INSOLITO, MODERNO, TRADIZIONALE: BATTIATO ERA LO STRAVINSKIJ DELLA CANZONE ITALIANO
ERA ENTRATO A GAMBA TESA ROVESCIANDO QUEL MONDO COME UN CALZINO… ADDIO AMICO, IL TUO SORRISO CE LO PORTIAMO DIETRO
Per parlare di Franco Battiato dovrei cominciare seguendo il filo di una lettura critica, attenta, documentata: siamo davanti a uno dei geni, un innovatore anomalo, senza paragoni della canzone italiana; anzi della musica italiana tout court, dai primi tentativi pop degli anni 60 allo sperimentalismo elettronico e minimalista; dalla stupefacente parabola che lo portò negli anni 80 al centro della scena alle commistioni colte (diverse opere liriche, una Messa, composizioni strumentali), fino al definitivo porsi come punto autorevole della cultura italiana tutta.
Ma a dominare adesso, in questo martedì mattina milanese in cui mi arriva come una fucilata la notizia della sua morte, è la malinconia, la tristezza, insieme al senso di un percorso di ricerca arrivato al suo punto finale, misteriosamente compiuto.
Dopo Giorgio Gaber, amico di famiglia e sostenitore fin dall’inizio del suo talento (cominciò la carriera come chitarrista di Ombretta Colli), dopo Lucio Dalla, talmente vicino a lui da volere anche lui una casa a Milo, sotto l’Etna, adesso Franco: è il terzo amico artista, frequentato, ascoltato, intervistato, seguito da vicino, che non potrò più ascoltare. L’ età senile ormai si fa sentire: ascolto la loro voce, le loro grandi canzoni, e partono le lacrime, vengono alla memoria tutti i concerti, i dischi, le cene, le visite, i viaggi, le battute, i sorrisi, gli incontri, i congedi.
L’ultima telefonata, quando capii che qualcosa in lui si era irrimediabilmente incrinato, l’ultimo no che ancora mi brucia, quando la “maledetta” televisione mi obbligò a dare forfait nel 2015 per la presentazione milanese della sua bellissima antologia “Le nostre anime”, cui avevo aderito con entusiasmo. Gli spiacque, e ancora mi brucia.
Prima, tanti anni prima, ero uno dei tanti ragazzini milanesi zazzeruti che affollava i festival degli anni 70 che dopo ore di intense di chitarre rock e cantautori a pugno chiuso puntualmente finivano (erano gli anni di “Fetus” e “Pollution”), col suo moog provocatorio, indecifrabile e fascinoso come i suoi capelli portati alla Angela Davis. Aveva cominciato pop, canzonettaro anzi, ma poi si era messo a studiare, aveva cercato maestri al Conservatorio di Milano, incontrato Stockhausen, Giusto Pio, prodotto opere minimaliste e frequentato il mondo delle gallerie e dell’avanguardia. Ma fra il 1979 e il 1981, con la trilogia “L’era del cinghiale bianco”, “Patriots”, “La voce del padrone” era rientrato a gamba tesa nell’agorà della canzone italiana rovesciandola come un calzino.
Era talmente consapevole quel pop, talmente surreale e calcolato e insieme giocoso e melodico, che mi venne da definirlo lo “Stravinskij della canzone italiana”. Era insolito ritmicamente, barbaro e insieme complesso, moderno e insieme tradizionale, da farmi pensare, si parva licet, alla rivoluzione del “Sacre” sulla scena musicale parigina dei primi del 900.
Era gustoso parlare con lui, ti regalava humour a più non posso, alleggerendo, ironizzando sempre. A meno che si toccasse il cuore profondo della sua ricerca spirituale, che ne ha fatto il faro di tanti eclettici dello spirito ma anche di molte obbedientissime monache di clausura.
L’ho inseguito fra sale d’incisione e teatri lirici, meravigliose location archeologiche e palazzetti dello sport; ho frequentato le sue case milanesi e, una volta, la piscina in pietra lavica nascosta nella sua casa di Milo. Ho approfondito, capendone poco, i suoi amori fra Gurdjieff e la casa editrice l’Ottava; mi ha fatto scoprire Guenon e il Sufismo, meravigliosa declinazione del credo islamico di cui non sapevo nulla.
Mi ha fatto incontrare – ricordo una lunga granita in un bar di Catania – il fascinoso filosofo Manlio Sgalambro, ma soprattutto ogni volta che tornavo ad ascoltarlo in concerto mi regalava, seduto sul suo tappeto al centro del palco, emozioni e riflessioni profonde.
Credeva, e forse vi ha creduto fino all’ultimo, nella reincarnazione, su basi molto approfondite che francamente non vi saprei spiegare. Chissà se davvero tornerà in altra forma; certo adesso è al cospetto di quel Mistero di cui sentiva intessuta la vita di noi uomini e la sua nel profondo.
Credo che ora si senta compiuto, felice, dopo gli ultimi anni segreti di certo segnati dalla sofferenza. Addio amico, il tuo sorriso ce lo portiamo dietro, e scusaci se ascoltando la tua voce anche per te ci scioglieremo in lacrime, per amicizia e bellezza, insieme.
(da Huffingotonpost)
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