L’ILVA PUO’ DIVENTARE ALITALIA, CON LA BAD COMPANY DI STATO
IL GOVERNO PARLA DI NAZIONALIZZAZIONE, MA IL PROGETTO POTREBBE RIGUARDARE SOLTANTO LA PARTE DECOTTA DELL’AZIENDA MENTRE QUELLA BUONA RESTA AI PRIVATI
Chi pensa che la proposta di Matteo Renzi di nazionalizzare l’Ilva sia una prova delle sue già ricordate somiglianze con Amintore Fanfani, vecchio dirigente dc, si sbaglia.
Il “cavallo di razza” della Dc, colui che la ministra Maria Elena Boschi dice di preferire a Enrico Berlinguer, caratterizzò il proprio governo, nel 1961, quando si facevano le prove generali di centrosinistra, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Quella di Renzi, invece, rischia di nascondere il trucco.
Quello di un nuovo “spezzatino” modello Alitalia, con la creazione di una “bad company”, come la chiama l’ecologista Angelo Bonelli, che mette i debiti e i guai sotto il tappeto lasciando il futuro a una nuova società fresca di capitali.
L’ipotesi è in discussione da tempo, nel quadro delle soluzioni per affrontare il problema di Taranto dove la situazione continua a essere esplosiva.
L’azienda è commissariata e, producendo in regime ridotto, accumula perdite quotidiane, finora ripianate grazie all’intervento delle banche.
Inoltre, deve giostrarsi con le direttive dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), i cui costi sono stati stimati in 1,8 miliardi di euro.
Soldi che non ha nessuno e che nessun imprenditore ha intenzione di investire.
Se, al momento, gli stipendi e le tredicesime di dicembre sono assicurate, la situazione per gli 11 mila dipendenti, e i circa 20 mila dell’indotto, resta a forte rischio.
Da qui, il timore di Renzi di trovarsi in una nuova bufera, e la voglia di intervenire.
Come farlo, lo ha spiegato lui stesso in una intervista a Repubblica domenica scorsa: “Intervento con un soggetto pubblico per rimettere in sesto il sito e poi, dopo due-tre anni, rilanciarlo sul mercato. Se devo far saltare Taranto” ha spiegato il premier, “preferisco intervenire direttamente”.
Da qui, l’idea della “nazionalizzazione”. Che però non avverrebbe semplicemente tramite acquisizione dello Stato.
La Fim-Cisl, sindacato non certo ostile al governo, sul punto ha deciso di lanciare un allarme: “Non vorremmo che fosse l’ennesima bad company che serve a far pagare i contribuenti e a deresponsabilizzare il capitalismo italiano”, spiega al Fatto, il segretario dei metalmeccanici cislini, Marco Bentivogli.
La preoccupazione ha un fondamento perchè nei pour parler che il commissario Piero Gnudi sta tenendo con la ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, l’ipotesi di un nuovo commissariamento dell’azienda, stavolta tramite la legge Marzano, è sul tavolo.
La procedura, istituita dopo il crac Parmalat, è aperta da un provvedimento governativo che affida a un commissario straordinario, un programma di ristrutturazione.
Tale programma può prevedere la soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma tecnica o giuridica, quindi con un’ampia flessibilità .
Da qui i timori della Fim-Cisl: “Il rischio concreto — continua Bentivogli — è quello di immettere nella società commissariata tutti i debiti per poi trasferire le attività pulite a una nuova società con il sostegno della Cassa Depositi e Prestiti”.
Qui si colloca il secondo protagonista dell’operazione, Cdp, che ormai non nasconde la volontà di trasformarsi , un po’ alla volta, in una nuova Iri.
Forte dell’ascendente che il suo presidente, Franco Bassanini, ha sull’entourage renziano e forte di una liquidità che, sia pure vincolata alla salute delle imprese, è stata chiamata in causa in molte operazioni finanziarie.
L’ipotesi è apprezzata da molti ambienti politici, industriali e sindacati.
Ieri, l’ad della Cassa, Giovanni Gorno Tempini ha detto di voler fare commenti solo “nel momento in cui ci sono delle ipotesi per noi piu lavorabili”.
Corrado Carrubba, ambientalista e sub-commissario dell’Ilva, giudica positivamente la “nazionalizzazione”: “È una scelta che va nella giusta direzione; l’importante è che non ci siano marce indietro rispetto all’ambientalizzazione dell’Ilva che, se effettuata, ne farebbe un impianto molto competitivo in Europa”.
Tutto dipende da come si realizzerà questo intervento pubblico.
Una bad company, ad esempio, potrebbe essere realizzata semplicemente affidando alla “vecchia” società tutti i contenziosi legali — quello del comune di Taranto ammonta a circa 5 miliardi — oppure affidandole anche il piano di risanamento ambientale. Cosa che, oltre a “nascondere sotto il tappetotutti i dolori di Taranto”, come dice Bonelli, farebbe felici quegli industriali interessati alla formazione di una “newco”.
Tra i più quotati c’è il gruppo Arvedi che è già intervenuto a Trieste nella ex Lucchini.
L’offerta già avanzata dall’indiana Mittal insieme all’italiana Marcegaglia, non pare in grado di onorare tutti gli impegni.
Ora l’attesa è tutta rivolta al decreto del governo che sembrava pronto ieri sera ma che è stato rimandato.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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