia oltre il 70% – al momento intorno al 75 — con la sua lista personale, pur “scippata” dei pezzi più pregiati come consiglieri e assessori, intorno al 47%, vale a dire il triplo delle liste ufficiali del partito boccheggianti intorno al 15%.
Un plebiscito atteso ma non per questo meno doloroso per la segreteria nazionale, per quanto Fontana si affretti a negare dualismi.
A Sud, l’apporto elettorale delle truppe padane è poco influente. Chissà cosa ne dirà Umberto Bossi, e con lui la “vecchia guardia” che non avrebbe cambiato il nome del partito nè, tantomeno, l’obiettivo della secessione.
Mentre l’ex ministro Gian Marco Centinaio sposta l’attenzione — e lo sconforto – sul referendum: “Peccato per la sconfitta, tanti dirigenti della Lega erano per il No”. Troppo poco per essere considerato una sfida al Capitano, ma quanto di più vicino ad una critica alla sua linea un partito “dirigista” come la Lega abbia espresso negli ultimi anni.
Da parte sua Giorgia Meloni, dopo una campagna elettorale e referendaria all’insegna della cautela, decide di dare la zampata. Prima circoscrive il campo da gioco: “Vittoria! Le Marche si tingono di Tricolore”. Poi mette fieno in cascina: “Da nord a sud FdI è l’unico partito che cresce”. Si è giocata meno, ha meno da rimpiangere, il banco non se l’è preso, ma tant’è. “Siamo stati determinanti per la vittoria al referendum. Vogliamo la riforma presidenziale. Ma solo un Parlamento legittimato dal voto potrà farle”.
Sullo sfondo resta Forza Italia, che galleggia in un range tra il 6 e il 7%: non c’è la paventata disfatta — il fuggi fuggi sarebbe scattato sotto il 5% – ma certo il partito berlusconiano resta marginale in questa partita e i suoi parlamentari stano già riflettendo sul futuro.
Che, al momento, non appare radioso. Al punto da far mettere in freezer gli entusiasmi per la vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari — meloniani esclusi – e stroncare le prime esortazioni a favore del “voto subito”.
Alle elezioni, infatti, con quale gerarchia di coalizione si andrebbe? E con quale candidato leader?
Salvini è spompato, stanchissimo dopo una campagna elettorale in cui non si è fisicamente risparmiato, insidiato dal “Doge” e dai suoi legami con il mondo produttivo e imprenditoriale nordista, accerchiato dagli scandali finanziari, atteso dalle inchieste e dai processi.
Meloni ha mancato l’occasione di invertire il peso dei due partiti — o almeno riequilibrarlo — e le toccherà pazientare ancora un po’.
Silvio Berlusconi, nonostante l’età e le ultime vicissitudini di salute, mantiene la presa su una Forza Italia di nicchia ma decisa a farsi valere sulle prossime battaglie (in primis la legge elettorale).
Da domani per il Pd e per il governo si aprirà la partita – non facile — della “stagione di riforme”, della legge elettorale, delle rivendicazioni di chi vorrà pesare di più.
Nel centrodestra, invece, si aprirà la resa dei conti.
(da “Huffingtonpost”)
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