JANNACCI E LE STORIE DI MILANO VISTE DAL BASSO: LA VINCENZINA DAVANTI ALLA FABBRICA AD ASPETTARE IL MARITO E QUELL’UOMO CHE SI VERGOGNA DI CHIEDERE UN PRESTITO ALL’AMICO
TESTIMONE INDIMENTICABILE DI UNA CITTA’ DOVE C’E’ “SOFFERENZA, POESIA E MALINCONIA”
] Enzo Jannacci la sua Milano la guardava dall’alto, da casa, in un palazzo al sesto piano di Città studi, dal quale si scorgeva il profilo del Pirellone.
Ma l’ha sempre vissuta e raccontata dal basso, nelle strade dove i personaggi delle sue canzoni si muovevano cercando il futuro, o semplicemente la sopravvivenza.
Donne e uomini semplici, come la Vincenzina, che negli anni sessanta era “davanti la fabbrica” ad aspettare suo marito e che invece adesso, in un’intervista al Corriere del 2004, il cantautore e poeta milanese di origini pugliesi, si augurava fosse “la moglie di uno che almeno è riuscito ad avere la pensione”.
IL «BARBUN» ALL’IDROSCALO
Come il vagabondo che pregava un “sciur” per salire sulla macchina bella “per andare all’Idroscalo”, ma a lui, al “barbun”, importava soprattutto fare un giro sulla macchina.
O come l’uomo che per pagare una cambiale, in “E l’era tardi”, va a disturbare un ex commilitone, ma poi gli manca il coraggio di turbare la serenità familiare dell’amico.
Una Milano che vive aggrappata agli affetti profondi, all’amore all’amicizia, a valori antichi che si devono confrontare con le trasformazioni di una città che diventa metropoli.
Milano che non è più quella del Derby o del Santa Tecla, i locali storici dei cantautori e del cabaret.
Ma che a suo modo, è una città eterna: “Dove c’è sofferenza e malinconia, c’è il momento poetico.
«MA COM’E’ CHE MUOIONO TUTTI?» –
E a Milano ci sarà sempre”, raccontava qualche anno fa, sempre al Corriere, Jannacci, che ha regalato a tutti tante memorie nel bellissimo libro “Aspettando al semaforo”, scritto con il figlio Paolo.
E che ha lasciato a chi scrive un ricordo incancellabile: quando in quella sua casa di Città studi, nel 2004, parlando dei suoi cari amici Beppe Viola e Giorgio Gaber, che non c’erano più, guardando fuori dalla finestra con occhi smarriti, si è domandato tra sè e sè: “Ma com’è che muoiono tutti?”.
Matteo Speroni
(da “il Corriere della Sera”)
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