LI ASPETTAVANO CON IL RISCATTO: ECCO COME È SALTATO
ERA TUTTO PRONTO PER LO SCAMBIO DEGLI ITALIANI IN LIBIA, MA GLI EVENTI SONO PRECIPITATI
Quarantotto ore. Questa la finestra che faticosamente la nostra intelligence (con l’apporto della diplomazia e della rete di contatti dell’Eni) era riuscita ad aprire per riportare a casa i quattro ostaggi italiani dopo sette mesi di prigionia nelle mani di una banda di criminali specializzata in traffico d’armi, droga ed esseri umani.
Quarantotto ore ritagliate tra il primo e il 2 marzo, dopo avere contribuito ad allentare su Sabrata la pressione dei jihadisti (termine improprio, perchè nella Libia di oggi jiahdisti si diventa e si smette di essere a seconda delle convenienze di denaro, potere politico e territorio da controllare), soprattutto dopo avere allertato le autorità locali e dopo avere predisposto il necessario per la consegna sul campo degli ostaggi in cambio di un riscatto da depositare in un Paese terzo.
Tutto questo non è bastato a evitare che una serie di concause trasformasse il piano perfetto in una tragedia, proprio quando gli uomini dell’intelligence erano in attesa dei tecnici della Bonatti in due punti prestabiliti e diversi.
Qualcosa che drammaticamente riporta alla mente un epilogo analogo, quello che il 4 marzo di undici anni fa costò la vita a Nicola Calipari lungo l’autostrada per l’aeroporto di Bagdad, dopo la liberazione della giornalista del “Manifesto” Giuliana Sgrena.
Concause, dunque. Difficilmente prevedibili in quell’area dove si combatte a terra e si bombarda dal cielo, dove le milizie locali contendono ogni giorno pezzi di città e territorio a gruppi armati che si autoproclamano affiliati all’Isis ma dove tutto spesso è il frutto di faide che si consumano all’interno di una stessa famiglia, di una stessa tribù, che magari con una mano governa e con l’altra consuma affari sporchi profittando del caos del paese e di una pacificazione che neanche un pezzo di carta sottoscritto dalle parti in causa sembra garantire.
Il prologo, l’ultima fase della trattativa che doveva portare alla liberazione di Salvatore Failla, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Gino Pollicardo comincia alla fine di gennaio.
Dal 19 luglio 2015, giorno del loro sequestro, fino quasi allo scorso Natale si sapeva soltanto che erano stati portati via nella notte da una banda di uomini armati subito dopo avere attraversato il confine tra Tunisia e Libia, sulla strada verso l’impianto petrolifero di Mellitah.
Forti sospetti concreti sulla complicità dell’autista, lasciato incolume sul posto dai rapitori, e null’altro.
Che si trattasse di criminali comuni e non di jihadisti era apparso abbastanza chiaro dall’inizio.
Ma dove fosse la prigione in cui i quattro italiani erano stati condotti è rimasto un mistero fino appunto a gennaio. Quando ai primi contatti triangolati da mediatori libici, è seguita la consegna di una serie di foto degli ostaggi.
La “prova in vita” che l’intelligence attendeva per avviare la trattativa.
Poi, poco alla volta, si è riusciti anche a circoscrivere la zona in cui si trovava la prigione, cioè la città di Sabrata e i suoi dintorni.
Ed è stato questo, più che la definizione del riscatto, il nodo da affrontare e cercare di risolvere: come far uscire indenni gli ostaggi da un’area ad intensa conflittualità , sotto il controllo di più tribù in lotta fra loro, e con la presenza di campi di terroristi locali e foreign fighters tunisini, tra cui gli americani puntavano una delle menti dell’attentato al museo del Bardo (Noureddine Chouchane), che hanno poi cercato di eliminare con il pesante bombardamento del 19 febbraio scorso che ha causato 49 morti.
È questo bombardamento a ritardare l’operazione di rilascio dei quattro ostaggi e a provocare una vendetta mordi e fuggi di un gruppo jihadista all’interno della città di Sabrata, che lascia una scia di undici vittime e alza il livello della tensione nell’area. Intanto la trattativa con la banda di criminali è al penultimo passaggio, la cifra del riscatto concordata, e in una settimana frenetica di contatti con quasi tutte le forze sul campo gli uomini dell’intelligence e i mediatori libici riescono a costruire una nuova finestra possibile per la fase finale del piano di liberazione.
Il giorno stabilito per lo scambio è martedì 1 marzo.
Secondo le fonti interpellate dall’Huffington Post, l’operazione prevede che gli ostaggi siano condotti lontano dalla città e consegnati agli uomini dei servizi che sono arrivati sul posto.
Forse in punti diversi (da qui la separazione di Failla e Piano da Calcagno e Pollicardo), per poi essere ricongiunti e trasferiti su un aereo che li preleverà nell’aeroporto di Mittiga.
Ma qualcosa va storto. Sul piano degli accordi tra i criminali e chi li controlla o protegge (che vorrebbe alzare il prezzo del riscatto) e su quello logistico, che i banditi non sono in grado di gestire. E l’operazione abortisce.
Mercoledì 2 marzo, ultimo giorno della finestra possibile per garantire il via libera ai banditi che devono trasferire gli ostaggi, c’è il secondo tentativo.
Un convoglio con Failla, Piano e altre cinque persone tra cui una donna e un bimbo, lascia la prigione e imbocca la strada che da Sabrata porta verso l’interno del Paese. Sulla carta, dovrebbero essere tutti avvertiti. Anche la milizia.
Invece, secondo la versione del governo di Sabrata, ad una trentina di chilometri dalla città , i pick up vengono scambiati per un convoglio di jihadisti.
E i miliziani di un check point aprono il fuoco a raffica senza dare l’alt.
Una dinamica che sembra la fotocopia di quella che causò la morte di Nicola Calipari a Bagdad. Alcuni degli occupanti dei pick up rimangono uccisi.
Altri (forse tra questi Failla e Piano, che erano stati fatti sdraiare sul pianale) sono gravemente feriti. I miliziani cercano di tamponare il sangue con degli assorbenti da donna. Ma è tutto inutile.
Immediatamente viene dato l’allarme. E i nostri agenti bloccano il pagamento del riscatto (che avrebbe dovuto avere luogo contestualmente alla consegna degli ostaggi). Poi è il caos, con un rimpallo di responsabilità locali.
Mentre la notizia del fallimento dell’operazione raggiunge i criminali rimasti a guardia della prigione che, vistisi perduti, fuggono abbandonando il covo e i due ostaggi che sono rimasti nelle loro mani.
Il resto è la cronaca della lotta disperata di Calcagno e Pollicardo per rompere il lucchetto della cella e fuggire a loro volta.
Adesso, due interrogativi.
Primo. C’è stata qualche collusione tra la banda di criminali che da mesi deteneva gli ostaggi nella zona e uomini del governo di Sabrata, che poi hanno rivendicato politicamente la liberazione di Calcagno e Pollicardo?
Secondo. L’attacco al convoglio che trasportava Piano e Failla è stato un errore o un regolamento di conti consumato all’interno di uno stesso gruppo di criminali che non avevano trovato un accordo per la spartizione del riscatto?
Le risposte probabilmente non arriveranno mai. Ma questa è la Libia. Oggi.
(da “Huffingtonpost“)
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