L’ITALIA NEL VICOLO CIECO DEL DEBITO PUBBLICO: NESSUNO SA COME USCIRNE
2300 MILIARDI DI DEBITO PARI AL 132% DEL PIL IN COSTANTE AUMENTO
Non passa giorno che qualcuno, sia esso un politico al governo o un economista con la ricetta in mano, dica la sua su come si può superare l’ostacolo del debito pubblico italiano, arrivato a oltrepassare i 2.300 miliardi di euro e il 132% del Pil (prodotto interno lordo).
Ma nessuno sembra avere il bandolo della matassa in mano, la ricetta giusta per rientrare nella normalità e mettere il paese al riparo dalle oscillazioni del suo indice di fiducia, lo spread.
Proprio domenica 1 luglio è arrivata l’ultima dichiarazione di Carlo Cottarelli, ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale e dunque parzialmente allineato alla dottrina liberista che ha permeato quell’istituzione: “E’ impossibile ridurre il rapporto tra debito e Pil — ha detto — attraverso manovre espansive. Non esistono precedenti in nessun paese”.
Ma poco più in là assistiamo alla visione opposta del sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri che insiste nel proporre una manovra espansiva da 70 miliardi che includa Flat tax, riforma della legge Fornero e Reddito di cittadinanza.
E se lo spread balzasse improvvisamente a 500 punti di fronte una prospettiva del genere Siri propone una soluzione inedita e per così dire ‘sovranista’: “Le famiglie italiane che hanno 5000 miliardi di liquidità tornino a riprendersi quelle quote del debito, pari a 780 miliardi, collocata presso investitori stranieri, che sono quelli che fanno girare la giostra dello spread”.
A parte che le cifre indicate da Siri non sono corrette in quanto la quota di debito pubblica detenuta da investitori esteri, secondo gli ultimi dati di Banca d’Italia, ammonterebbe a circa 480 miliardi (e non a 780), la sua proposta in questi termini suona quantomeno generica e basata sul nulla.
Se si volesse veramente ‘balcanizzare’ il debito pubblico italiano, cioè metterlo tutto nei portafogli dei residenti, imitando la situazione presente in Giappone, occorrerebbe mettere a punto un piano pluriennale in cui si stimola l’investimento dei privati cittadini, con risparmio a disposizione, ad acquistare ulteriori emissioni di titoli di Stato.
A cui dovrà essere assegnato un rendimento maggiore o un beneficio fiscale.
Ma come si fa, dopo anni e anni di emissioni aperte sul mercato, a escludere di punto in bianco dagli acquisti gli investitori istituzionali esteri?
Il problema dei politici oggi al governo è che continuano a invadere il dibattito pubblico con proposte non ponderate, destinate ad acchiappare il consenso momentaneo della gente ma senza basi concrete per la loro realizzazione.
Sarà forse anche per questa mancanza di soluzioni pragmatiche che al recente vertice europeo di Bruxelles sul tema del debito pubblico italiano si è preferito buttar la palla più in là .
Il premier Conte non ha assecondato la proposta franco-tedesca nella parte in cui voleva un rafforzamento del fondo Esm sul modello del Fondo Monetario internazionale e dunque la questione è stata rimandata a un prossimo vertice da tenere a dicembre 2018
Ma che il problema del debito pubblico sia stringente lo conferma anche il recente intervento della Corte dei Conti, il cui presidente Angelo Buscema nella relazione sul rendiconto generale dello Stato è stato molto chiaro: “Un eccessivo livello di debito limita la capacità progettuale di medio e lungo periodo con riflessi sui tassi d’interesse e sulla complessiva stabilità finanziaria del paese: in definitiva sulle sue potenzialità di crescita”.
Buscema avverte la necessità di agire in qualche modo: “Dopo la lunga crisi conosciuta dal nostro paese, la tutela della finanza pubblica si identifica in buona parte con l’esigenza di ricondurre il debito su un sentiero di sicura sostenibilità e di recuperare la crescita in termini di Pil”.
Ma anche gli economisti non hanno le idee molto chiare, a giudicare dal livello delle polemiche delle scorse settimane sempre tema di debito pubblico. Per far capire meglio ai lettori di cosa si sta parlando ecco una sintesi delle varie posizioni in campo
Cominciamo prendendo spunto da una appassionata intervista rilasciata qualche giorno fa dall’economista Michele Boldrin al giornale online Linkiesta nella quale invita a concentrare l’attenzione sulla capacità dell’Italia a servire il proprio debito pubblico lasciando perdere il suo valore assoluto, che può addirittura risultare fuorviante.
Se vi fosse crescita sostenuta in Italia — è la tesi di Boldrin insieme a un nutrito schieramento di economisti della scuola liberista che anni fa avevano sostenuto il movimento ‘Fare per fermare il declino’ — nessuno si preoccuperebbe dell’alto livello assoluto del debito pubblico. “Se io ho tanto debito e ti prometto che farò reddito futuro, e quindi gettito fiscale — dice Boldrin — divento credibile”.
Su questo punto credo che tutti possono essere d’accordo, è piuttosto sul come si possa produrre reddito aggiuntivo e quindi gettito fiscale in presenza di un debito così elevato che le teorie divergono e, dico io, dove le fondamenta liberiste vengono incrinate dalla dura realtà del caso italiano.
Boldrin getta infatti ‘alle ortiche’ le proposte che hanno contrassegnato la recente accesa campagna elettorale, cioè la Flat tax e il reddito di cittadinanza, quali elementi di una politica economica che può portare crescita nel breve periodo.
Constatando, giustamente, che “ridurre le aliquote crea comunque una riduzione del gettito. Non c’è maniera di discutere di riduzione complessiva del carico fiscale in Italia se non si discute di riduzione della spesa, perchè altrimenti l’unico effetto che hai è che crei un buco di bilancio di 2-3 punti percentuali e lo rendi strutturale”.
Ecco che il cerchio comincia a stringersi.
Per produrre più crescita in Italia (dato l’alto livello del debito pubblico) secondo i teorici delle riforme e del rigore occorre prima di tutto tagliare la spesa pubblica, il grande moloch dell’economia italiana.
Con una controindicazione: se tagliando le spese si tolgono soldi dalle tasche dei cittadini, siano essi pensionati, dipendenti pubblici o fruitori di servizi sanitari, i consumi si contraggono e difficilmente si produrrà una maggiore crescita.
Ecco perchè in molti suggeriscono di concentrare i tagli solo sugli sprechi, come sostiene da anni il professore bocconiano Francesco Giavazzi. “Comincino a tagliar la spesa per davvero, dai forestali alle pensioni”, tuona Boldrin.
Sembra facile, ma solo a parole. Il problema è che ci hanno provato in molti negli anni passati tra coloro che si sono avvicendati al governo, ma nessuno vi è riuscito.
Dal professor Cottarelli al suo successore dottor Gutgeld nessuno, per ragioni diverse, ha centrato l’obbiettivo.
Gutgeld ha anzi sostenuto che in Italia non si può pensare di ridurre seriamente la spesa pubblica senza licenziare i dipendenti pubblici e tagliare le pensioni. Due provvedimenti molto impopolari che nessun governo ha sinora voluto mettere in agenda.
Tuttavia il taglio della spesa pubblica non è l’unica strada per risolvere il problema del debito.
Secondo un altro gruppo di economisti (Giovanni Dosi, Marco Leonardi, Tommaso Nannicini, Andrea Roventini) che recentemente hanno scritto una lettera a otto mani al Corriere della Sera, bisogna avere il coraggio di dire che “l’austerità ha fallito, non solo in Italia ma in tutta l’area euro, e che la quasi stagnazione rende il peso del debito insostenibile nel lungo periodo in diversi paesi del’area euro”.
Abbattuto il muro del rigorismo resta da dire quali sono le ricette per uscire dalla morsa.
Tra le possibilità , secondo i quattro economisti ‘innovatori’, ci sarebbe l’utilizzazione del “Fondo Salva Stati come veicolo per l’assicurazione dei debiti nazionali con l’obbiettivo di far convergere le curve dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i paesi e reinvestire i proventi derivanti dai premi di assicurazione nei paesi che li hanno pagati”.
Di questa proposta ha scritto anche l’economista della Consob Marcello Minenna sulle nostre pagine e un suo intervento al riguardo è stata pubblicato dal Financial Times Alphaville e commentato da KPV O’Sullivan dell’University of Cambridge. L’obbiettivo sarebbe quello di giungere a una progressiva mutualizzazione dei rischi sovrani tra i paesi che aderiscono all’euro, archiviando il dossier spread e passando a un debito pubblico federale dell’area euro
Un discorso, questo, che purtroppo non riesce a entrare nell’orecchio dei governanti tedeschi e che è avversato apertamente dai principali circoli economici di Germania. “Queste proposte hanno una caratteristica in comune — scrive l’economista della Bocconi Roberto Perotti su Repubblica di martedì 26 giugno — sono un modo per prendere una quantità gigantesca di soldi al contribuente tedesco e passarli a quello italiano. Perchè mai il primo dovrebbe aderire?”.
A meno che Conte e Tria non fossero così abili da riuscire a portare al tavolo delle trattative i tedeschi per poi riuscire a convincerli che la mutualizzazione dei rischi sovrani è nell’interesse di tutti, la prospettiva al momento appare un po’ utopistica.
Un terzo gruppo di osservatori, riuniti nei mesi scorsi sotto le insegne della fondazione ResPublica (che vede nelle sue fila anche l’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti), ritiene invece che non sia sufficiente, anche qualora vi si riesca, far fronte alla montagna del debito pubblico solo con una maggiore crescita del Pil.
E propone una ricetta che si potrebbe definire ‘del buon padre di famiglia’: quando hai troppi debiti, non c’è verso, li devi ridurre vendendo qualcosa.
Dunque l’Italia dovrebbe dare una spallata al debito pubblico riducendolo drasticamente, di almeno 300 miliardi. La manovra permetterebbe di innescare un circolo virtuoso dato che l’abbassamento dello spread conseguente al taglio andrebbe a determinare una minor spesa per interessi sul debito liberando risorse che possono, adesso sì, essere reinvestite nella crescita o in misure socialmente utili (reddito di cittadinanza?) con l’obbiettivo di rilanciare i consumi.
Domanda retorica che si porranno in molti: e come si fa ad abbattere il debito pubblico di 300 miliardi?
I banchieri ed economisti di ResPublica hanno individuato una serie di beni dello Stato che potrebbero essere dismessi attraverso procedure finanziarie lineari volte ad attrarre quei risparmi degli italiani che sono ingenti (gli attivi dei privati sono nell’ordine dei 5000 miliardi senza gli immobili) ma che negli ultimi anni hanno preso la via dell’estero per mancanza di buone occasioni di investimento.
In pratica una sorta di nuovo mega programma di privatizzazioni ma indirizzato principalmente a cittadini e risparmiatori italiani.
Non c’è motivo per cui lo Stato non possa vendere agli italiani le sue partecipazioni in società quotate e non quotate, gli immobili posseduti dallo Stato o dagli enti territoriali, le concessioni, i crediti verso Equitalia o verso gli Stati esteri, o anche una parte dell’oro della Banca d’Italia. Il progetto è sicuramente ambizioso e proprio per questo richiederebbe una volontà politica molto forte e determinata nel portarlo a termine. Elemento che nei precedenti governi è mancato.
Ecco, questo è lo scenario entro il quale ci stiamo muovendo e si sta discutendo, anche molto animatamente, e nel quale sono coinvolti non solo gli economisti ma anche i banchieri (il ceo di Intesa Sanpaolo Carlo Messina ha parlato spesso della necessità di ridurre il debito pubblico) e alla fine tutti i cittadini italiani perchè il debito grava su ognuno di noi e sulle prossime generazioni.
Ma gli spazi per agire, come visto, non sono ampi
(da “Business Insider”)
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