IL CAPO DIMETTE I MINISTRI, PDL NEL CAOS
“NON CI FACCIAMO COMANDARE DA VERDINI E DALLA SANTANCHE’, NON MUORIAMO PER LORO”
In quel momento Francesca stava addobbando il carrello per i dolci con Marina, preparativi per un compleanno, oggi, familiare e funerario ad Arcore.
Silvio Berlusconi era seduto, muto, in salotto. Daniela Santanchè e Denis Verdini urlavano, Sandro Bondi ascoltava a mani incrociate, Niccolò Ghedini prendeva appunti.
E allora, stremato, il Cavaliere ha ripreso coscienza e deciso: “I nostri ministri si ritirano, addio governo di Enrico Letta. Non accettiamo ultimatum”.
Daniele Capezzone aveva abbozzato un comunicato, solito gancio contro la sinistra che tassa, riferimenti al Consiglio dei ministri, l’Iva che aumenta e l’Imu che tormenta.
I ministri non sapevano nulla.
Angelino Alfano ha ricevuto una telefonata, e ha replicato con un suono labiale che accompagna le sue conversazioni con il Capo: si.
Ma i colleghi di governo non hanno accettato di firmare la nota di Arcore senza conoscere il testo e, soprattutto, le motivazioni. Gaetano Quagliariello e Maurizio Lupi, ormai in rotta con il Cavaliere, mirano ai carnefici: “Non ci facciamo comandare da Verdini e Santanchè. Non moriamo per loro”.
Attimi di apprensione. Da Arcore era scattato l’ordine di disintegrare l’alleanza, ma i ministri stavano lì, nervosi, a tracciare una via di fuga: “È una follia”.
Berlusconi compone cinque numeri di telefono differenti, anzi quattro perchè non c’era bisogno di ammansire Alfano o di fornire una spiegazione. Il Cavaliere parla con Lupi, Lorenzin, Quagliariello e De Girolamo: “Non possiamo farci stritolare da Letta e dal Pd. I nostri elettori non potranno perdonarci se alziamo le tasse. Andiamo a votare. Io non mi fido di Napolitano”.
Quella che il Capo chiama la delegazione di Forza Italia scrive un paio di righe, recepisce il messaggio: “Non ci sono più le condizioni per restare”.
Non finisce, però, la devastazione interna. E non soltanto per la reazione di Fabrizio Cicchitto: “Dovevamo discutere prima”.
Il segnale fa scattare la rivolta. Anche Alberto Giorgetti, sottosegretario al Tesoro, ripudia l’editto di Arcore: “Contesto il metodo usato per i ministri, non lascio da deputato”.
E il pericolo si chiama “scissione”, incontrollabili e clamorosi spostamenti al centro per far nascere un nuovo esecutivo.
L’elenco di Palazzo Madama è abbondante: Giovanardi, Compagna, Naccarato, Falanga; i siciliani Castiglione, Torrisi e Pagano. E il saggio Quagliariello, assieme al cattolico Lupi (Montecitorio, però) che non sopporta più la versione Forza Italia Garnero in Santanchè.
A Roma guardano con sospetto al gruppo di Arcore che ha imposto al Cavaliere l’uscita per Letta: i moderati si vedono, tramano e sperano.
E fra le tante voci che circolano, e che contengono un retroscena di verità , dicono che fra i più accaniti consiglieri di B. ce ne siano due che temono conseguenze giudiziarie: non del Capo, ma personali.
La sindrome del guinzaglio, ormai esperto in materia per le frequentazione di Dudù, è l’ultima malattia del Cavaliere.
La sceneggiata “dimissione di massa” ha dimostrato che B. non riesce più a tenere insieme il partito. Ha chiuso la partita perchè non dorme per i traditori: “Venerdì notte è stato sveglio. Non riusciva a riposare per la storia del Cdm e per tutti i problemi che lo assediano”, racconta con affetto Sandro Bondi.
Quando non vuole sentire rimproveri, il Cavaliere allontana gli amici più cari.
Ad Arcore non c’erano Paolo Bonaiuti e Gianni Letta, e nemmeno li ha informati, coinvolti. Marina non era d’accordo col padre, non voleva far precipitare la situazione, per il bene di un’azienda di famiglia che subisce i sussulti di palazzo Chigi.
E non sorprende che abbia disertato la riunione ristretta con Verdini e Santanchè, che hanno convinto il Cavaliere ad aprire la campagna elettorale con un comizio durante la manifestazione del 4 ottobre, giorno di seduta in Giunta per le Elezione, giorno di decadenza. Oggi fa 77 anni.
Carlo Trecce
(da “il Fatto Quotidiano“)
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