IL RITIRO DELLE AZIENDE OCCIDENTALI DALLA RUSSIA HA INVERTITO DI COLPO TRENT’ANNI D’INTEGRAZIONE ECONOMICA
NEI SUPERMERCATI SCARSEGGIANO PRODOTTI CASALINGHI E COSMETICI E NELLE SCUOLE SONO STATE ABOLITE LE VERIFICHE SCRITTE PERCHÉ IL PREZZO DELLA CARTA È ALLE STELLE
Stoleshnikov pereulok, strada dello shopping di lusso, è pressoché deserta da quando la stragrande maggioranza delle maison ha chiuso. Vetrine oscurate per Christian Dior, Fendi e Louis Vuitton.
Anche le corsie dei grandi magazzini Gum che con la loro imponente facciata dominano la piazza Rossa dal lato opposto del Cremlino sono una sequela di battenti serrati. Ikea, epitome del comfort moderno a prezzi accessibili, ha chiuso.
E dalle vetrine dell’ormai ex McDonald’s in piazza Pushkin, il primo ristorante della popolare catena statunitense ad aprire nel 1990 attirando oltre 30mila avventori nel giorno dell’inaugurazione, sono scomparsi gli iconici archi dorati.
Da quando il 24 febbraio la Russia ha lanciato la sua sanguinosa offensiva in Ucraina, circa mille compagnie occidentali si sono ritirate dal Paese o hanno ridotto o sospeso le loro operazioni, secondo il conteggio della Yale School of Management.
Un esodo così massiccio da avere invertito di colpo trent’ anni d’integrazione economica e avere messo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro un tempo sicuri. A trent’ anni dal crollo dell’Urss, il Paese non ha ancora imparato a produrre merci all’avanguardia. E ora che quelle d’importazione non ci sono più, si torna indietro. Le aziende automobilistiche avvertono che stanno esaurendo i pezzi di ricambio.
Nei supermercati scarseggiano prodotti casalinghi e cosmetici. Nelle scuole sono state abolite le verifiche scritte perché il prezzo della carta è schizzato. Per colmare l’esodo di griffe come Zara, molti hanno iniziato a ordinare abiti su misura. Si stanno esaurendo anche le scorte di farmaci salvavita. E con il defitsity , la carenza di merci di sovietica memoria, sono tornati i fartsovshchiki , i commercianti in nero. «Viviamo letteralmente sulle montagne russe », confessa un imprenditore dietro anonimato.
Per sopperire ai vuoti, le autorità hanno persino autorizzato le cosiddette “importazioni parallele” o “grigie” risvegliando il ricordo di quelli che chiamavano chelnoki (dal nome della spola che muove l’ago avanti e indietro sui telai) che nei dolorosissimi anni Novanta andavano all’estero ad accaparrarsi le merci mancanti per poi rivenderle in patria. «Le autorità hanno deciso di realizzare la loro idea di una Russia deglobalizzata», sostiene l’analista di sicurezza Pavel Luzin. «L’idea che sia giunto il momento di fermare tutti questi giochi degli ultimi trent’ anni e mettere l’intero spazio ex sovietico sotto il loro controllo e, in breve, tirare nel loro guscio e vivere da soli». È il ritorno all’Urss.
Come le multinazionali, fuggono anche migliaia di cittadini spaventati dal rigurgito di totalitarismo. Quasi 15.500 persone sono state fermate per aver protestato contro l’offensiva in Ucraina. Dopo che a inizio marzo le autorità russe hanno approvato una legge che prevede fino a 15 anni di carcere per la diffusione di “notizie false” sulle forze armate, manifestanti sono stati arrestati anche per un foglio bianco o otto asterischi. Oggi la protesta è solo un sussurro, un graffito sul muro, un pupazzetto in miniatura o un cartellino del prezzo modificato.
Da quando Vladimir Putin ha diviso il popolo in “patrioti” e “traditori”, cittadini “pro” e “contro” l’operazione speciale, sono tornate in voga anche le delazioni di sovietica memoria. Il presidente russo, ha commentato Sam Greene, direttore del Russia Institute presso il King’ s College London, «sta effettivamente combattendo due guerre», una in Ucraina e una in patria. Duecentomila cittadini, secondo alcune stime, hanno lasciato il Paese soltanto nelle prime due settimane di offensiva.
Esiliati come i “Bjeloemigrant”, i “russi bianchi”, un secolo fa dopo la Rivoluzione. Una fuga resa ancora più complicata dalle chiusure dello spazio aereo e dalle restrizioni sul rilascio dei visti varate da Ue, Usa e Canada, nonché dallo stop ai collegamenti deciso da varie compagnie aeree senza più coperture assicurative nei cieli russi a causa delle sanzioni. Per raggiungere la vicina capitale estone Tallinn ora ci vogliono almeno 12 ore di volo via Istanbul invece dei soliti 90 minuti di aereo. E una volta raggiunta la meta, i russi sono spesso trattati da paria.
Anche i viaggi virtuali sono un miraggio. L’autorità censoria ha bandito social come Facebook e Instagram e chiuso l’accesso ai siti web di centinaia di testate. Molti media indipendenti sono stati costretti a chiudere o sospendere le operazioni. Sulle frequenze della storica radio della perestrojka Ekho Moskvy ora trasmette Radio Sputnik , mentre gran parte della redazione di Novaja Gazeta , il giornale diretto dal Nobel per la Pace Dmitrij Muratov, si è trasferita a Riga in Lettonia.
La maggior parte della popolazione resta in balia dei media di Stato che descrivono una realtà parallela dove, per parafrasare Peter Pomerantsev, “niente è vero, tutto è possibile”. Netflix ha staccato la spina e le major hollywoodiane non distribuiscono più i loro titoli. Nei cinema russi tornano i vecchi classici sovietici o sbarcano copie piratate delle pellicole occidentali. I russi si rifugiano nella lettura di volumi di autoaiuto e psicologia e, primo fra tutti, del romanzo distopico 1984 di George Orwell.
In un Paese che chiama “operazione militare speciale” la barbarie in Ucraina, il “bispensiero”, la riscrittura del passato e il “Grande Fratello” suonano come una profezia avverata. E quello slogan, «La guerra è pace», inciso sulla porta del “Ministero della Verità” nel mondo allucinato di Winston Smith, si rivela anche nel suo brutale contrario: «La pace è guerra». E anche qui in Russia fa le sue vittime.
(da la Repubblica)
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