LA SERRATA FARSA, I SINDACATI MINACCIANO LO SCIOPERO GENERALE
ALLA FINE SPUNTANO DECINE DI DEROGHE IMMOTIVATE SU PRESSIONE DEGLI INDUSTRIALI… ALMENO 3,5 MILIONI DI ITALIANI CONTINUERANNO A LAVORARE, ESENTATE DALLA CHIUSURA IL 35% DELLE AZIENDE
La coda velenosa del grande annuncio di Giuseppe Conte sulla serrata totale è tutta nell’allegato del decreto. Firmato 24 ore dopo.
Basta leggerlo, confrontarlo con quello diffuso ventiquattro ore prima. La lista delle fabbriche che non si fermeranno si è allungata. Ci sono ampie zone grigie che generano confusione, che non mettono un cittadino nelle condizioni, alle otto di sera, di capire se qualche ora dopo dovrà recarsi al lavoro oppure no.
Dice, l’allegato, che la serrata ha il tratto della sua gestazione: in affanno, una rincorsa invece che una preparazione attenta. Un tira e molla con gli imprenditorisu cosa è essenziale e cosa no, tra l’altro finito male e con il rischio di aprire una frattura sociale nel Paese nel bel mezzo di una pandemia.
La lista delle attività industriali e commerciali che potranno restare aperte, si diceva, è lievitata. Sono ottanta in tutto.
Le entrate last minute sono quelle degli studi dei professionisti: ingegneri e architetti, ma anche avvocati e commercialisti. Tutti al lavoro.
Le colf continueranno a recarsi nelle case dove prestano servizio e così farà anche il portiere del condominio.
Andranno avanti le attività per l’estrazione di petrolio e di gas naturale e anche tutte le attività dei servizi di supporto all’estrazione. E poi la fabbricazione di imballaggi in legno, quella di macchine per l’industria della plastica.
Il decreto arriva anche ad allargare le maglie per la riparazione, la manutenzione e l’installazione di tutte le macchine e le apparecchiature, che prima erano ammesse solo per alcune categorie.
Resterà aperto anche chi ripara gli elettrodomestici per la casa, pc e cellulari.
Poi c’è la voce 42: ingegneria civile. Un comparto così largo – dalla costruzione dei ponti all’impalcatura del palazzo di casa – che dà il senso di come la serrata si sia slabbrata. Tutto, tra l’altro, dal 25 marzo, e non più da lunedì, come annunciato ventiquattro ore prima.
Tutte queste voci travalicano il senso del servizio essenziale, della fabbrica che deve restare aperta perchè altrimenti non arrivano cibo e medicine piuttosto che condurre allo stop dei trasporti. Premono su un allegato che è un coacervo di schegge impazzite. Doveva essere il contrario, e cioè una Bibbia, perchè in campo c’è la più grande restrizione delle libertà economiche nella storia della Repubblica.
Il decreto era chiamato ad assolvere un obiettivo preciso e cioè mettere in sicurezza i lavoratori a rischio di contagio nelle fabbriche, girando la chiave del Paese con più vigore rispetto a quanto fatto fino ad ora. Lo fa con il tratto del pasticcio che genera incertezza e irritazione.
Lo si capisce dalla reazione di Cgil, Cisl e Uil che tuonano contro il governo poco prima della firma del premier, quando arrivano alla consapevolezza che il quadro è cambiato. Alle nove di sera, quando il testo è finalmente definitivo, Annamaria Furlan, la numero uno della Cisl, apre l’allegato dal telefonino e sbotta: “Non va bene, è inaccettabile, non è quello che ci era stato comunicato”.
I sindacati leggono il decreto e confermano la linea, chiedono di modificare l’allegato. Una nota congiunta blinda il tutto: “Riteniamo inadeguato il contenuto del decreto e inaccettabile il metodo a cui si è giunti alla sua definizione”.
C’è l’invito diretto ai lavoratori a scioperare nelle aziende dei settori non essenziali. Sono mosse che tentano di riaprire un processo decisionale. E che allo stesso tempo provano a determinarlo. Uno sciopero è un atto durissimo, ostile, pesantissimo da sopportare per un governo che già fatica a gestire l’emergenza sanitaria provocata dal coronavirus.
Che il processo decisionale dell’esecutivo sia stato pasticciato e confuso lo dicono le 24 ore che sono intercorse tra l’annuncio e la firma del provvedimento.
Confindustria ha guidato fin dal mattino il fronte della necessità di riaprire e allargare quella lista che da palazzo Chigi era stata messa lì qualche ora prima per fare da pezza al grande errore dell’annuncio senza testo.
Con un atto formale, Vincenzo Boccia, il numero uno degli industriali, ha preso carta e penna e ha scritto a Conte. Un passaggio su tutti: “Bisogna consentire la prosecuzione di attività non espressamente incluse nella lista e che siano però funzionali alla con tenuità di quelle ritenute essenziali”. È il passaggio che ha premuto sull’esecutivo per riaprire i giochi, supportato dalla grande motivazione che le filiere vanno tenute attive e per farlo serve che tutte le aziende coinvolte restino aperte.
I contatti con palazzo Chigi si sono fatti frequenti durante tutta la giornata. Furlan si è sentita al telefono con Maurizio Landini e Carmelo Barbagallo. Dai contatti con il ministero dello Sviluppo economico e con quello del Lavoro, i tre leader sindacali hanno capito che la lista stava cambiando.
Il fuoco incrociato delle parti sociali si è alzato così su un premier già provato dalla necessità di chiudere in fretta perchè più le ore passavano e più divampavano le polemiche sull’assenza di un testo. Senza considerare quelle sull’annuncio fatto via Facebook. Alla fine il pressing degli industriali l’ha spuntata.
Lo strascico pesante esplode quando il testo vede la luce. Qualcuno, tra gli addetti ai lavori, ha fatto già i conti. I lavoratori ancora impegnati potrebbero essere 3,5 milioni, tra il 25% e il 40% della forza lavoro del Paese. Una serrata, ma non troppo.
(da agenzie)
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