ORBAN NON PENSA A PUTIN MA AI CAZZI SUOI
L’AMBASCIATORE MASSOLO: “DI KIRILL GLI IMPORTA POCO, TENTA DI OTTENERE LO SBLOCCO DEI FINANZIAMENTI COMUNITARI PER IL SUO RECOVERY ANCORA FERMO”
«L’Europa di fronte a due grandi crisi come la pandemia e la guerra ha dato prova di compattezza, chi parla di fallimento esagera. Detto questo, è vero che esiste il problema del sistema delle decisioni all’unanimità e modificarlo è molto complicato. Però esistono strumenti che possono essere molto utili, come le cooperazioni rafforzate, che consentono di procedere per gruppi di Paesi».
L’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), già segretario generale della Farnesina e capo del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), invita a un’analisi razionale della fase di impasse che sta vivendo l’Unione europea con la posizione dell’Ungheria che frena sulle sanzioni alla Russia.
E avverte: per Orban si può parlare certo di un rapporto con Mosca, ma comunque l’obiettivo vero è quello di ottenere risultati per il suo Paese, sia per le forniture di petrolio sia per lo sblocco dei fondi del piano di recovery.
Ambasciatore, sul sesto pacchetto di sanzioni alla Russia, con il veto sulle misure previste per il patriarca Kirill espresso dall’Ungheria, emerge la debolezza dell’Unione europea? Il sistema delle decisioni all’unanimità causa la paralisi.
«Prima di tutto direi di non saltare a conclusioni a piè pari. Guardiamo a ciò che è successo negli ultimi due anni: l’Europa ha risposto in modo efficace a due grandi crisi come la pandemia e la guerra, sia pure dopo qualche esitazione iniziale».
In che modo?
«Ad esempio, sulla pandemia c’è stata una significativa capacità decisionale, pensi a quanto è stato messo in campo con i fondi di Next Generation Eu. Quando si è trovata sotto pressione l’Unione europea ha dimostrato di sapere rispondere».
Però oggi, di fronte a un tema delicato come quello delle sanzioni che devono colpire la Russia in seguito all’aggressione militare dell’Ucraina, si deve prendere atto della mancanza della necessaria compattezza dei 27 Paesi membri.
«Non saltiamo troppo frettolosamente a conclusioni azzardate dicendo che non funziona niente. Però il problema del meccanismo dell’unanimità esiste, è innegabile. Questi meccanismi dovrebbero essere più flessibili perché potrebbero consentire delle decisioni più rapide ed efficaci. Questo è un dato di fatto».
Perché allora non si modifica il sistema ricorrendo, ad esempio, a una maggioranza qualificata?
«Non è così semplice. Prima di tutto l’Unione europea non è una federazione. È una confederazione di Stati che mantengono un ruolo molto rilevante nei meccanismi decisionali. E sono Stati che hanno storie, tradizioni, sensibilità, opinioni pubbliche e sistemi istituzionali tra di loro differenti. Di questo va tenuto conto».
Ma c’è anche altro.
«Certo. Per passare a un sistema di voto maggioritario bisogna cambiare i trattati. E per farlo però serve l’unanimità. Il vero nodo è che per traghettare l’Unione verso un assetto più coraggioso c’è bisogno che tutti gli Stati più importanti, che hanno responsabilità, svolgano una funzione trainante.
Questo è l’unico modo perché, progressivamente e sempre nel rispetto delle tradizioni e delle sensibilità di tutti i Paesi membri, si raggiunga un assetto su livelli di equilibri più avanzati. Ma non è così semplice».
Abbiamo strumenti per affrontare le crisi come quella della guerra in Ucraina e della risposta alla Russia?
«Sì, ci sono. Già sono offerti dai trattati, penso alle cooperazioni rafforzate tra Stati. Gruppi di Paesi possono decidere di mettere in campo delle misure efficaci autonomamente, con una forma appunto di cooperazione rafforzata»
Una delle semplificazioni che si sentono in queste ore dice: l’Ungheria deve essere espulsa dall’Unione europea.
«Non è possibile. Dalla Ue non si può essere espulsi, si può solo uscire per decisione autonoma, come traumaticamente ha mostrato la Brexit. Nel caso dell’Ungheria, ma per altri tempi è successo anche per la Polonia, si può utilizzare uno meccanismo di condizionalità: subordinare l’erogazione di fondi comunitari all’adozione di determinate misure o alla sospensione di determinati comportamenti non in linea con quanto previsto dai trattati.
Tra le ragioni per cui Orban continua a esercitare questo potenziale ricatto sulle sanzioni, c’è anche il tentativo di ottenere lo sblocco dei finanziamenti comunitari per il suo piano nazionale di recovery. Ancora fermo proprio per ragioni di incompatibilità».
I veti che Orban pone non sono causati dal legame con Mosca?
«Guardi, penso che a Orban, con tutto il rispetto, del patriarca Kirill interessi poco. Lui sta cercando un compromesso, il meno dannoso possibile nell’ottica di Budapest, sull’embargo al petrolio russo. E punta, come detto, allo sblocco dei finanziamenti del recovery».
Non c’è più lo stretto rapporto Polonia-Ungheria.
«Diciamo che tra i quattro Paesi del Gruppo Visegrad, molto uniti su altri temi come le politiche migratorie, sulla guerra in Ucraina stanno emergendo posizioni molto differenti. Da parte della Polonia, ma pure della Repubblica Ceca, anche per ragioni storiche, stanno prevalendo sentimenti anti russi e anti Putin».
(da “il Messaggero”)
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