LA DUCETTA UBRIACA DI SE’: AD ATREJU PASSA DAGLI OTOLITI AGLI OTTO LITRI, PIENA DI RABBIA PERCHÉ LE COSE NON GIRANO NEL VERSO GIUSTO
NON È LA PREMIER DI TUTTI GLI ITALIANI A SALIRE SUL PALCO. È UNA ZELIG CHE HA INDOSSATO LA SUA ULTIMA MASCHERA, QUELLA DEL TRUMPISMO IMPERANTE, DEGLI INSULTI AGLI AVVERSARI POLITICI E ALLA STAMPA, AGLI IMPRENDITORI CHE SI PENSA NON SIANO ALLINEATI… NEL VILLAGGIO DELLE MERAVIGLIE È TUTTO UN GLORIA A GIORGIA CHE RAGGIUNGE DELLE VETTE NORDCOREANE. TUTTI SROTOLANO LA LINGUA
«Esistiamo per smentirvi e stupirvi», dice Giorgia Meloni all’odiata sinistra, ai «gufi», a chi prova ad anteporre i fatti al racconto di un’Italia che corre, che sarebbe finalmente «tornata protagonista in Europa e nel mondo».
Effettivamente stupire, ha stupito. Soprattutto quelli che pensavano si fosse convertita al popolarismo europeo, si fosse moderata, istituzionalizzata. Macchè. Io sono Giorgia e resto Giorgia. Ma nei trecento metri che separano in linea d’aria la vecchia Atreju d’opposizione, abbarbicata a Colle Oppio, dalla nuova Atreju ministeriale, nello spazio immenso del Circo Massimo, si misura tutta la distanza tra ieri e oggi.
E non è solo questione di dimensioni, «l’Atreju di ieri sta a quella di oggi come Meloni sta a Crosetto», scherza la premier. La scanzonata e fascia gioventù che, con ironia, 20 anni fa prendeva in giro se stessa e persino i permalosi leader del centrodestra, quella che applaudiva sportivamente la sinistra sul palco, semplicemente non esiste più.
Ha lasciato il posto a questi giovani invecchiati male, che si sono presi l’Italia ma sono pieni di rabbia perché le cose non girano nel verso giusto – «i centri in Albania funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo» -, con un livore che si scarica persino su un signore di 85 anni come Prodi, due volte presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea.
Ecco la nuova Meloni, dopo soli due anni a palazzo Chigi. Con insulti alla leader d’opposizione, dichiaratamente omosessuale, che «fa la battaglia partigiana sui carri allegorici del gay pride». Attacchi al principale sindacato italiano, sul calco dell’argentino Milei, che li vuole sradicare con la motosega. Messaggi minacciosi ai magistrati che si permettono di far rispettare la legge contro la detenzione dei migranti in Albania, «senza pensare alle conseguenze di quelle decisioni totalmente irragionevoli».
Non è la presidente del Consiglio a salire sul palco, non è la premier di tutti gli italiani. È una zelig che ha indossato la sua ultima maschera, quella del trumpismo imperante, degli insulti agli avversari politici e alla stampa, agli imprenditori che si pensa non siano allineati. Una svolta che la rende spregiudicata.
Saluta e manda «un abbraccio affettuoso alla piccola Yasmine, rimasta tenacemente in acqua, unica sopravvissuta al naufragio» del suo barchino. Ma si dimentica che Yasmine è stata salvata per miracolo da una nave di una Ong, uno di quei vascelli che il governo costringe a peripli assurdi della penisola italiana pur di tenerli lontani dall’area di soccorso. È la cattiveria di Trump che vuole andare a caccia di immigrati illegali «casa per casa».
Non conta il merito, i fatti non contano, non contano i risultati. Se la produzione industriale è ferma e il Pil arranca, non merita commento. Meglio rivendicare che «l’Italia per la prima volta nella storia è diventata la quarta nazione esportatrice al mondo».
Nel villaggio delle meraviglie è tutto un Magnificat, un gloria a Giorgia. Il culto della personalità c’era anche prima. Adesso però ha raggiunto delle vette nordcoreane, facendo sbiadire il ricordo delle adunate berlusconiane. Tutti srotolano la lingua, ogni intervento inizia con un grazie Giorgia.
Giorgia che «profuma di popolo», come dice Paolo Del Debbio. «Eccola, eccola è arrivata…Giorgia! Un’emozione…», sospira dal palco il capogruppo Lucio Malan, che nemmeno quando era in Forza Italia: «Dio benedica l’Italia e Giorgia Meloni!». L’effetto è di una comicità involontaria, ma non se ne rendono conto.
(da agenzie)
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