IL PAESE CHE CONDANNA ALL’ERGASTOLO UN DICIOTTENNE
TUTTI I DUBBI SUL CASO CERCIELLO: DALL’ETA’ DELL’ASSASSINO AL RUOLO DELL’AMICO, DALLA DEBOLEZZA DEL TESTE AL RISVOLTO POLITICO DEL PROCESSO
Ammaliata dai giochi di prestigio di Piercamillo Davigo, indignata dalla delatoria spudoratezza di Luca Palamara, divisa dallo show di Beppe Grillo, l’informazione è rimasta distratta, o indifferente, a quello che potrebbe essere un nuovo primato della giustizia: la condanna all’ergastolo dell’imputato, non mafioso, più giovane della storia repubblicana.
Il condizionale è d’obbligo, perché la data di nascita dei colpevoli non rientra nel novero dei dati censiti dalle agenzie di statistica. Però la notte del 25 luglio di due anni fa, quando il brigadiere Mario Cerciello Rega è stato accoltellato e ucciso a Trastevere, Gabriel Natale Hjort aveva 18 anni.
La sentenza con cui la Corte d’Assise di Roma gli ha inflitto il carcere a vita, con isolamento diurno per due mesi, insieme con l’autore materiale dell’omicidio, Lee Elder, un anno più grande di lui, non ha suscitato alcuno stupore.
Le cronache dei grandi giornali e i servizi dei tg l’hanno raccontata con l’asetticità adeguata alla conclusione plausibile, e prevedibile, di un processo molto popolare. A questo mascheramento ha concorso l’inversione lessicale adoperata dal pm, Maria Sabina Calabretta, specializzata in reati societari, fallimentari e bancari – secondo quanto riporta il sito della Procura della Repubblica capitolina -, che per tutte le udienze ha definito i due imputati “giovani uomini”.
Bisogna provare a pronunciare questa locuzione per sentire già sulle labbra quanto suoni diversa da quella con cui siamo soliti chiamare i nostri figli diciottenni, i loro compagni di scuola, e i ragazzi che tornano in questi giorni a sciamare per le città riaperte alla vita: “adolescenti”.
Così del resto li chiamerebbe qualunque vocabolario che si rispetti. Io mi chiedo e vi chiedo che cos’è, o che cosa diventa, un Paese dove si punisce con l’ergastolo un delitto commesso da due adolescenti di diciotto e diciannove anni. Quanto rischia di somigliare a quelle fanatiche autocrazie securitarie e dispotiche, le cui violazioni dei diritti più elementari pure suscitano la nostra indignazione.
Non si tratta di cadere in sociologismi che dispensano indulgenza a buon mercato, né di voler negare la responsabilità individuale in nome di un perdonismo che pesca nella pietas cristiana. Restiamo pure su un piano squisitamente razionale: chi oserebbe negare che un diciottenne sia condizionato da percorsi di vita e traumi che forse non ha avuto il tempo di elaborare e di sfidare? Possiamo trasformare la sua prima sconfitta, ancorché gravissima, in una conseguenza irreversibile o ultimativa? Perché nessun cane da guardia abbaia contro questa barbarie?
In Italia l’ergastolo è ancora l’ergastolo. Lo scontano in millesettecentonovanta. Milleduecentocinquanta dei quali, cioè i due terzi, sono morti viventi, seppelliti dall’aggravante ostativa che impedisce qualunque premialità. I restanti cinquecentoquaranta dovranno attendere 26 anni prima di poter sperare nella liberazione condizionale, a differenza di quanto accade nella maggior parte delle democrazie avanzate d’Europa, dove dopo 12 o 15 anni può iniziare un percorso di risocializzazione.
L’ergastolo dei due ragazzi, adolescenti, sbandati, tossici, ma tutto tranne che “giovani uomini”, è la prova di quanto il diritto penale sia andato via via slabbrandosi. La sua risposta non persegue la gravità intrinseca della condotta rilevata, ma l’ingiustizia generica percepita dalla società. Il cui perimetro è gonfiato dalla rabbia sociale.
Con l’effetto di dilatare l’ampiezza delle fattispecie e degli istituti del processo, come quello del concorso. Gabriel Natale Hjort è stato condannato alla pena massima dell’ordinamento non per aver ucciso il brigadiere, ma per essersi accompagnato all’assassino.
Quando l’amico Lee Elder reagiva con undici coltellate all’arresto, lui affrontava a mani nude un altro carabiniere, e poi sfuggiva a questo, allontanandosi senza assistere al delitto. La sua condotta è stata definita a turno, dal pm e dalle parti civili, concorso e dolo ora morale, ora materiale, ora diretto, ora eventuale. Come effetto di una ricostruzione a posteriori. Fondata su presunzioni: Gabriel sapeva che Lee Elder aveva il coltello in tasca. O su gesti depistatori: l’aver aiutato il compagno a nascondere la stessa arma dopo il delitto.
Così la responsabilità penale ha finito per risultare una condizione oggettiva cucitagli addosso da circostanze a cui il giovane non è riuscito a sottrarsi. Si può comminare l’ergastolo senza che si possa attribuire con prova la volontà di una piena e premeditata partecipazione al supplizio del carabiniere?
Si può. Si può in un processo che – come ha detto l’avvocato del diciottenne, Francesco Petrelli – è capace di sconfessare qualunque prevedibilità degli esiti, archiviando tanto la legalità sostanziale quanto quella processuale.
In nome di esigenze e urgenze figlie di questo tempo: un’attrattiva mediatica, dettata dalla popolarità del luogo, dalla singolarità degli autori, due giovani turisti americani, e della vittima, un tutore della sicurezza pubblica; una spendibilità politica, in quanto occasione di una propaganda securitaria e forcaiola; una delicatezza istituzionale, che coinvolge i Carabinieri.
Nelle settimane in cui si chiude il processo, un’altra indagine, quella sulle coperture e i depistaggi nella morte di Stefano Cucchi, sta mettendo alle corde i vertici dell’Arma. Lì si procede senza sconti né timori reverenziali. Qui, a Trastevere, s’indulge su errori marchiani e bugie dei militari coinvolti. Che intercettano i due americani senza divisa e senza pistola, nonostante fossero regolarmente in servizio, e con regole d’ingaggio più simili a quelle di due ambigui contractor.
L’intera contestualizzazione del delitto si fonda sul racconto del carabiniere Andrea Varriale, che accompagnava il brigadiere ucciso, e che per le sue bugie è sotto processo di fronte al tribunale militare. Era in T-shirt e jeans, quando ha fermato i ragazzi, ha mentito sostenendo che aveva la pistola e ha così indotto il comandante della stazione di Trastevere a confermare la sua falsità.
Ha aggiunto alla Corte d’Assise di aver subito dichiarato ai due americani la propria qualifica, esibendo il tesserino dell’Arma. Gli imputati hanno sempre giurato il contrario, raccontando di aver reagito a quella che sembrava un’aggressione di sconosciuti.
Vale più la parola di due sbandati con una gravissima accusa sulle spalle o quella di un carabiniere presunto bugiardo, e con molti buoni motivi per mentire, imputato in un procedimento connesso e tuttavia unico testimone del fatto? I giudici d’Assise non hanno avuto dubbi: la deposizione di Varriale è diventato il racconto ufficiale di un martirio. E la condanna dei due suona ora per l’Arma come una compensazione del destino al disdoro del processo Cucchi.
Un avvocato americano ha raccontato in tv di aver spiegato ai due ragazzi che in Italia la giustizia di primo grado è inattendibile.
E che già dall’Appello si può puntare su una maggiore ponderatezza e competenza dei giudici. Gabriel e Lee non devono cedere alla disperazione. Vent’anni fa un loro coetaneo, Mirko Eros Turco, è finito all’ergastolo per un duplice omicidio. Lo accusavano sette pentiti di mafia. Ma dopo dieci anni di ingiusta detenzione è stato scagionato dalla Cassazione, liberato e risarcito. Qui il processo non si prescrive mai, ma neanche la speranza.
(da Huffingtonpost”)
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