IL RACCONTO DELL’AMBULANTE AGGREDITO A MILANO DA DUE RAZZISTI: “IN DUE MI HANNO BUTTATO NEL NAVIGLIO, ORA NON VENDO PIU’ ROSE, HO PAURA DI INCONTRARLI”
IL VENDITORE DI FIORI DEL BANGLADESH RIESCE COSI’ A MANDARE I SOLDI A CASA PER MANTENERE LA MOGLIE E CINQUE FIGLI
Sahabuddin non vende più rose. Dalla notte in cui due ventenni lo hanno scaraventato nel Naviglio, senza una parola nè un motivo, non è più tornato sui Navigli, tra i tavolini dei bar dove lui e i suoi amici del Bangladesh raccolgono le briciole della movida milanese.
Sahabuddin Chokdar non vende più rose perchè ha paura. Di incontrare di nuovo i due ragazzi che l’hanno spinto in acqua, e rivivere quei pochi attimi di terrore quando ha pensato di morire.
“Erano italiani, ma era buio – racconta ora col poco italiano che conosce, ricordando i fatti della notte tra l’11 e il 12 luglio -. Io ero di spalle all’acqua, quasi sul bordo della Darsena. Sono arrivati, mi hanno spintonato e buttato giù senza dire nemmeno una parola. Io so nuotare ma ho avuto paura di morire. Ho ripensato alla Libia, nemmeno quando sono stato in carcere lì o sul barcone per raggiungere l’Italia, ho provato le stesse cose. È stato così veloce che non riuscivo a risalire. Stavo annegando, avevo solo un braccio fuori dall’acqua. Poi mi sono sentito afferrare un polso, era un ragazzo che mi tirava fuori. L’ho ringraziato tanto. E anche i poliziotti sono stati gentilissimi con me”.
Dal Bangladesh all’Italia, tra prigionia e torture
Sahabuddin ha 55 anni. Ha lasciato il suo villaggio a Madaripur otto anni fa. Ha salutato la moglie e i cinque figli, ed è partito verso la Turchia, poi nel 2012 è arrivato in Libia. “Volevo venire in Italia perchè ci sono tanti connazionali che riescono a guadagnare qualcosa. In Bangladesh lavoravo nei campi, raccoglievo pomodori e cipolle, ma non riuscivo a mantenere la famiglia. In Libia ho lavorato come muratore, come scaricatore di televisori nei magazzini, ma sono stato anche in carcere per mesi”. Poi piega la testa e mostra le cicatrici tra i capelli. “Eravamo detenuti e picchiati senza ragione”.
Dopo lo sbarco in Sicilia, ha vissuto in un centro di prima accoglienza ad Aosta e ora ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari che sta rinnovando. Da due anni è a Milano, una città che ancora oggi conosce pochissimo. Ai poliziotti che sono intervenuti sulla Darsena non ha saputo nemmeno dire il suo indirizzo. E confonde ancora oggi il nome della sua via con quello di una strada vicina. Ora vive in affitto nella portineria di un palazzo popolare, non lontano dai Navigli, con altri bengalesi. Un bilocale al pianoterra, una sola finestra senza vetri sbarrata da una saracinesca, una bombola a gas collegata a una cucina arrugginita. E le stanze piene di trolley, cibo in scatola, brandine e letti a castello.
Meno di 20 euro il guadagno di un giorno
“Guadagniamo meno di venti euro a sera. Riusciamo a pagare l’affitto, ma non riesco a mandare tanti soldi a casa. Ora sono tutti in giro a vendere, ma io non più ripreso. Per ora resto qui”. Quando Sahabuddin è stato tirato fuori dall’acqua si è accorto di non avere più il cellulare, l’unico contatto col suo mondo. “Per una settimana non ho potuto chiamare la mia famiglia. Hanno pianto tutto il tempo, pensavano che fossi morto. Poi i miei amici hanno fatto una colletta e mi hanno comprato un telefonino usato. La memoria interna è stata recuperata”.
Ha chiamato casa ed erano tutti disperati. “Mia moglie piangeva, i miei figli piangevano. Il più grande ha vent’anni, il più piccolo dieci. Quando sono partito ne aveva solo due. Spero un giorno di tornare da loro”.
(da agenzie)
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