IL RETTORE DELLA BOCCONI: “NEI PROSSIMI 30 ANNI LA POPOLAZIONE ITALIA PUO’ CRESCERE SOLO CON I MIGRANTI”
FRANCESCO BILLARI: “LE POLITICHE PER LE FAMIGLIE POTRANNO INCIDERE SOLO DOPO MOLTI ANNI”
Francesco Billari è demografo e rettore dell’Università Bocconi. Il suo ultimo libro è “Domani è oggi”
Professor Billari, si parla molto di “inverno demografico” per il nostro Paese: è un’espressione giustificata?
Lo è se ci si riferisce alla diminuzione delle nascite e all’aumentare dell’età media della popolazione, che sono fatti innegabili. Diventa però meno giustificata se dà a intendere che si tratta di un fenomeno “naturale”, immodificabile o persino fisiologico. Così, infatti, passa l’idea che non ci si possa fare granché, se non forse mitigare dei fenomeni esogeni enormi, indipendenti dalla nostra volontà come le stagioni. Ma non è così, e lo è ancora meno per l’Italia, che pur presentando alcune criticità non ha gli enormi squilibri demografici di Paesi come la Cina.
In che modo il nostro Paese è diverso da altri?
Abbiamo una combinazione particolare di tre fattori: aumento della quota di anziani, autonomia tardiva dei giovani e zone in spopolamento. Si parla molto del fatto che gli italiani fanno figli tardi, ma in realtà su questo siamo abbastanza in linea con altri Paesi. Dobbiamo toglierci di mente l’idea di tornare a far figli a 20-25 anni: quello è un passato che non tornerà più. Invece quello che dobbiamo fare è creare un sistema sociale ed economico che permetta ai giovani di continuare a lavorare e sostenersi serenamente pur facendo figli.
Il costo di avere dei figli, però, è molto aumentato rispetto al passato.
È vero, ma questo costo può essere modificato, per esempio con politiche pubbliche. Ciò che conta davvero è il tempo di attesa prima di diventare genitori, che è aumentato in quanto si aspetta “il momento giusto”. Ma è chiaro che questo momento fatica ad arrivare se cominci ad avere una tua indipendenza solo a trent’anni. Per esempio, i Paesi nordici hanno giovani che escono di casa a 21-22 anni: anche loro attendono parecchio prima di fare figli, ma cominciando a ragionarci da ben prima. E peraltro potendo così contribuire pienamente alla società e all’economia nei loro anni più creativi e per certi versi anche più produttivi.
Non c’è anche un fattore culturale? Una sempre più diffusa sfiducia nel futuro?
Probabilmente sì. Gli italiani in particolare pensano che oggi si stia peggio di 50 anni fa, per cui guardano al passato più che al futuro. Un’idea assolutamente ingiustificata: stiamo molto meglio di come stavano i nostri nonni sotto moltissimi punti di vista. Tuttavia, a mio parare il fattore culturale è spesso sopravvalutato. Per esempio: l’Italia oggi ha il 40% di nati fuori dal matrimonio, anche se si dice spesso che teniamo molto alla “famiglia tradizionale”. Quindi non è detto che una mentalità tradizionalista o timorosa si traduca in denatalità.
Ma invecchiando non rischiamo di diventare un Paese sempre più conservatore e tradizionalista?
Non è detto che sia l’invecchiamento in sé a frenare l’innovazione e il progresso. I Paesi che vediamo essere più dinamici sono quelli che tendono ad avere più giovani autonomi piuttosto che averne tanti. Guardiamo a Paesi come la Corea o il Giappone per esempio: soffrono di profonde crisi demografiche per via della bassissima natalità e hanno molti anziani, ma sono società che hanno mantenuto o sviluppato una cultura dell’innovazione molto forte.
Qual è allora la chiave demografica per il nostro Paese?
La crescita della popolazione italiana nei prossimi 20-30 anni è legata esclusivamente alle politiche migratorie: le politiche per le famiglie, fondamentali, inizieranno ad incidere davvero molti anni dopo la loro introduzione. Fortunatamente, di giovani e di bambini il mondo è pieno. Bisogna guardare ad esempi come quelli della Germania e della Svezia, che hanno avuto un approccio scientifico alla demografia accogliendo molte più persone di quanto non facciamo noi.
La Francia però lo ha fatto in passato e ora ha dei grossi problemi d’integrazione.
La Francia, che ha fatto delle ottime politiche familiari basandosi sui dati, a un certo punto per ragioni politiche ha smesso di fare lo stesso per quanto riguarda l’immigrazione. Di fatto aveva una società segregata ma nessuno se ne era davvero accorto. Ora ne sta pagando il prezzo. E anche noi rischiamo di trovarci molto rapidamente in una situazione simile, dal momento che per esempio non riconosciamo come cittadino italiano chi è nato e cresciuto qui e non integriamo davvero chi arriva. Questa è la nostra vera bomba demografica e sociale, e non ce ne stiamo occupando.
Lei si è occupato anche molto di scuola: aumentare il livello di istruzione è un’altra “medicina” al problema demografico?
Certamente, perché una maggiore scolarizzazione aumenta l’occupazione, genera aziende più grandi e quindi più produttività. Così come oramai c’è una solida evidenza della correlazione tra occupazione femminile – o quanto meno sviluppo economico – e maggiore natalità. Lo si vede anche da noi: sono le zone più ricche come Bolzano o Trento che hanno una fecondità più alta, così come hanno un numero di laureati superiore alle media. Questo è il dato scientifico: maggiore capitale umano crea benessere economico e sociale e quindi maggiore natalità.
Alcuni però fanno notare che ora servono di più figure come operai specializzati per l’industria che laureati.
Prima di tutto non è vero, dal momento che i laureati italiani si collocano con percentuali ben maggiori di chi ha un titolo di studio secondario. Ma poi: il compito di chi si occupa di istruzione non è basarsi sui bisogni del mercato di oggi, che inevitabilmente tra qualche anno cambieranno, ma sul lungo periodo. Noi oggi abbiamo il 30% di giovani laureati, molto sotto la media europea, e abbiamo il record di NEET, cioè giovani che non studiano e non lavorano. Allora o siamo gli unici al mondo ad aver capito che l’istruzione avanzata non serve e pensiamo di dover rimanere un Paese di piccole aziende che gareggiano al ribasso con Paesi meno sviluppati, oppure capiamo che faremmo meglio a cambiare passo.
Però con una popolazione che invecchia ci sarà sempre più bisogno di lavoro di cura.
Anzitutto c’è da dire che l’aumento dell’età media non necessariamente si associa a un maggior bisogno di cura: dipende quanto è lunga la vita in salute. Per cui dobbiamo investire in prevenzione. Poi certo, ci sarà bisogno di più servizi – che peraltro già oggi rappresentano la maggioranza dell’occupazione. Di nuovo una chiave sarà la migrazione, per coprire certi bisogni più immediati, ma allo stesso tempo dobbiamo anche dare maggior prestigio sociale e remunerazione a tutta una serie di professioni non solo sanitarie ma anche nel campo dell’istruzione o dell’amministrazione pubblica che oggi sono piuttosto svalutate.
Cosa dovremmo fare allora, nel concreto?
Anzitutto partire dai dati e dal confronto con altri Paesi per capire che riforme fare. La prima cosa che mi viene in mente in questo senso è ripensare alla scuola. I test PISA e INVALSI ci dicono che siamo in grave ritardo. La nostra scuola è ancora quella pensata cent’anni fa da Gentile per alfabetizzare un Paese agricolo: ora serve altro. Poi occorre dare maggiore autonomia ai giovani, intervenendo sui piani edilizi per aumentare la disponibilità di case in affitto e popolari, oltre che a costruire asili nido per fornire questo servizio gratuitamente a tutte le famiglie. Insomma, dobbiamo investire in capitale umano guardando al futuro e non al presente, e partendo dai casi di eccellenza che pure ci sono nel nostro Paese. In questo modo potremmo anche abbandonare il disfattismo e rendere più facile per i giovani pensarsi genitori.
(da Huffingtonpost)
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