“HO NUOTATO PER MEZZ’ORA E QUANDO SONO ARRIVATO A RIVA NON C’ERANO ANCORA I SOCCORSI”
STRAGE DI CUTRO, UN TESTIMONE SMENTISCE LA TEMPESTIVITA’ DEI SOCCORSI
I morti accertati sono 87 e ancora non si sa quanti corpi restituirà il mare. Alle ricerche davanti alla costa di Cutro, si affianca il lavoro della magistratura.
Nel tribunale dei minorenni di Catanzaro, oggi 20 marzo, si è celebrata la seconda udienza dell’incidente probatorio del procedimento a carico del 17enne pachistano, presunto scafista.
Davanti al giudice, uno dei superstiti ha raccontato di essersi salvato «salendo sopra un legno, ho nuotato per mezz’ora e quando sono arrivato a terra non c’erano ancora i carabinieri».
Francesco Verri, avvocato membro del pool legale che assiste i familiari delle vittime, ha commentato: «Il racconto conferma che sono trascorsi troppi tragici minuti dall’urto sulla secca fino a quanto sono arrivati i soccorsi, persino a terra. Un aspetto che sta emergendo prepotentemente in questa indagine».
Il superstite, sentito oggi insieme a un altro teste, ha sostenuto che il 17enne non fosse un vero e proprio componente dell’equipaggio, ma che svolgesse il ruolo di interprete tra i trafficanti turchi e i migranti.
Le testimonianze odierne hanno soddisfatto il difensore del 17enne, l’avvocato Salvatore Perri: i superstiti sentiti, a suo avviso, non fanno altro che corroborare l’ipotesi che il suo assistito si trovasse sulla barca come migrante e non come scafista.
«Anche oggi – ha riferito Perri ai giornalisti fuori dal tribunale – uno dei due testi escussi ha confermato quanto ci aveva detto giorni fa un altro teste, e cioè che hanno provato a fare un viaggio qualche giorno prima di quello che poi hanno portato a termine, ma che non si è potuto concludere perché, dopo alcuni giorni, la barca non sarebbe arrivata e loro hanno fatto rientro a Istanbul con un taxi insieme anche all’indagato, taxi che si sono pagati un po’ ciascuno».
Un altro elemento sul quale si sta concentrando il lavoro della magistratura è il ritrovamento di un borsone a bordo dell’imbarcazione, dentro al quale erano stipate delle banconote in valuta turca. «Un teste – ha spiegato Perri – ha riferito che i comandanti turchi hanno chiesto ai migranti di lasciare le lire turche che avevano e che le avrebbero raccolte per loro. Ma non era assolutamente la quota di viaggio: a domanda specifica della difesa delle persone offese, hanno riferito che il viaggio è stato pagato con il metodo Hawala, ovvero mediamente il deposito a un soggetto terzo nel paese di provenienza».
(da Open)
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