ORIGONE RACCONTA “QUEI VENTI SECONDI IN BALIA DEGLI AGENTI”
“QUELL’INCUBO TRA MANGANELLATE E CALCI CON GLI ANFIBI”… E STAMANE GLI AGENTI COINVOLTI SI SONO PRESENTATI FINALMENTE IN PROCURA, VISTO CHE ORMAI ERANO STATI IDENTIFICATI
“Sono un giornalista, sono un giornalista”. L’ho gridato subito, mentre i poliziotti mi venivano incontro alzando i manganelli. È stata una frazione di secondo. Mi sono girato, ho cercato di scappare, ma non ne ho avuto il tempo. Sono stato accerchiato, hanno cominciato a colpirmi sulla schiena, la testa e le braccia. D’istinto mi sono chinato per proteggermi. Sono passati cinque giorni da quel pomeriggio di Piazza Corvetto a Genova e dagli scontri tra polizia e antifascisti per una manifestazione di CasaPound.
L’ospedale, l’operazione alle due dita frantumate, la costola rotta che non mi fa respirare e che a ogni colpo di tosse mi fa vedere le stelle e mi impedisce di dormire. Solo ora riesco a fare ordine nei ricordi e ricostruire quegli attimi. Di pura follia. “Stavo solo facendo il mio dovere di cronista”. Nella mia mente in questi giorni me lo sono ripetuto in continuazione perchè cercavo di capire quale errore avessi commesso. “Nessuno”, continuano a ripetermi mia moglie Stefania e quasi tutto il resto del mondo.
Ero appostato a pochi metri dal cordone di poliziotti perchè un ragazzo vestito di scuro era stato bloccato dagli agenti e veniva picchiato selvaggiamente. Mi sono detto: che questo sia un altro G8? È meglio stare qui e vedere con i miei occhi quello che sta succedendo.
Pochi minuti prima mi ero seduto su una panchina proprio perchè la situazione era molto più tranquilla, finalmente, dopo due ore di tafferugli. Mi sono acceso una sigaretta, ho guardato le foto della mia nipotina Frida che mi erano arrivate su WhatsApp e mi sono guardato attorno per cercare con gli occhi dove fossero gli altri miei colleghi.
Alle mie spalle, sulla collinetta del Parco dell’Acquasola, la gente osservava quello che stava succedendo in piazza. Mi sono alzato e mi sono diretto verso il cordone di agenti che, usando i lacrimogeni, aveva disperso un gruppo di manifestanti spingendoli in fondo a via Santi Giacomo e Filippo, l’unica via di fuga predisposta dal servizio di sicurezza della questura. I poliziotti erano allineati proprio all’inizio della strada per creare una zona cuscinetto e isolare i più violenti. Ero a pochi metri dagli agenti, tranquillo, mi sentivo quasi protetto. Mi sbagliavo.
Improvvisamente la polizia con caschi e maschere antigas è schizzata sul lato destro della strada e ha bloccato il ragazzo vestito di nero con il casco in testa. È stato un attimo impercettibile. Un secondo dopo sono piombati su di me. Una gragnuola di colpi, senza soluzione di continuità . Sono stato schiacciato per terra. E da quel momento ho capito che poteva essere la fine. La mia.
“Sono un giornalista”, continuavo a gridare disperatamente. Niente, non si fermavano. Possibile che non sentissero? D’istinto mi sono coperto la testa con le mani. Non so quanto sia durato, probabilmente una ventina di secondi, ma interminabili. E sempre d’istinto mi sono ritrovato in posizione fetale con le mani sul capo e la faccia per terra. Vedevo anfibi neri. Tanti, intorno a me.
Mi rimbombavano nel cervello i colpi dei loro manganelli e delle loro suole. Calci alla schiena, manganellate sulle braccia, sulle gambe, sugli stinchi. Le mani non bastavano a difendermi. Mi stavano ammazzando di botte come nei film che avevo visto sul G8. Sentivo dolore, pregavo che smettessero. Non gridavo più “sono un giornalista”, ma supplicavo: “Basta, basta”.
Un colpo di anfibio al costato mi ha tolto il fiato, ho abbandonato quella posizione e ho allungato le gambe. Ho teso i muscoli di tutto il corpo perchè non sopportavo più il dolore. Ho pensato: non ce la faccio più. Proprio in quel momento ho sentito un corpo sul mio. Era un poliziotto. “Fermi, è un giornalista”. Era Giampiero Bove, un caro amico che negli anni della cronaca nera andavo a trovare in commissariato per cercare di strappare qualche notizia.
“Stefano, sono Giampiero, stai tranquillo, ci sono io”. Ricorderò per sempre quelle parole e il suo sguardo rassicurante. “Alzati, spostiamoci”. Non ci riuscivo. Mi girava la testa. Avevo dolori ovunque. Ho cercato di prendere il cellulare, ma le dita non si piegavano. “Lo prendo io, fai uno sforzo, alzati Stefano”.
Mi guardavo attorno, la polizia caricava un gruppo di persone vicine alla panchina dove mi ero seduto. Mi hanno appoggiato al muretto, proprio nel punto dove avevano arrestato il ragazzo vestito di nero. “Ho due dita rotte”, ho detto a Giampiero. Erano scure e con una forma a fisarmonica. Una collega mi ha sorretto. Poi un poliziotto mi ha aiutato a raggiungere Via Assarotti, ma non sapevo dove mi trovassi. Altri giornalisti hanno chiamato il 118, mi hanno dato dell’acqua.
Il viaggio in ambulanza a sirene spiegate fino all’ospedale Galliera. Interminabile, perchè le strade principali erano state chiuse per via della manifestazione. Mi veniva da vomitare, avevo perso lucidità mentre al telefono avvisavo mia moglie. “Sono sull’ambulanza, la polizia mi ha massacrato”. Ma lei non mi credeva.
Nei due giorni di ricovero sono state tante le manifestazioni di solidarietà . Mi ha chiamato il presidente della Camera, Roberto Fico, ma non il ministro dell’Interno Matteo Salvini
Stefano Origone
(da “La Repubblica”)
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