LA FUGA DALLA LEGA
NON SI FERMA L’ADDIO DI CONSIGLIERI COMUNALI VERSO FORZA ITALIA E FDI… ORA SALVINI TENTA LA CARTA DELL’AUTONOMIA PER SALVARSI, L’ENNESIMA GIRAVOLTA
Il quarantennale della fondazione della Lega, semi-dimenticato fino a qualche giorno fa, all’improvviso è stato recuperato dal cesto dei ricordi ingombranti, lucidato, messo in mostra.
Il 12 aprile il partito lo festeggerà un po’ ovunque ma soprattutto a Varese, davanti alla storica sede di piazza del Podestà, e all’ultimo momento Salvini ha dato (ha dovuto dare) la sua adesione: andrà. Al tavolo della risottata organizzata dai militanti potrebbe esserci anche Umberto Bossi, il patròn da anni esiliato dai palchi ufficiali del Carroccio.
L’eventuale foto al suo fianco segnerà per il Capitano un’inedita esperienza: il passaggio sotto le forche caudine del leghismo delle origini che credeva di aver stroncato in via definitiva, quello dei Borghezio e degli Speroni, della libera Padania più europeista che nazionalista, così ostile alla retorica del sovranismo tricolore da tifare contro la Nazionale pure ai Mondiali di calcio.
La nostalgia dei bei tempi è la trappola in cui Matteo Salvini è costretto a cadere anche se non ci crede, anche se non corrisponde alla sua natura e soprattutto all’evoluzione delle cose.
La vecchia Lega che fa sospirare i nemici interni – “dobbiamo tornare lì, alle radici” – era un adolescente disinteressato al potere nazionale, affezionato solo ai suoi territori, indifferente alle destre e alle sinistre e capace di far cadere il primo governo di Silvio Berlusconi dopo un’intesa con Massimo D’Alema per sostenere un esecutivo tecnico guidato da Lamberto Dini. Quell’antico ragazzino scapestrato non aveva problemi di alleabilità. Era il partito del Settentrione sviluppato. Stava con chi gli conveniva. Con il Cavaliere, prevalentemente, ma anche no. Con Roma Ladrona mai, al punto che nel 2010 sfiorò la crisi per difendere il Gran Premio di Monza che qualcuno voleva spostare nella Capitale.
È evidente che quel tipo di passato non può essere ricostruito. Ma la nostalgia dei bei tempi è un dato di fatto che Salvini è obbligato a prendere in considerazione.
Non è solo il chiodo fisso della base leghista in Veneto, Lombardia, Piemonte, ma anche la giustificazione prevalente della transumanza di massa avviata dai quadri intermedi, preoccupati per il loro avvenire. Quaranta addii in tre mesi solo al Nord, hanno calcolato, tutti o quasi verso Forza Italia. Altri venti tra europarlamentari, consiglieri regionali e municipali scappati via nell’ultimo trimestre del 2023, nella consapevolezza che il declino dei sondaggi rendeva i loro posti a rischio senza offrire alternative convincenti.
Persino sotto la bandiera di San Marco i cambi di casacca risultano ormai uno stillicidio: la campagna di proselitismo di Flavio Tosi, l’ex-sindaco di Verona passato a FI, segnala con cadenza settimanale nuove adesioni strappate al Carroccio. Leghisti della prim’ora, assessori comunali, consiglieri, cercano nuove prospettive al Centro (e l’addio, quasi sempre, è motivato con la delusione per lo smarrimento dell’identità originaria).
L’apertura della campagna elettorale per le Europee a Torino, alla presenza dei governatori del Nord, ha visto Salvini impegnato a blandire questa nostalgia, vera o alibistica che sia. Lo ha fatto con il grande classico dell’Autonomia differenziata e del ritorno all’elezione diretta delle Province ma anche con la più recente suggestione della “pace edilizia”, il piano casa che non si deve chiamare condono e che però sanerà gli impicci del popolo delle villette e dei capannoni. Battaglie pragmatiche, questioni di danè, di sghei, di posti di potere nei consigli, da portare in vetrina al posto delle fumose rivendicazioni sovraniste. Persino il corpo a corpo contro gli immigrati sembra dimenticato. Non è più né una bandiera né una priorità. Paga poco, non tanto perché la vittoria governativa sul barbaro invasore non si vede, ma perché al Nord gli stranieri servono come il pane, in fabbrica, nell’edilizia, ovunque, al punto che l’assessore lombardo Guido Bertolaso vola da Milano in Paraguay per arruolare medici e infermieri.
E tuttavia anche l’inchino alla storia risulterà poca cosa se Salvini non riuscirà a smentire la sensazione che la sua Lega sia ruota di scorta di una destra che la sottostima e non la rispetta.
L’esodo dei quadri, oltre il velo del rimpianto per i bei tempi, è soprattutto una questione di potere. Nessuno si sognava di dire addio al Capitano di cinque anni fa, piazzato al 34 per cento, anzi la corsa era in direzione opposta: da FI e FdI verso il Carroccio in massa, di gran carriera, senza contestazioni per “fasci e svastiche” degli alleati europei – come hanno scritto di recente i dissidenti interni – e anzi esaltati dalla prospettiva di una Lega proiettata verso la maggioranza relativa e il ribaltone continentale.
Questo tipo di sentimento mica lo riattivi con i ricordi: servono posti e voti. Serve la dimostrazione di contare qualcosa nel governo. Serve una vittoria di palazzo che cancelli il timore dell’irrilevanza. Insomma, serve l’ultimo sì della Camera all’Autonomia differenziata, subito, prima delle elezioni Europee, in modo da poterla sventolare in tempo utile davanti al popolo del Nord che chiede una prova di efficacia. Anche per questo la nostalgia dei bei tempi a cui Salvini ha ceduto rischia di trasformarsi in una trappola: senza quel sì – promesso dagli alleati per fine aprile, ma vai a vedere come finirà – cosa racconterà ai molti, nostalgici o non nostalgici, che si sono stufati di lui?
(da La Stampa)
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