LOTTA ALLA MAFIA: QUEI SEGNALI AMBIGUI DEL GOVERNO LEGA-M5S, SOLO ANNUNCI E PROCLAMI
DICHIARAZIONI CONTRO I GIORNALISTI SOTTO SCORTA E DI NINO DI MATTEO SI SONO DIMENTICATI
Per alcuni siciliani, come per alcuni calabresi, più che le parole conta capire cosa c’è dietro. Possono discuterne per giorni interi.
Per i mafiosi, poi, interpretare i segni o le azioni, fatte o mancate, è un’autentica ossessione, soprattutto da quando l’intreccio di interessi con i politici è diventato più stretto.
I segnali che usano per comunicare tra loro sono comunque i più difficili da comprendere dall’esterno.
Dunque, questo governo che messaggi manda contro la mafia? E cosa farà di concreto per combattere i boss?
Occorre fare un passo indietro e partire dalla kermesse di Ivrea del 7 aprile scorso, quando il Movimento 5 Stelle ha organizzato un meeting per ricordare Gianroberto Casaleggio, il Fondatore.
Ospite e oratore il magistrato Nino Di Matteo. Mentre parlava tra gli applausi scroscianti e chiedeva si facesse chiarezza sulle stragi del ’92 e del ’93 (per quest’ultima è ancora indagato a Firenze Silvio Berlusconi), Davide Casaleggio, l’imperatore del Movimento, in un angolo era concentrato a mostrare la cover del proprio telefonino ai suoi più fidi collaboratori.
Poi, ogni tanto, si lasciava andare a un battito di mani destinato all’ospite che tanto infiammava la platea degli attivisti grillini.
In quella occasione pubblica Casaleggio jr è apparso più interessato alla psicologa Maria Rita Parsi e ai suoi video sui bambini, rispetto al pm antimafia che i militanti del Movimento portavano in palmo di mano.
Non era interessante la sostanza dell’azione giudiziaria di Nino Di Matteo. L’importante era mostrare.
Così durante la campagna elettorale il nome del magistrato del processo alla trattativa Stato-mafia è stato fatto circolare come potenziale ministro della Giustizia. Ma quando il governo si è formato dopo l’accordo con la Lega, in via Arenula è arrivato Alfonso Bonafede e allora Di Matteo è stato candidato ad altro, la guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), un ruolo importante e operativo.
Un punto sensibile per comprendere umori e azioni dei clan criminali.
La notizia di un probabile arrivo al Dap di Di Matteo è stata accolta con malumore da tutti i detenuti mafiosi che hanno iniziato a lamentarsi, prevedendo nuove strette carcerarie.
E così, dal carcere dell’Aquila a quello di Novara, dove si trovano pericolosi capimafia, gli agenti del Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria hanno registrato decine di conversazioni che riguardavano Di Matteo e i timori per una gestione rigorosa delle carceri. Un segnale positivo per la legalità .
Note di servizio sono state inviate alla Procura nazionale antimafia. Uno dei boss dice: «Zio Carme’, questi ci vogliono di nuovo chiudere come i topi, qui c’è scritto che vogliono fare a Di Matteo capo delle carceri, chisti su pazzi».
O ancora: «Questi riaprono la Pianosa… dobbiamo chiedere aiuto alla magistratura di sorveglianza».
Insomma l’azione concreta che il Movimento annuncia di mettere in atto contro i boss mette paura ai capimafia. Una paura concreta.
Cosa fa il neo ministro della Giustizia? Nomina al vertice del Dap un altro magistrato, il procuratore aggiunto di Potenza, Francesco Basentini. Sicuramente un bravo magistrato. E così gli animi dei mafiosi si sono tranquillizzati. Tutto come prima. Un gesto, un segnale.
Bonafede, contrariamente a quello che è stato propagandato dal Movimento contro la mafia, si sta servendo al Dap delle stesse persone che hanno smantellato l’alta sicurezza nelle carceri.
E fra i movimenti ipotizzati c’è anche quello di spostare l’attuale vice capo Dap a direttore generale detenuti.
C’è pure la polemica tra Anm e il Guardasigilli sul decreto legge che sospende fino al 30 settembre i termini processuali e di prescrizione e i processi penali senza detenuti a Bari a causa della inagibilità del Tribunale.
Per il presidente dell’Anm, Francesco Minisci «la sospensione dei termini è un accessorio rispetto al tema principale».
Un altro segnale di questo governo è anche quello lanciato la scorsa settimana dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, parlando di Roberto Saviano e della valutazione della sua scorta .
Puntare il dito – soprattutto se lo fa un uomo delle istituzioni – contro chi è impegnato a denunciare le mafie, chi ne svela la potenza e le collusioni, rischia di fare il gioco delle cosche. Rischia di essere loro complice ed esporre a seri pericoli una persona perchè il messaggio che passa è di aver isolato il loro nemico, di averlo abbandonato.
E si rimane esterrefatti a leggere le dichiarazioni del Guardasigilli Bonafede, dopo le esternazioni di Salvini: «Non commento. Non è il ministro della Giustizia quello competente in materia. Non ho gli elementi per valutare e non commento questa dichiarazione perchè l’ha fatta il ministro dell’Interno e lui è competente a fare le dichiarazioni».
Eh no, ministro Bonafede, quello che le viene chiesto non è un giudizio tecnico sulla scorta, ma un giudizio politico, sociale.
Come ha ricordato nei giorni scorsi Liana Milella sul suo blog : «Chi è responsabile di un ministero dove ha lavorato Giovanni Falcone, dove c’è la sua immagine lungo le scale che portano alla stanza del ministro, non può tacere».
E anche questo è un segnale, che purtroppo non va contro le mafie.
Cosa vale quello che si è visto nell’aula del Senato, la standing ovation, con tanto di coro, per il presidente del Consiglio, quando Giuseppe Conte ha parlato di lotta alla mafia e di aggressione alla sua economia. I senatori di Lega e M5s sono scattati in piedi scandendo lo slogan «fuori la mafia dallo Stato».
E poi? Il ministro Salvini durante un comizio a Viterbo ha parlato dei Casamonica indicandoli come un clan mafioso. Ci potrebbe pure stare. Anche se – volendo restare nell’ambito giudiziario – gli affiliati a questa famiglia criminale non sono mai stati processati e quindi mai condannati per mafia.
A questo punto, se si resta nell’ambito romano, è interessante conoscere il pensiero del ministro Salvini sul clan che invece ha influenzato attraverso il metodo mafioso, nell’ultimo decennio, l’economia di gran parte della Capitale, la politica della città e l’ha fatta da padrona. Parlo del clan di Massimo Carminati, l’uomo nero, e di mafia Capitale.
Visto che il responsabile del Viminale si lancia giustamente contro i Casamonica come mai non dice nulla sul clan del Cecato? Non lo ha fatto in passato, potrebbe approfittare adesso che i giudici delle misure di prevenzione di Roma hanno ordinato la confisca del tesoro di Carminati e compagni per un valore di circa 35 milioni di euro. Chissà come potrebbero prenderla una sua dichiarazione gli amici della destra romana.
Però adesso che Salvini dice di rafforzare l’agenzia dei beni confiscati può essere l’occasione per assegnare subito i beni sottratti al “mondo di mezzo”.
(da “L’Espresso”)
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