LA GUARDIA COSTIERA LIBICA PRENDE DA 45.000 A 60.000 EURO A BARCONE LASCIATO PARTIRE: QUESTI SONO GLI AMICI DI SALVINI
LA LIBIA VUOLE MANO LIBERA E NESSUN TESTIMONE SCOMODO NEI CENTRI PER PROFUGHI… IL VICE PREMIER MAITEEQ E’ IL GARANTE DEI FINANZIAMENTI E DELLA IMPUNITA’ ALLE TRIBU’ CHE FANNO DA AGUZZINI… L’ITALIA FINANZIA UNA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE
Niente testimoni scomodi. O mani completamente libere o non se ne fa niente. Formalmente, è una questione di sovranità nazionale. Nella sostanza, in quei centri di accoglienza/identificazione, l’unico controllo deve essere libico.
Incrociando fonti diplomatiche a Roma e osservatori indipendenti a Tripoli, HuffPost può fornire una chiave d’interpretazione molto concreta alle parole del vice presidente libico Ahmed Maiteeq, pronunciate ieri nella conferenza stampa congiunta a Tripoli con il ministro dell’Interno e vice premier italiano, Matteo Salvini.
“Rifiutiamo categoricamente” la proposta circolata in ambito europeo di realizzare “campi di migranti in Libia: non è consentito dalla legge libica”, ha sostenuto Maiteeq.
Bocciata dunque l’ipotesi, evocata dall’Italia, di realizzare Centri di identificazione in Libia (e in Niger) finanziati con le risorse dell’Africa Fund europeo, ma gestiti dalle agenzie delle Nazioni Unite (Unhcr e Oim).
Maiteeq è uomo legato al sistema tribale ed è supportato dalle più potenti tribù libiche: un “Garante”, più che un vice premier; garante dei finanziamenti alle tribù che si sono reinventate “custodi” dei migranti; “garante” della loro impunità quanto a pratiche coercitive utilizzate nei 34 centri di detenzione gestiti dal ministero dell’Interno di Tripoli. E qui inizia la storia.
“Al confronto dei lager libici, i campi profughi della Turchia assomigliano a dei resort”.
Il tragico paradosso, formulato da una fonte ai vertici di una delle agenzie Onu impegnate in prima linea sul fronte dei rifugiati e/o migranti, dà conto di cosa significhi, in termini di diritti umani, affidare alle “autorità ” libiche la gestione dei soccorsi in mare e del contenimento della rotta mediterranea.
Non si tratta di piegare questo tema, che riguarda la vita e la morte di migliaia e migliaia di persone, a polemiche politiche interne o a mai saziati appetiti elettorali. Non è questo il problema, visto peraltro che l’affidarsi alla Guardia costiera libica, e alle milizie e tribù che controllano il territorio libico da dove partono le carrette del mare, nasce con il governo precedente a quello giallo-verde, quando al Viminale era insediato un esponente del Pd, Marco Minniti.
In continuità con il recente passato, anche il governo in carica ha deciso di puntare sull’esecutivo di Tripoli guidato da Fayez al-Serraj. Un governo che fatica a esercitare il controllo della stessa Capitale.
Controllano i porti da dove partono le “carrette del mare”. Hanno stretto un patto d’azione (milionario) con le tribù locali, funzionari corrotti dei “governi” in carica (Tobruk e Tripoli) e filiere jihadiste.
Quanto alle rotte dei barconi, direzione Italia, i punti di partenza sulla costa ad ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur.
Alle porte della capitale gli imbarchi avvengono a Tagiura e verso Misurata a Tarabuli.
Tutte zone sotto il controllo del governo non riconosciuto di Tripoli legato agli islamisti e alleato di fatto con Ansar al Sharia, che combatte nel Fezzan, ai confini sud della Libia, sventolando le bandiere nere del Califfato.
Almeno a Sabratha, uno dei punti di partenza verso Lampedusa, operano milizia legate ad Ansar al Sharia, la fazione jihadista più attiva e meglio armata tra le oltre 230 che spadroneggiano in Libia, e che nei mesi scorsi è entrata a far parte dell’Esercito islamico di al-Baghdadi.
I clan criminali che si occupano materialmente della tratta pagano il pizzo alle milizie che controllano il territorio.
A Zuara, lo snodo più importante, ogni viaggio genera un giro d’affari medio di 150mila euro. Il pizzo ai miliziani è di 18mila euro, poco più del 10 per cento.
Le coste fra Derna e Sirte, area di insediamento jihadista, offrono facile riparo a possibili barchini che, sul modello degli Al Shabaab somali potrebbero minacciare le rotte nel Mediterraneo Centrale trasformandosi in una fonte di auto-sostentamento per qualsiasi gruppo terroristico o clan criminale.
Nel Sahel libico i nomadi Tebu comandano il traffico dei migranti: raccolgono con questo commercio 60mila dollari alla settimana.
Fanno affari, stringono accordi con le tribù concorrenti come i Tuareg, si alleano con il governo di Tobruk — quello riconosciuto internazionalmente – e l’anno scorso hanno catturato nella loro rete 170mila paganti, come se facessero un servizio pubblico, alla luce del sole.
Sono i Tebu che riforniscono i barconi e hanno in mano i flussi migratori da Est, dal Corno d’Africa, che transitano per le piste che dal Sudan attraversano il deserto libico, superando l’oasi di Cufra alla volta di Agedabia, sulla costa della Cirenaica.
La rotta orientale è praticata da profughi sudanesi, somali, etiopi, eritrei e dai siriani in fuga dalla guerra. Il biglietto si acquista nei mercati di Khartoum, la capitale del Sudan.
Da lì si parte sui pick up che trasportano una media di trenta-quaranta persone. Il viaggio – salvo imprevisti – dura un paio di settimane durante le quali le loro vite sono in pugno ai soprusi di autisti, poliziotti, miliziani.
È in questo quadro di illegalità diffusa, che s’inserisce l’illegalità “legalizzata”.
A far rispettare questa “legge” dovrebbe pensare anche la Guardia costiera di Tripoli. La Guardia detta la sua di “legge”, definisce i suoi tariffari, intesse alleanze, gioca su più tavoli.
Vincendo le ragionevoli titubanze, i rischi di finire ammazzati sono altissimi, e con la garanzia dell’anonimato, c’è chi racconta ad HuffPost l’esistenza di un vero e proprio “tariffario”: per un gommone “lasciato salvare” vengono chiesti dai 45 ai 60mila euro. La merce umana viene cosi “prezzata” due volte: per imbarcarsi e per avere una chance in più di non finire in fondo al mare.
È un sistema dell’illegalità che si “legalizza” nel momento in cui a tirare le fila di questi (sporchi) affari milionari sono personale governativo, uomini in divisa, funzionari locali che arricchiscono i loro conti bancari all’estero, con la foraggiata complicità dei “colletti bianchi” che in qualche paradiso fiscale riciclano i proventi dei traffici.
Per mettere fine a questo sistema, il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, nemico giurato di Serraj, ha posto il suo di tariffario all’Europa: 20 miliardi di euro per trasformarsi, come e più del turco Erdogan, nel “Gendarme” del Mediterraneo.
E se non si accetta di pagare il pizzo alla Guardia Costiera di Tripoli, allora il mare diventa off limits e la sicurezza una chimera. Smantellare il sistema di collusione sedimentatosi in Libia attorno al traffico di migranti è una impresa sempre più difficile da realizzare.
Un abitante di Zawiya, uno dei punti di maggior traffico di migranti, ha riferito ad “Al Jazeera” che il capo dei miliziani “è pagato direttamente dal governo con il compito di monitorare le attività al porto. Dovrebbe lavorare con i funzionari della marina, ma invece è il boss del traffico di esseri umani. Non solo gestisce quello che accade al porto, ma controlla direttamente anche diversi centri di detenzione”.
L’agenzia Askanews riporta che una fonte del ministero dell’Interno libico, contattata da al Jazeera, ha confermato il racconto dell’abitante di Zawiya: “Le guardie costiere corrotte danno i migranti ai miliziani e i miliziani li tengono in centri di detenzione illegali. Qui iniziano a ricattare i migranti. Gli prendono i soldi, i telefoni, i documenti. Con i numeri che trovano sui telefoni, i trafficanti chiamano le famiglie per chiedere un riscatto per lasciarli andare. I miliziani li vendono anche ai caporali della zona che li usano come forza lavoro gratuita. Contrastarli è quasi impossibile, anche per la polizia”.
“Centinaia di migliaia di rifugiati e migranti intrappolati in Libia sono in balia delle autorità locali, delle milizie, dei gruppi armati e dei trafficanti spesso in combutta per ottenere vantaggi economici – ha dichiarato John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa – Decine di migliaia di persone sono imprigionate a tempo indeterminato in centri di detenzione sovraffollati e sottoposte a violenze ed abusi sistematici.
I governi europei non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono attivamente le autorità libiche nell’impedire le partenze e trattenere le persone in Libia.
Dunque, sono complici di tali crimini”, ha aggiunto.
L’organizzazione non governativa lancia poi un’accusa alla Guardia costiera libica i cui ufficiali “sono conosciuti per operare in collusione con le reti di trafficanti e per esercitato minacce e violenze sui rifugiati e sui migranti a bordo delle barche in difficoltà “.
Più volte HuffPost ha dato conto di denunce relative alla connivenza tra elementi della Guardia costiera libica e i trafficanti di esseri umani. In un rapporto del luglio 2017, Oxfam ha documentato che l’84% delle persone intervistate ha dichiarato di avere subito trattamenti inumani tra cui violenze brutali e tortura, il 74% ha dichiarato di aver assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio, l’80% di aver subito la privazione di acqua e cibo e il 70% di essere stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali.
“I migranti sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale” ha rimarcato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, basandosi sulle inchieste di Unsimil, la missione Onu a Tripoli, in un rapporto trasmesso al Consiglio di sicurezza nel quale vengono riportati anche i soprusi della Guardia costiera libica e le crudeltà dei funzionari incaricati del contrasto all’immigrazione illegale.
L’agenzia Onu per i migranti (Oim) ha censito 627mila stranieri in Libia, ma secondo Guterres le stime reali vanno da 700mila al milione.
Nelle 17 pagine del dossier vengono raccontale le rilevazioni dell’Unsmil, che “ha visitato quattro centri di detenzione supervisionati dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale e ha osservato un grave sovraffollamento e condizioni igieniche spaventose”.
I prigionieri “erano malnutriti e avevano limitato o nessun accesso alle cure mediche. La missione internazionale ha continuato a documentare “la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e/o intercettazioni in mare”, scrive Guterres che cita quanto avvenuto il 6 novembre 2017, quando “i membri della Guardia costiera hanno picchiato i migranti con una corda e hanno puntato le armi da fuoco nella loro direzione durante un’operazione in mare”. Sia nei centri governativi sia nei lager clandestini si verificherebbero, come segnalato nel documento consegnato al Consiglio di sicurezza il 12 febbraio, “rapimenti per estorsione, lavori forzati e uccisioni illegali”.
Così si spiegano le parole del vice premier libico.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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