LA LEGGE DEL MERCATO IN NOI
UN GRANDE FILM DI DENUNCIA SUL MERCATO DEL LAVORO CHE TOGLIE DIGNITA’
Ci sono due passaggi che restano e devono restare nella memoria, guardando il doloroso e splendido film “La legge del mercato“, uscito venerdì: la storia di un operaio specializzato che, rimasto senza lavoro, dopo molte tribolazioni diventa una guardia privata in un centro commerciale.
Il primo passaggio è il momento in cui Thierry, il protagonista, decide di rinunciare alla lotta collettiva dopo il licenziamento.
L’azienda in cui lavorava non era in perdita, anzi faceva profitti; tuttavia lui e molti altri sono stati mandati a casa per “motivazioni economiche”.
Un collega cerca quindi di organizzare un’opposizione comune, vuoi sindacale vuoi legale. Ma Thierry si chiama fuori: è stanco, provato, sfiduciato sulle possibilità di successo contro chi l’ha fatto fuori.
Il suo tentativo di riscatto (o almeno di sopravvivenza) sarà quindi individuale: attraverso gli strumenti che lo stato sociale francese ancora riconosce — come il sussidio di disoccupazione la riqualificazione — e naturalmente attraverso i curriculum spediti in giro, i mille colloqui di persona e via Skype.
Il film ci racconterà il prezzo pesantissimo di questa scelta, senza per questo riabilitare l’opzione scartata all’inizio, quella collettiva.
In altre parole, Thierry perde comunque. E la legge del mercato vince comunque. Non c’è scampo, nè collettivo nè individuale. A meno che, s’intende, non si accetti di diventare un kapò.
Il kapò, lo sapete, era il prigioniero del campo di concentramento che doveva controllare gli altri deportati.
Quindi era quasi sempre un ebreo, che quindi contribuiva alla schiavizzazione e soppressione di altri ebrei.
E questo diventa Thierry, nel lavoro di individuazione e denuncia di anziani poveracci che rubano una bistecca per fame o di dipendenti che si intascano di nascosto qualche punto delle fidelity card.
Non credo sia un caso che il regista e sceneggiatore Stephan Brizè abbia ambientato questa alienazione in un supermercato. E non è solo per i furti. È anche perchè nell’economia contemporanea la grande distribuzione è uno dei luoghi in cui le dinamiche del lavoro si trasformano più facilmente in meccanismi di torsione.
Simili a quelli delle persone tenute in stato di costrizione fisica.
Una dozzina di anni fa fu pubblicato un interessantissimo saggio sociologico, proprio su questo, che è ancora attualissimo. Non se se Brizè l’ha letto, ma è come se fosse così.
A proposito, qui si arriva al secondo passaggio cruciale del film. Quando il direttore del supermercato e il suo capo del personale riuniscono i dipendenti dopo il suicidio di una cassiera licenziata perchè scoperta a rubacchiare dei buoni sconto. Tutto ciò che dicono i due dirigenti in quell’occasione è infatti una straordinaria confessione alla rovescia. Dicono che nessuno lì dentro si deve sentire responsabile: mentre tutti lo sono, per azione o per complicità . Dicono non c’è relazione tra il suicidio della donna e la fine del suo rapporto di lavoro dato che lei aveva altri “problemi suoi”: invece il salario era l’unico modo in cui quella riusciva ancora ad accettare e affrontare gli altri “problemi suoi”.
Dicono infine che il lavoro non è e non deve essere tutta la vita perchè ci sono tante altre cose interessanti fuori da fare: e sembra quasi un discorso bello invece è l’acme dell’ipocrisia, di fronte a donne e uomini che se perdessero il lavoro sarebbe annullati come esseri umani, quindi da quel posto di lavoro sono dipendenti come i pesci dalla loro acqua — e senza muoiono.
È un grande film di denuncia, “La legge del mercato”.
Ho visto in giro che qualcuno lo ha paragonato alle pellicole di Ken Loach. A me in verità sembra più contemporaneo (nella descrizione dei meccanismi del neoliberismo) ma soprattutto più pessimista su qualsiasi possibilità di emancipazione economica; e, se si vuole far sopravvivere la propria famiglia, anche etica.
La peggiore legge del mercato è quella che è entrata dentro di noi.
(da “gilioli.blogautore”)
Leave a Reply