MEDICI DI FAMIGLIA IN FUGA
EFFETTO COVID, TANTI GETTANO LA SPUGNA E VANNO IN PENSIONE CREANDO UNA VORAGINE
Capita sempre più spesso e ovunque, in Lombardia o in Sicilia. Cerchi il medico di famiglia e non lo trovi: risponde la segreteria telefonica. Poi, ecco che pochi giorni dopo arriva la mail dall’azienda sanitaria.
Ti comunica che il tuo medico è andato in pensione e ti invita a sceglierne un altro. Potrebbe (e dovrebbe) essere normale routine di avvicendamento, ma non è così. Non da due anni a questa parte, non con una pandemia in corso. Perché adesso chi può scappa, cerca lo scivolo più veloce verso la pensione. E i sostituti non ci sono. È così da tempo, solo che ora la bomba è esplosa.
Dieci anni fa i medici di famiglia in Italia erano 46 mila. Lo scorso anno erano già scesi a poco più di 42 mila, uno ogni 1.400 abitanti circa, almeno tremila in meno di quanti dovrebbero essere: e la stima è anche sottodimensionata. Eppure – lo abbiamo imparato a spese di tutti, specie dall’inizio della pandemia – dovrebbero essere il primo presidio sanitario sul territorio, con una funzione di filtro tra i cittadini, gli specialisti e gli ospedali.
La loro distribuzione sul territorio nazionale riflette solo in parte la densità abitativa. Si va dagli appena 82 della Valle D’Aosta ai circa 6mila della Lombardia. Perché, come al solito, le differenze sono anche il frutto degli investimenti delle varie Regioni sulla medicina territoriale.
Per esempio: Puglia ed Emilia-Romagna hanno più o meno lo stesso numero di abitanti, ma nella prima i medici di base sono oltre 3.200, nella seconda si fermano a poco più di 2.900.
Ogni medico di famiglia potrebbe avere un massimo di 1.500 assistiti. Ma in virtù di vecchi accordi nazionali questo tetto può essere anche superato. E, ancora una volta, le difformità tra le regioni sono macroscopiche.
Se nella provincia di Bolzano un medico di famiglia ha mediamente 1.583 pazienti, un suo collega del Molise ne ha 1.037. Solo che ora c’è chi ne ha anche oltre duemila di assistiti, concentrazioni che sono dovute proprio alle carenze di medici di base.
Già fragile prima dell’emergenza sanitaria, adesso la medicina territoriale rischia l’implosione.
“Due anni di Covid 19 l’hanno devastata”, conferma Claudio Cricelli, presidente della Società di medicina generale. Ma cosa sta succedendo? Semplicemente sono tantissimi quelli che stanno gettando la spugna o si apprestano a farlo anche anticipando il pensionamento, che di norma avviene intorno ai 70 anni.
I dati che arrivano da Enpam, l’ente di previdenza dei medici, sono impietosi. Nel 2021 sono andati in pensione 3.061 medici di famiglia. Nel 2022 getteranno la spugna altri 3.257. Più di 6.300 in due anni (si veda l’infografica accanto, ndr), senza un ricambio in grado di colmare la voragine.
In 24 mesi ne perderà oltre 700 la Campania, 452 l’Emilia-Romagna, 622 il Lazio, 687 la Lombardia, 526 la Puglia, 661 la Sicilia, 465 il Veneto. In Calabria se ne andranno in 234, in Sardegna in 212, in Toscana appenderanno il camice in 437. Queste sono alcune delle regioni che pagheranno il prezzo più alto. Tutte, chi più chi meno, dovranno comunque fare i conti con una emorragia che appare ormai inarrestabile. E a questi numeri vanno aggiunti quelli relativi alla continuità assistenziale e alla pediatria. Sempre in due anni andranno in pensione infatti 678 guardie mediche e 749 pediatri di libera scelta.
“Per i soli medici di famiglia stimiamo entro il 2025 circa 18 mila uscite”, spiega Filippo Anelli, presidente della FnomceO, la federazione degli Ordini dei medici. “E parliamo di una previsione al ribasso”, aggiunge Anelli.
Ma perché, a cosa si deve questa fuga verso la pensione?
“I medici di famiglia sono sfiniti”, spiega Cricelli. “Per capire è necessario fare un confronto con il resto d’Europa. Dopo un mese dall’inizio della pandemia il servizio sanitario inglese aveva già stanziato risorse per rinforzare la medicina generale. In Italia invece abbiamo mantenuto gli stessi numeri. Lo Stato, grazie anche a fondi straordinari, ha investito sugli ospedali, sulle terapie intensive. Ma nulla sulla medicina di base, che ha affrontato la pandemia già molto indebolita dagli errori commessi dal servizio sanitario, attraverso le Regioni, nella programmazione e nella determinazione dei fabbisogni formativi”.
Per formare un medico di medicina generale, dopo la laurea, ci vogliono tre anni. “Ma le borse di studio messe a disposizione sono sempre state ampiamente insufficienti”, prosegue Cricelli. Così la pandemia ha travolto tutto. La stragrande maggioranza dei contagiati non è ospedalizzata e l’assistenza ricade sui medici di famiglia, il cui carico di lavoro, dice Cricelli, “è moltiplicato di quattro volte”.
Ormai è un problema strutturale. “Dicevamo da anni che si sarebbe presentato questo scenario, ma lo Stato è rimasto a guardare”, osserva il vice presidente di Enpam, Luigi Galvano. Il ministero della Salute e le Regioni hanno cercato (tardivamente) di correre ai ripari. Ma la formazione richiede tempo. E in ogni caso, secondo gli addetti ai lavori, non è certo un bel segnale il fatto che il concorso di medicina generale per l’accesso alle borse di studio per il 2021 sia slittato a quest’anno.
“Gli errori di programmazione hanno portato a una situazione drammatica”, dice Anelli. “Maliziosamente c’è chi dice che in realtà le Regioni vogliano virare su un nuovo modello di medicina territoriale meno costoso, tagliando 30mila medici. Io credo invece che tutto ciò sia il frutto di sciatteria. Oggi il livello di burn-out dei medici di famiglia è spaventoso: il carico è aumentato notevolmente soprattutto perché i pazienti Covid devono essere monitorati costantemente. E non dobbiamo dimenticare che ci sono anche gli altri assistiti: il 40% della popolazione italiana è affetta da patologie croniche”.
Tanti medici di famiglia sono entrati in servizio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e oggi ci sono due grandi gruppi: gli anziani e i giovani, la mezza età (i 50enni) è ormai ampiamente sotto rappresentata. Chi può sceglie, con un’altra conseguenza. “A desertificarsi sono le periferie, le aree più remote”, aggiunge Anelli. “Perché chi entra adesso piuttosto che andare in una valle montana opta per la città”. Con buona pace del famoso diritto universale alle cure.
(da Il Fatto Quotidiano)
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