INTERVISTA AL POLITOLOGO ALESSANDRO CAMPI: “LA POLITICA NON ESISTE E LA GENTE VUOLE TUTTO. COSI’ LO STATO SI DISGREGA”
“NON ESSENDOCI PIU’ STRUTTURE SOCIALI IL RISCHIO E’ CHE VINCA LA LOGICA DEL PIU’ FORTE”
“Siamo nella civiltà del tutto e subito, ma la confusione tra desideri e realtà , o peggio la convinzione che i primi si possano sempre concretizzare secondo la nostra volontà , crea frustrazione e rabbia nelle persone”.
È così che lo storico e politologo Alessandro Campi racconta lo scenario attuale, partendo dal termometro sociale, carico a suo dire di “piagnistei”, e arrivando a tastare il polso sia economico che politico.
La sua tesi è che oggi tutti vogliano “il massimo per sè a scapito degli altri”, ma questo modo di pensare “è la fine di qualunque forma di contratto o relazione sociale”.
Professore, sul Messaggero ha scritto che viviamo ormai nella società del lamento permanente, petulante e universale, ne è sicuro?
Basta guardarsi intorno: la lamentazione è continua, insistente, generalizzata e investe tutti gli ambiti della vita collettiva. Ogni forma di autorità è contestata: dalla famiglia alla scuola, dal sistema dell’informazione alla sfera religiosa. Non c’è istituzione che goda di una qualche fiducia: nemmeno più delle forze dell’ordine. La storia, intesa come il passato con i suoi simboli e il suo pantheon di eroi più o meno senza macchia, è un cumulo di orrori da rimuovere. I politici, come categoria, sono considerati dei mangiapane a tradimento.
In questo quadro, il piagnisteo degli oppressi, compresi quelli che fanno finta di essere tali, e da cui è nata l’onda del politicamente corretto, in cosa si è trasformato?
Nella pretesa arrogante, minacciosa e talvolta violenta che hanno le minoranze di imporre al resto del mondo il loro modo di pensare.
Quest’atteggiamento di rivendicazione ad oltranza da un lato è frutto di cosa?
Di un’antropologia egoistica e settaria, ma anche della cattiva politica, pronta a cavalcare per calcolo elettorale o pregiudizio ideologico qualunque forma di protesta sociale.
A cosa dovrebbero servire la politica?
A porre limiti e paletti, a garantire che nessuno possa prevaricare sugli altri. Se fosse per il cittadino medio, normale o qualunque avremmo vigente la pena di morte anche per i furti in casa e nessuno pagherebbe le tasse: la politica seria, dovendo garantire per prima cosa un’equilibrata convivenza sociale, dovrebbe dire “no” alle richieste assurde, puramente recriminatorie o sostenute solo dalle emozioni collettive. Soprattutto dovrebbe impedire, come sta accadendo, che la richiesta di un costume sociale più tollerante e non-discriminatorio si trasformi in un sistema di regole giuridiche che a loro volta sono repressive, intolleranti e discriminatorie.
Esistono delle istanze prioritarie?
Le più pressanti sono ovviamente le richieste economiche. Legittime e comprensibili per tutti quei cittadini che si trovano in condizioni di oggettiva difficoltà . Ma se si dovesse dare retta alle diverse categorie, tutte impegnate a chiedere sussidi e aiuti pubblici, saremmo in bancarotta nel giro di una settimana. Per essere il Paese col più alto risparmio privato al mondo, sembra che nessun italiano abbia due euro in banca…
Una critica moralistica?
No, mi pongo un problema che ha rilievo sul piano politico-giuridico. Quanto un sistema politico, a partire da quelli democratici, può sopportare un simile sovraccarico di domande e aspettative? Oggi prevalgono nelle classi politiche istanze in senso lato demagogico-populistiche: si tende a promettere di tutto, si dà ragione a chiunque chieda qualunque cosa, nella logica del massimo consenso o del massimo gradimento. Guardiamo a quello che sta accadendo in Italia in questi giorni: si dice di voler tagliare l’Iva e contemporaneamente di annuncia la riduzione delle tasse. Applausi dagli spalti, peccato che non sia possibile.
Ha letto il rapporto del Censis sulla silver economy che dice che i giovani in sostanza odiano i vecchi? Hanno ragione?
Da un pezzo conflitti di classe tradizionale hanno lasciato il posto ad altre forme di scontro: tra vecchi (garantiti) e giovani (senza certezze). Ma il divario generazionale non è solo economico: c’entra anche la tecnologia, e l’impatto che quest’ultima sta avendo sulla mentalità e sulle strutture cognitive.
Questo gap rischia di diventare presto esplosivo anche sul piano sociale, oltre ad avere un peso già nelle relazioni sociali e famigliari, nel segno di una crescente incomunicabilità ?
Certo, e il malessere della popolazione giovane ha a che fare col rivendicazionismo diffuso. Per essere i figli dei figli del boom economico, abituati dunque ad avere tutto o quasi, i giovani d’oggi nemmeno riescono ad immaginare quanto la storia dell’umanità sia stata segnata dalle privazioni, dalle rinunce, dai sacrifici e dalla fatica, in primis fisica). Anche questo non è moralismo conservatore, è solo la presa d’atto di un’accelerazione violenta della storia destinata, secondo me, a produrre lacerazioni e conflitti: tra persone e nelle persone.
Accade una cosa simile in campo economico come dice lei: ogni categoria ritiene di dover accedere agli aiuti prima degli altri, di avere più motivi per lagnarsi rispetto al vicino.
Sul piano economico-sociale stiamo scontando un brusco ritorno alla realtà , accresciuto dalla recente pandemia. Abituati a vivere nello Stato sociale o del benessere, capace di garantire servizi e trasferimenti di ricchezza su base universalistica, grazie alla ricchezza pubblica prodotta da un ciclo economico che per decenni è stato espansivo, nemmeno più pensiamo al fatto che questo modello sociale è stato, nella storia del mondo, non un punto d’arrivo ineluttabile, ma una felice eccezione, frutto a sua volta di una congiuntura storica eccezionale.
C’è stato un periodo in cui, magari agendo irresponsabilmente sulla leva del debito pubblico a scapito del prossimo, si poteva dare molti a quasi tutti.
Bastava chiedere e fare pressione, ma quella stagione è finita, anche in Europa. Si deve tornare a scegliere e selezionare: qualcuno inevitabilmente vedrà sacrificate o non pienamente accolte le proprie richieste. Ma la politica sembra non avere la forza di fare l’unica cosa che in realtà potrebbe salvare e ridarle legittimità .
Chi vince, i più ricchi?
Il mio timore è esattamente questo. Non essendoci più strutture sociali collettive — i partiti, i sindacati, gli apparati burocratici dello Stato — in grado di mediare tra gli interessi, per definizione divergenti, degli individui e dei gruppi, il rischio è che prevalga la logica del più forte.
Quanto manca prima che una qualunque società , dinnanzi al groviglio di pretese, si disgreghi?
Siamo avviati sulla buona strada. Lo spirito di rivolta che si è impossessato del mondo, e che è andato crescendo nel dopo-pandemia, mi sembra indicativo di quel che potrebbe accadere.
Chi riesce oggi ad assicurare solidarietà politica e coesione sociale nel rispetto delle diversità ?
Mancano istituzioni o figure in grado di operare la necessaria sintesi tra interessi, valori, istanze, aspettative che in tutte le società sono per definizione contraddittori e non sempre conciliabili. Questa riduzione ad uno delle differenze, sulla base di un equilibrio a sua volta dinamico e mai definitivo, dovrebbe essere il compito preminente della politica, se non fosse che quest’ultima non riesce più ad esercitare il suo ruolo di indirizzo e guida.
Intorno a cosa o a chi ci si può dunque oggi riunire come collettività , quali sono i fattori unificanti?
Deve esserci per forza un Noi grande e condiviso all’interno del quale i tanti Io e i piccoli Noi presenti in ogni società possano condividere. La Nazione, che per uno stupido pregiudizio ideologico ci si ostina ad assimilare al nazionalismo, è stata storicamente una di queste forme. Quando ci si appella demagogicamente al Popolo, come fanno i populisti, non si fa che richiamare, in forma strumentale, un’altra di queste figure, laddove il Popolo è per definizione un aggregatore di differenze reso unitario da una visione politica. Un altro di questi Noi è certamente l’Europa.
Mancano i leader?
Ci sono, ovviamente, ma hanno caratteristiche assai diverse da quelli del passato. Lasciamo perdere il carisma, ciò che realmente manca ai leader odierni è la capacità di visione politica: immaginare come sarà il mondo non domani o fra un secolo, ma tra dieci o vent’anni.
Siamo arrivati a tutto questo con il populismo dei 5 stelle?
Il Movimento è l’espressione perfetto di questo clima politico-sociale, largamente distruttivo, dominato dal risentimento, dalla convinzione di essere tutti vittime di qualcosa, di aver dunque diritto a un risarcimento, economico o simbolico, di poter pretendere anche alzando la voce. La responsabilità individuale si dissolve interamente nell’attribuzione di colpa verso i ‘cattivi’, che possono essere i poteri forti, i politici ladri, i banchieri, le multinazionali, l’Europa dei burocrati, ecc.
Alla fine saremo la Repubblica fondata non più sul lavoro ma sul reddito, parafrasando Beppe Grillo?
Dalla fine degli anni sessanta quello italiano è uno sviluppo senza innovazione, per dimostrarlo basta leggere “Il fantasma dei fatti” di Bruno Arpaia, che spiega come e quando il nostro Paese ha smesso di essere una potenza industriale per trasformarsi in una nazione di consumatori compulsivi. Oggi siamo diventati, come dice Luca Ricolfi, una società signorile di massa.
È la ragione per cui la fa sorridere il paragone che oggi si vorrebbe fare con l’Italia della ricostruzione post-guerra?
Quelli erano italiani affamati e in cerca di riscatto economico, abituati al sacrificio, sorretti da un’etica della famiglia che oggi semplicemente non esiste più, quelli di oggi sono italiani tanto viziati quanto impauriti da un futuro che speravano potesse essere sempre radioso e prospero.
(da “Huffingtonpost“)
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