INTERVISTA ALL’ARCHISTAR FUKSAS: “M5S FA DEL RISENTIMENTO UN SISTEMA”
“SILVIO? E’ FINITO. RENZI? O SI ODIA O SI AMA”
Da un momento all’altro, il terreno su cui è poggiato potrebbe franare: “La creatività è come l’orgasmo: va costruita. E non è mai per sempre. A volte appare, poi scompare: è una corrente che ti attraversa e ti abbandona. Un momento incerto, che va nutrito e atteso”.
Roma, palazzo rinascimentale del cinquecento, nei pressi di Campo de’ Fiori.
Sulla porta di vetro che ha dietro le spalle, il suo cognome — FUKSAS — è stampato in caratteri rossi. Il logo dell’archistar allude all’eternità commerciale, ma è una garanzia che il fondo pericolante della sua architettura non può assicurare: “In ogni momento della mia vita ho sentito il rischio dell’impotenza, la minaccia di ridurmi alla masturbazione, progettando sempre la stessa cosa. Disegno di continuo cose che non devo costruire. E così mi proteggo. È come se alimentassi una fiamma che all’improvviso avvampa, e, dentro, riesco a scorgere un’idea”.
Massimiliano Fuksas ha costruito le Twin Towers di Vienna, il Peace Center di Jaffa, la sede della Ferrari a Maranello, gli Europark di Salisburgo, la nuova Fiera di Milano, la torre di Armani a Tokyo.
Eppure, all’inizio degli anni ottanta, nessuno in Italia era disposto ad assegnargli un lavoro: “Partivo di notte in auto per arrivare al mattino in un cantiere della Marche. Avevo provato a lavorare a Roma, ma non ci ero riuscito. Così mi dissi: ‘Farò come Mao Tse Tung, prenderò la città dalla campagna’”.
Per tutti gli anni settanta, trovai dei sindaci irregolari — strani democristiani ribaldi, vecchi comunisti in conflitto con le federazioni — che mi fecero lavorare. Poi, i partiti accentrarono di nuovo ogni decisione e lo spazio che mi ero ricavato si richiuse di colpo. È grave non avere soldi. Ma, per un architetto, non avere un progetto è mostruoso.
Come ne uscì?
Un giorno, ricevetti la telefonata del direttore della rivista “Architecture d’Aujourd’Hui”. Aveva visto le fotografie — scattate da Franà§ois Berger — della palestra di Paliano. L’avevo costruita su un piano inclinato, seguendo il percorso della mia generazione, passata dalla rivolta del sessantotto, alla droga, alla violenza politica, ai morti ammazzati. Mi disse: “Se vengo domani a Roma, la trovo?”.
Cosa voleva?
Coinvolgermi. In Francia, avevano appena eletto Franà§ois Mitterand. Il neo presidente intendeva rianimare la grandeur francese attraverso il teatro, l’arte, la musica, la ricerca, le opere pubbliche. Il direttore mi chiese di partecipare a un esposizione. Con scetticismo, dissi di sì. Ma quando arrivò il momento, non presentai la domanda. Qualche mese dopo, ricevetti un’altra telefonata: “Lei è tra i vincitori del concorso, aspettiamo i suoi lavori al palazzo delle belle arti di Parigi”. Qualcuno nella commissione aveva fatto l’iscrizione al mio posto.
Le servì?
Cambiò la mia vita e la mia carriera. Dopo la mostra, a cui parteciparono quelli della mia generazione che oggi firmano i progetti più importanti del mondo, cominciai a lavorare in Francia. Fu la svolta.
Conobbe anche Mitterand?
Venne a inaugurare alcune delle mie opere. Un uomo colto, sottile. Incontrandolo, percepii l’importanza che ha lo studio e la conoscenza nella formazione di un vero uomo politico.
Lei come si formò?
A sedici anni, volevo fare il pittore. Riuscii ad andare a lavorare nella bottega di Giorgio De Chirico. Cercavo di imparare guardandolo. Quando dissi a mia madre che volevo seguire quella strada, mi rispose: “Sarai un fallito”. Mi scoraggiò così tanto che mi convinsi a studiare architettura.
Erano gli anni sessanta?
Sì, avevo letto gli scrittori e i poeti della beat generation tradotti da Fernanda Pivano. Viaggiavo in Europa in autostop. Ascoltavo la musica che arrivava dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. C’era nell’aria una vitalità che urtava con i limiti imposti dalla società . Eravamo obbligati ad andare a scuola in giacca e cravatta, le donne con le calze lunghe sopra il ginocchio. Io e altri sfidavamo le regole indossando un pullover. Il preside ci inseguiva lungo il corridoio per punirci. Anche da quell’attrito nacque il sessantotto.
Era a Valle Giulia quel giorno degli scontri con la polizia.
Per la prima volta, resistemmo alla violenza. L’Italia respirò. Si aprì. Tuttavia, il sessantotto non era l’inizio di qualcosa di nuovo: era la fine dell’Italia del benessere economico.
Falliste?
Lo scontro cambiò presto di segno, entrarono in scena gli operai, divenne duro. Molti di noi, invece, erano figli di sottosegretari socialdemocratici, ministri democristiani, repubblicani. (C’era anche il figlio di Bernabei, il direttore della Rai: lo chiamavamo il figlio della televisione). Non eravamo dei veri rivoluzionari. Volevamo solo che l’Italia assomigliasse quanto più possibile alla Svezia. È questo che era — ed è — rivoluzionario.
Cosa le è rimasto di quel tempo?
Ricordo che, per essere convincenti nelle assemblee, dovevamo essere in grado di passare da un registro all’altro della noia. Leggevamo Lenin, Bucharin, Althusser, ovviamente Marx. Benchè io — avrei scoperto più tardi — avrei dovuto definirmi più propriamente situazionista. Mescolavo Che Guevara e una strana letteratura inglese. E non mi sentivo a mio agio nei gruppi organizzati.
Quando se ne accorse?
Il sessantotto si concluse l’anno successivo, con le bombe di Piazza Fontana. La stagione che si aprì dopo, invece, terminò con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Ero nel mio studio, da poco laureato. Ascoltai la notizia alla radio. Capii che la nostra giovinezza era finita.
Qualcun altro ha tentato di cambiare l’Italia dopo di voi?
Le persone che hanno tentato di farlo, malamente, commettendo degli errori, sbagliando, sono state tre: Craxi, Berlusconi e Renzi. Non ce l’hanno fatta e sono stati martoriati.
Dei due vivi, è Berlusconi quello più in forma?
La sua forza è sopravvalutata. È un uomo ineleggibile. E, rispetto ai tempi d’oro, il consenso al suo partito è precipitato. Cos’altro può fare? Il mondo è cambiato completamente. Lui tenta di riprodurre se stesso. Ma è finito
E Renzi?
È del capricorno, come me. Può essere amato, oppure odiato. Perchè dice esattamente ciò che pensa. Magari è inopportuno. E solo fra molto tempo, forse, qualcuno gli riconoscerà che aveva qualche ragione.
Su cosa, per esempio?
Sul fatto che fuori dall’Italia tutto corre a una velocità vertiginosa. Noi, invece, perdiamo tempo ingannandoci con il mito della lentezza, facendo il minor sforzo possibile per connetterci al ritmo con cui viaggiano gli altri paesi.
A cosa si riferisce?
Sto tornando da Giacarta, una città di venti milioni di abitanti che è costruita lungo un’unica strada. Per andare e tornare da un appuntamento, sono stato in macchina sette ore. Guardavo dal finestrino il formicolio della vita, l’energia che possiede le persone. Si riversano per strada la mattina e la sera spariscono tutti dentro le case. È una città , ma sembra un polmone che inspira ed espira. Viva, veramente viva.
Cosa le ha fatto pensare?
Che il caos non è disordine, è solo un ordine che non riusciamo ancora a comprendere.
Come il mondo della globalizzazione?
Ma no, c’è un equivoco: la globalizzazione è sempre esistita. I romani costruivano lo stesso teatro a Sabrata, a Parigi, a Londra, a Bucarest. Uno dei più grandi scrittori latini, Apuleio, era nato a Madaura, oggi Algeria. Poi, si trasferì nel centro dell’Impero. Nessuno, in nessuna epoca, è mai riuscito a fermare la circolazione dei capitali, degli uomini, delle idee.
In quale tempo le sarebbe piaciuto vivere?
In quello che verrà . Non si può vivere nel passato, benchè faccia molto intellettuale italiano dire che noi siamo ciò che ci ha preceduto, eccetera eccetera. Non è vero. L’uomo vive quando immagina il futuro. Quando scopre il mondo. Quando lascia ciò che lo rassicura e va incontro all’ignoto.
Perchè lei è nato a Roma e a Roma è tornato?
Mio padre era figlio di un ebreo lituano fuggito in Germania per andare all’università . Nell’impero russo, gli ebrei non ne avevano diritto. Come lui, mio padre lasciò la Germania e venne a studiare medicina a Roma. Stava per andare negli Stati Uniti quando incontrò mia madre.
Cosa faceva lei?
Studiava filosofia, poi sarebbe diventata professoressa. Al tempo in cui mio padre morì, guadagnava ventiquattro mila lire al mese. Tirammo avanti come potemmo. Non eravamo benestanti. Però, non provavamo rancore o rabbia. Roma profumava di rose, avevamo dei laghi limpidissimi a pochi chilometri dalla città . Ci sentivamo grati, in qualche modo allegri, credevamo nel riscatto.
Oggi, invece?
Il movimento 5 stelle vuole fare del risentimento un sistema. Non importa se il livore è motivato, se è legittimo: la politica dovrebbe offrirgli una cura, non coltivarlo.
Come?
Una volta, l’emancipazione passava per il sapere. Un mio amico delle elementari era figlio di un custode e di una donna che faceva le pulizie. Era il più povero dell’istituto. Oggi è un professore di italianissima a Berlino.
Allora la promozione sociale funzionava.
Sì, ma la si cercava. Oggi, senza aver studiato, senza aver mai fatto politica, senza aver mai lavorato, puoi diventare vice presidente della camera. Io tremerei dall’ansia di avere sessanta milioni di persone che dipendono dalle leggi che scrivo. Loro si improvvisano serenamente governanti. Non sopporto più l’incompetenza nella politica.
Non mi ha ancora detto perchè è tornato a Roma.
Vivevo a Parigi da dieci anni, quando dissi a mia moglie Doriana: “Riportami a Roma”. Senza crederci, partecipammo al concorso per il nuovo centro congressi dell’Eur. Si credeva l’avrebbe vinto Rogers. Invece, fu scelto il nostro progetto (dico nostro perchè Fuksas non sono io, siamo io e Doriana). E così nacque la Nuvola.
Quante polemiche ha suscitato…
Certe mattine, quando m’incontrava nel tragitto per venire a lavorare, uno simpatico operatore dell’Ama mi chiedeva: “Archite’, ma ‘sta nuvola quanno ‘a finimo?”.
Come rispondeva?
Se dipendesse da me.
E da chi dipendeva?
Da un dettaglio: si erano dimenticati di finanziare il progetto. Se oggi, quell’opera è conclusa, mi creda, è un miracolo.
Voterà ?
Fino a poco tempo fa, avevo qualche dubbio. Ora non più.
Le hanno fatto cambiare idea le promesse che ha ascoltato?
No, quando intuisco che stanno per assicurare qualcosa, abbasso il volume della televisione.
Anche quando lo fa la sinistra?
Con il nuovo anno, ho scoperto che le tasse societarie si sono abbassate. Ci era riuscito già Prodi, ma sia lui, sia Renzi, sia Gentiloni, si sono dimenticati di farlo sapere agli italiani.
Da soli, non sanno giudicare?
Noi italiani siamo dei bambini che giocano a farsi del male, spesso conservatori, arroccati, paurosi anche solo di guardare oltre l’uscio. Abbiamo detto di no alla riforma di Renzi per tornare indietro di trent’anni. Addirittura, alla legge proporzionale. Credo sia arrivata l’ora di diventare adulti.
(da “Huffingtonpost”)
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