L’ULTIMA BALLA DI MINNITI, L’HOTSPOT VERGOGNA DI LAMPEDUSA NON CHIUDE: “ITALIA COMPLICE DI UN GENOCIDIO, PRIMA O POI SARA’ CHIAMATA A RISPONDERNE”
L’ANNUNCIO E’ UN BLUFF… QUELLO CHE NESSUNO DICE: IL TURISMO, GRAZIE AI RISVOLTI MEDIATICI INTERNAZIONALI, E’ AUMENTATO DEL 30% OGNI ANNO DAL 2015
Il centro chiuso in realtà è aperto, con il solito schieramento di polizia e di vigili del fuoco davanti al cancello, con il consueto buco nella rete da cui sono entrati e usciti migliaia di migranti.
Basta aspettare qualche minuto davanti all’ingresso per vederli inerpicarsi, uno dopo l’altro, lungo il sentiero che corre a fianco dei padiglioni, sotto lo sguardo delle forze dell’ordine.
Per legge potrebbero entrare e uscire dal cancello principale — questo è un centro aperto – ma il patto per non allarmare Lampedusa alla vigilia della stagione turistica è che vengano scoraggiati a girare per le strade.
Certo è che la chiusura di questo hotspot — annunciata il 13 marzo scorso dal ministero dell’Interno con un «progressivo e veloce svuotamento» in vista dei prossimi lavori di ristrutturazione — non è mai avvenuta.
E che questo luogo simbolo della tragedia delle migrazioni continua a essere una trincea, seppure silenziata.
È vero, non arrivano più i subsahariani dalla Libia ma si è riaperto il fronte tunisino, con decine di ragazzi che arrivano alla spicciolata con proprie barche, «migranti economici» per lo Stato, da avviare ai centri per il rimpatrio.
Ne sono arrivati più di cento nell’ultimo mese, e gli sbarchi si susseguono a ritmo pressochè quotidiano.
Lo ammette anche Totò Martello, il sindaco che ha chiuso l’era di Giusi Nicolini: «Come da patti con il governo, le motovedette non portano più qui i migranti salvati in mare, ma non si può dire che l’emergenza sia finita», dice mentre si appresta a inviare una lettera al presidente del Consiglio dei ministri scongiurando di prorogare la sospensione delle tasse concessa come «risarcimento» dal governo Berlusconi dal 2011 al 2017.
Il tempo è scaduto e le cartelle esattoriali sono diventate esecutive. «Tra una quindicina di giorni arriveranno — spiega — morte sicura per molte imprese del turismo e della pesca».
Sarà vero?
L’emergenza ha portato con sè anche i risarcimenti ai pescatori delle cento barche dell’isola (trentamila euro per le grosse, 6.500 per le più piccole), i ventisei milioni di euro dispensati al Comune da Berlusconi e i venti da Letta come compensazione per i disagi.
Oltre che una candidatura per l’Isola al Nobel per la Pace, un film vincitore dell’Orso d’oro, il primo viaggio di Papa Francesco dopo l’elezione al soglio pontificio, era il 28 luglio 2013.
E, secondo qualcuno, anche il boom turistico di Lampedusa, diventata comunque celebre nel mondo: più 30 per cento a ogni stagione dal 2015 a oggi.
Ma qui, oggi, c’è solo voglia di archiviare quella pagina.
Nessuno, o quasi, pensa che la tragedia degli sbarchi dalla Libia non arriva più su queste sponde ma si ferma qualche decina di miglia più a sud, tra naufragi e rimpatri nelle prigioni. «Quel che accade a Lampedusa esiste, quel che non accade non esiste», sintetizza don Carmelo La Magra, 37 anni, il parroco dell’isola, mole imponente e barbone rosso, venuto qui a piantare la bandiera dell’accoglienza senza se e senza ma. È lui a offrire il wi-fi ai tunisini, è lui ad avere collaborato — poche settimane fa — a una sorta di blitz solidale messo in atto da un gruppo di attivisti che è riuscito a fare avanzare a decine di tunisini la richiesta di asilo.
È piombata qui la commissione ministeriale, consapevole del rischio di aprire una maglia pericolosa. Due tunisini lo hanno ottenuto, gli altri hanno fatto ricorso — assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini — e sono comunque usciti dai centri per il rimpatrio in cui erano stati rinchiusi.
Pietro Bartòlo, il medico-eroe in prima fila negli sbarchi sulla cui storia si sta per girare un film, si aggira sul molo e guarda il mare: «Rimpiango i tempi in cui dalla Libia si sbarcava qui, la rimpiango perchè adesso muoiono e non lo sappiamo neanche. L’Italia è complice di un genocidio, e prima o poi sarà chiamata a risponderne».
(da “La Stampa”)
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