PRESIDENTE DRAGHI, SI DIMOSTRI “IL MIGLIORE”: REVOCHI I FINANZIAMENTI AGLI AGUZZINI LIBICI
L’ITALIA PAGA I CARCERIERI NON PER LIBERARE GLI OSTAGGI, MA PER TENERLI PRIGIONIERI
“Due fratellini, 12 anni lei, 10 lui, rinchiusi da mesi in quei capannoni senza un raggio di luce, a fare la fame, a dividersi un boccone di pane duro e un goccio d’acqua, in condizioni igieniche e sanitarie terribili. E soprattutto soli, spaventati, con l’assoluta incognita del loro futuro. Mi hanno chiesto aiuto, volevano uscire, ma soprattutto mettersi in contatto con quel che restava della loro famiglia. Anche solo per sentire una voce amica, per convincersi di non essere davvero soli ad affrontare tutto questo”.
A raccontarlo, nella bella intervista di Alessandra Ziniti di Repubblica, è Bianca Benvenuti, responsabile degli Affari umanitari di Medici senza frontiere, che in Libia ha lavorato negli ultimi due mesi.
“Loro — prosegue Benvenuti – mi hanno raccontato che venivano dal Mali, i loro genitori erano stati uccisi ed una zia li aveva presi e caricati d’imperio sul cassone di un camion con altri ragazzi che stavano per partire verso la Libia. Non so poi come sono finiti lì dentro ma so che in quei capannoni di bambini come loro, totalmente soli sotto i 14 anni, ce ne sono centinaia. Molti sono arrivati in Libia da soli, molti hanno perso i familiari con cui viaggiavano prima di arrivare in Libia, ma ne ho visti anche molti che erano riusciti ad imbarcarsi, magari con la mamma o con il papà poi morti durante un naufragio e loro, che si sono salvati, finiscono in quell’orrore. Credetemi, è una cosa terribile. Bisogna tirarli fuori di lì, noi come team medico facciamo quello che possiamo, le agenzie dell’Onu, Unhcr e Oim, cercano di individuare all’interno dei centri le persone più fragili e tutelarle, i bambini innanzitutto, ma la situazione in Libia è terribile. E tra la guerra e il Covid, i corridoi umanitari sono stati quasi del tutto sospesi”.
Cartoline dall’inferno libico
Questa è la realtà dei lager libici. A cui si aggiunge quella dei disperati in mare. Almeno 750 persone nella sola giornata di ieri era in mare, in fuga dall’inferno libico A lanciare l’allarme è AlarmPhone. Ma questa umanità disperata, senza voce nè diritti, non sembra avere ascolto neanche nel “Governo dei migliore” guidato da Mario Draghi.
Le condizioni di vita all’interno di quei lager sono ormai conosciute: grave sovraffollamento, carenza di cibo, igiene inesistente, mancanza di accesso alle cure mediche, nonchè segnalazioni di abusi, lavoro forzato e sparizioni misteriose di persone
Solitamente, quando un’imbarcazione viene intercettata, i migranti a bordo vengono sbarcati in uno dei punti sulla costa, quindi le compagnie di autobus private convenzionate con il Dipartimento del ministero degli Interni li trasportano nei centri di detenzione.
Nella maggior parte dei casi, i migranti vengono inviati nelle strutture situate nello stesso territorio delle milizie che li hanno intercettati.
I trafficanti, i contrabbandieri, gli stessi funzionari militari attendono con ansia gli arrivi. Essi, infatti, comprano i migranti come fossero merci, soprattutto quando credono che saranno in grado di realizzare un profitto attraverso l’estorsione o la vendita dei richiedenti asilo ad altri centri o contrabbandieri.
A questo procedimento standard se ne sta aggiungendo un altro. Secondo quanto pubblicato da un’inchiesta di New Humanitarian, più della metà delle 6.200 persone intercettate in mare e rimpatriate in Libia quest’anno non si trovano nei centri ufficiali. Dove sono? Probabilmente sono stati trasferiti in strutture “non ufficiali” gestite da milizie affiliate al ministero degli Interni libico. Un nuovo allarme è, quindi, scattato.
Si tratterebbe, infatti, di non specificati edifici di raccolta dati, nei quali probabilmente vengono smistate le persone da destinare al traffico di essere umani. Nessuno può accedervi.
Le testimonianze su cosa accade realmente ai migranti intercettati (in mare ma anche lungo le rotte via terra) e portati in Libia sono eloquenti per capire cosa sta succedendo — ancora adesso — nella nazione nordafricana. A darne conto è un report di vociglobali.it.
Yasser (nome di fantasia) è un sudanese fuggito a 33 anni dalle violenze del suo villaggio sui monti Nuba. Imbarcatosi per l’Europa in Libia, il suo gommone è stato intercettato dalla Guardia Costiera e portato indietro. Da qui, è iniziato il suo calvario per la sopravvivenza. Con un pullman è stato portato in un centro. Lui e gli altri uomini sono stati subito vittime di estorsione. È stato ordinato loro di pagare un riscatto di 3.000 dinari libici per la libertà . Ai detenuti è stato detto di chiamare le famiglie e chiedere i soldi. Coloro che non potevano pagare restavano al centro, picchiati e sottoposti a torture, fino a quando non venivano venduti per una somma inferiore a un’altra milizia, che avrebbe cercato di estorcerli per un riscatto più piccolo pur di guadagnare.
Questa è la sorte che è toccata anche a Yasser, che dopo mesi si è ritrovato in un’altra prigione, “trattato come un animale”, secondo le sue parole. È riuscito a scappare solo mesi dopo, a causa di un bombardamento che ha colpito il centro. Ora vive in una struttura con altri richiedenti asilo sudanesi nella città costiera libica di Zawiya. Il suo destino resta appeso a un filo.
Sono tante le storie simili a quella di Yasser. Un uomo eritreo ha raccontato con queste parole la sua permanenza in un centro di detenzione dal 2017 al 2019: “Sono stato trattenuto in un centro di detenzione in Libia. Così tante persone sono malate, la maggior parte ha la tubercolosi. Non sono disponibili cure mediche. Abbiamo visto persone morire ogni giorno. Almeno due o tre ogni giorno. [Le milizie] hanno preso alcune persone, almeno 50 e hanno detto che le avrebbero portate via per il trattamento medico… ma non sono mai tornate. Non sappiamo se sono vive o no. Le persone non hanno accesso alla luce solare o all’aria fresca. Io, non ho visto l’aria aperta per due anni. Le mie sorelle sono ancora lì. Mi fa male dentro.
Un diciannovenne richiedente asilo proveniente da un Paese dell’Africa occidentale, è stato salvato da un peschereccio spagnolo insieme a 11 persone. Era il 2018, lui era partito dalla Libia e successivamente sbarcato in Spagna. Così ha raccontato:
“Sono stato tenuto prigioniero più volte da quando ho lasciato il mio Paese, sono stato rinchiuso in una stanza, senza cibo nè acqua per giorni; nessuno ti dice perchè sei detenuto….ci hanno fermato nel deserto e la loro intenzione era di ucciderci ma puoi morire nel deserto, puoi morire in Libia, puoi morire nel mare.
Drammatica è anche la storia di Abdi (nome di fantasia) somalo, fuggito dal suo Paese a causa delle minacce dei terroristi di al.Shabaab solo per aver fatto commenti contro i jihadisti in un bar. Quando il gommone che viaggiava verso l’Europa ha iniziato a riempirsi d’acqua, è stato salvato dalla Guardia Costiera libica. Il salvataggio si è quindi rivelato una condanna a morte. È iniziata la sofferenza dell’uomo, passato nelle mani di un contrabbandiere all’altro, estorto con raccapricciante violenza.
Abdi è rimasto chiuso in un edificio libico per due mesi, picchiato e per due volte finito sotto shock, finchè sua madre non è riuscita a trasferire denaro a un intermediario.
È stato venduto a un altro contrabbandiere, ha lavorato in una fattoria in condizioni di schiavitù, ha visto morire i suoi compagni di fame e di malattia, ha raccolto escrementi, ha pagato ulteriori somme di denaro per poi finire in un centro di detenzione a Tajoura. Qui è diventato, nuovamente, uno schiavo, costretto a lavare le armi con il gasolio, per le milizie che combattevano nella guerra che intanto divampava nel Paese. Solo grazie al caos dei bombardamenti è riuscito a scappare e a lasciare la Libia.
Vite senza più dignità continuano a perire in Libia, nella piena compiacenza delle potenze del mondo.
Nawal Soufi, giovane attivista marocchina che vive in Sicilia, ha cercato di far capire con domande provocatorie il perchè i migranti non vogliono essere riportati in Libia: “Sai cosa significa mangiare un pezzo di pane in 24 ore e vedere un pezzo di formaggino come fosse oro? Ti è mai capitato di essere messo all’asta e venduto come uno schiavo? Ti è mai capitato di essere picchiato a sangue perchè chiedi l’intervento di un medico? Ti è mai capitato d’essere fucilato per colpa di uno sguardo di troppo?”.
Questa è la realtà , inumana, dei lager libici.
“C’è chi paga migliaia di dollari per salire su un gommone, chi fugge, chi viene liberato ma la percentuale di quelli che vengono riportati nei centri di detenzione è molto alta e l’Europa non può consentirlo — dice ancora la responsabile degli Affari umanitari di Medici senza frontiere ad Alessandra Ziniti -. Abbiamo detto dei bambini soli, ma ci sono centinaia di neonati e bimbi piccolissimi con le loro mamme, spesso stuprate, e ci sono migliaia di ragazzi tra i 14 e i 17 anni. Subiscono l’indicibile e quando hanno la possibilità di incontrare operatori umanitari i loro occhi parlano da soli: prima della libertà chiedono di poter dare notizie alle loro famiglie che magari li credono morti. Sono dei sepolti vivi e piuttosto che rimanere lì o essere riportati indietro sono pronti a morire in mare”.
Scrive Paolo Lambruschi, inviato di Avvenire: “Nessuno interviene e continuano le cronache dell’orrore da Bani Walid, unanimente considerato il più crudele luogo di tortura della Libia. Un altro detenuto eritreo è morto qui negli ultimi giorni per le torture inferte con bastone, coltello e scariche elettriche perchè non poteva pagare. In tutto fanno sei morti in due mesi. Stavolta non siamo riusciti a conoscere le sue generalità e a dargli almeno dignità nella morte. Quando si apre la connessione con l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio di un messaggio foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la testa o incolpando addirittura le vittime.
‘Mangiamo un pane al giorno e uno alla sera, beviamo un bicchiere d’acqua sporca a testa. Non ci sono bagni’, scrive uno di loro in un inglese stentato. ‘Fate in fretta, aiutateci, siamo allo stremo’, prosegue. Il gruppo dei 66 prigionieri eritrei che da mesi è nelle mani dei trafficanti libici si è ridotto a 60 persone stipate nel gruppo di capannoni che formano il mega centro di detenzione in campagna nel quartiere di Tasni al Harbi, alla periferia della città della tribù dei Warfalla, situata nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli. Lager di proprietà dei trafficanti, inaccessibile all’Unhcr in un crocevia delle rotte migratorie da sud (Sebha) ed est (Kufra) per raggiungere la costa, dove quasi tutti i migranti in Libia si sono fermati e hanno pagato un riscatto per imbarcarsi. I sequestratori, ci hanno più volte confermato i rifugiati di Eritrea democratica contattati per primi dai connazionali prigionieri, li hanno comperati dal trafficante eritreo Abuselam ‘Ferensawi’, il francese, uno dei maggiori mercanti di carne umana in Libia oggi sparito probabilmente in Qatar per godersi i proventi dei suoi crimini.
Bani Walid, in base alle testimonianze raccolte anche dall’avvocato italiano stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un grande serbatoio di carne umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i prigionieri vengono separati per nazionalità .
Il prezzo del riscatto varia per provenienza e sta salendo in vista del conflitto. Gli africani del Corno valgono di più per i trafficanti perchè somali ed eritrei hanno spesso parenti in occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più perchè alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene catturato o di chi prolunga la permanenza per insolvenza e viene più volte rivenduto, sale. Il pagamento va effettuato via money transfer in Sudan o in Egitto.
Dunque — annota ancora Lambruschi – quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle autorità libiche, ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente. S
econdo le testimonianze di alcuni prigionieri addirittura i poliziotti libici in divisa entrano in alcune costruzioni a comprare detenuti africani per farli lavorare nei campi o nei cantieri come schiavi.
‘Le otto ragazze che sono con noi — prosegue il messaggio inviato dall’inferno da uno dei 60 prigionieri eritrei — vengono picchiate e violentate. Noi non usciamo per lavorare. I carcerieri sono tre e sono libici. Il capo si chiama Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo conosciamo solo il soprannome: Satana’. Da altre testimonianze risulta che il boia sia in realtà egiziano e abbia anche un altro nome, Abdellah. Avrebbe assassinato molti detenuti”.
Denuncia Emma Bonino, leader storica radicale, già ministra degli Esteri e Commissario europeo, oggi senatrice di +Europa: “L’Italia ha pagato un prezzo per fermare con ogni mezzo, anche il più disumano, i flussi nel Mediterraneo. Non so se l’Italia è mandante. Sicuramente è pagante: è il bancomat di queste operazioni insopportabili e lo fa scegliendo interlocutori che, come tanti casi di cronaca hanno dimostrato, erano i rappresentanti di organizzazioni criminali, compreso il famoso Bija, che se ne va in giro per l’Italia e pare che nessuno ne sappia niente”.
E aggiunge: “A me sembra che l’Italia continui a pagare una sorta di riscatto all’incontrario: paga i carcerieri, non per liberare gli ostaggi, ma per tenerli prigionieri, facendo finta di non sapere, mentre invece lo sa e lo fa. Quei soldi — sottolinea Bonino — finiscono dritti diritti a ai carcerieri dei lager libici solo per toglierci un problema”.
L’articolo è del 4 gennaio 2020. Un anno e un mese dopo, l’inferno in terra è ancora così.
Questo scempio di vite e di diritti avviene anche grazie ai finanziamenti che l’Italia continua ad assegnare a quell’associazione a delinquere chiamata “Guardia costiera libica”. Non è un mistero che i boss del traffico di esseri umani e i comandanti della Guardia costiera che dovrebbero stroncarlo siano spesso le stesse persone.
E allora, presidente Draghi, si dimostri il “migliore”: revochi i finanziamenti della vergogna.
(da Globalist)
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