PICCOLI PARTITI, GRANDI RICATTI
RENZI MINACCIA CONTE CON GLI STESSI ARGOMENTI CHE AVREBBE SFODERATO L’UDEUR DI MASTELLA O IL PSDI DI LONGO
Esistono partiti piccoli che pensano in grande; e poi ci sono piccoli partiti, nel senso di piccini in tutto e per tutto.
I primi rappresentano visioni politiche, in qualche caso utopie rispettabili, per nulla sminuite dallo scarso seguito elettorale. Aristocratici del pensiero, si diceva una volta. Pochi ma buoni. Magari avanguardie che corrono a presidiare un crocevia della storia dove con molto ritardo transiteranno i partiti di massa col loro carico di vettovaglie. Sconfitte oggi ma vittoriose domani.
Ne abbiamo avute di queste minoranze elettriche, intense, spregiudicate, orgogliose del loro zero virgola, che sono il sale della democrazia.
Spesso guidate da personaggi intrattabili come potevano essere ad esempio Ugo La Malfa o Marco Pannella, o i liberali alla Mario Pannunzio, o gli eretici del «Manifesto», capaci di puntare i piedi sulle scelte di fondo, disposti a pagare qualunque prezzo pur di testimoniare un principio, a incassare ogni affronto e proprio per questo rispettati dagli avversari, addirittura rimpianti (dopo morti)
I piccoli partiti invece rappresentano idee trascurabili; sfruttano mediocri rendite di posizione; sgomitano per raccogliere qualche briciola, scroccare là dove possono.
Più infime sono le percentuali elettorali, più insopportabili risultano le loro pretese. Quando esagerano vengono bollati come parassiti.
Da Palmiro Togliatti fino a Silvio Berlusconi, i leader di massa li hanno sempre vissuti come una calamità , salvo tenerseli buoni con qualche tozzo di pane finchè possibile.
E qui sorge attualissima la domanda: in quale categoria rientra Italia Viva, che in piena pandemia minaccia di far cadere il governo? Tra i partiti piccoli da trattare con rispetto o tra i piccoli partiti di cui si farebbe volentieri a meno? L’aut-aut di Renzi al premier, «se non mi dai retta ti rimando a casa», merita di essere catalogato tra le battaglie nobili o tra i volgari ricatti?
Nelle sue pubbliche dichiarazioni (ultima l’intervista a Maria Teresa Meli sul «Corriere» di venerdì), il senatore di Rignano pone problemi reali. Contesta Conte sul Recovery Fund; ha ragione da vendere che non se n’è mai discusso davanti al paese e sarebbe grave che il premier considerasse quei 209 miliardi come roba sua da spendere come gli pare.
Renzi abolirebbe il semaforo delle zone rosse gialle e arancione, riaprirebbe da domani le scuole, spenderebbe senza esitazione i denari del Mes per rimpolpare la Sanità allo stremo: tutte questioni, comunque le si voglia giudicare, degne di un partito intenzionato a svolgere un grande ruolo nonostante i sondaggi gli riconoscano il 3 per cento e alle ultime Regionali abbia raggranellato il 3,5 in Toscana, dove pure giocava in casa.
Tuttavia Renzi si è macchiato di un peccato d’origine: prima ancora di obiettare sul Recovery, sul Mes e sul resto, è andato da Conte a sollecitare un rimpasto. Lui stesso se n’è vantato in giro. Ha avuto cioè la sfrontatezza o l’ingenuità di porre una questione che facilmente poteva essere equivocata.
Difatti Conte l’ha subito intesa come richiesta di posti. Come se Italia Viva non si sentisse abbastanza rappresentata a tavola, nel «magna magna» dei 209 miliardi europei da destinare a ministeri aziende lobby categorie enti locali e amici degli amici. Col risultato inevitabile di svilire il senso di una battaglia forse sacrosanta, ma da condurre invertendo i fattori: prima i contenuti e dopo, semmai, le poltrone, non viceversa. Così invece sembra che Renzi si sia ricordato del Mes e del resto soltanto dopo essere stato snobbato dal premier sul rimpasto.
Poi se c’è uno che, da capo del governo, accentrava peggio di Conte, quel qualcuno è proprio l’ex premier. Sospettoso come nessun altro. Supportato a Palazzo Chigi da un «Giglio magico» di pochi sodali. Insofferente dei vincoli di partito compreso quello con il Pd, di cui era peraltro segretario e dove comandava a bacchetta.
Abbagliato dal 40 per cento che ottenne alle Europee, dunque portato a liquidare i critici come fastidiosissimi gufi.
Colmo dell’ironia, adesso è Renzi a guidare la riscossa del partitismo contro un presidente del Consiglio a sua volta inebriato dal consenso, che vorrebbe fare e disfare di testa sua.
Ed è proprio Matteo a minacciarlo con gli stessi argomenti che avrebbe sfoderato l’Udeur di Clemente Mastella o il Psdi di Pietro Longo. L’eterno ritorno del sempre uguale.
(da “Huffingtonpost”)
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