RAPPORTO ANTIGONE: “MENO REATI, PIU’ PERSONE IN CELLA”
IL NUMERO DEI DETENUTI AUMENTATO DI 1500 UNITA’ IN SEI MESI ORA E’ A QUOTA 56.436 PERSONE… REATI IN COSTANTE DIMINUIZIONE
I conti non tornano. Diminuiscono i reati, in Italia, eppure continuano ad infittirsi le file delle persone in carcere.
In sei mesi, infatti, il numero dei detenuti dei 190 istituti penitenziari della penisola è aumentato di 1.500 unità , arrivando a toccare la quota di 56.436.
E mentre il calcolo dei detenuti continua a crescere, tra il 2014 e il 2015 si registra il 10,6% in meno di rapine e il 15% in meno di omicidi volontari; calano anche le violenze sessuali (-6%), furti (-6,9%) e l’usura (-7,4%).
Questo è il primo dato che emerge da Torna il carcere, il XIII rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone.
“Con l’avvicinarsi delle elezioni il tema della sicurezza, pur non trovando alcun fondamento reale nei dati, fa sempre presa sull’opinione pubblica — spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone — e sta spingendo ad aumentare la forza repressiva verso le aree più marginali della società ”.
In altre parole, dalla fotografia sembra che il numero dei carcerati aumenti all’aumentare della percezione del crimine, e non come conseguenza di un’impennata reale dei reati
Come si legge sul report, infatti, negli ultimi decenni il calo di alcuni reati è stato impressionante.
Nel 1991 gli omicidi sono stati 1.916, a fronte dei 397 del 2016, eppure i detenuti nel 1991 erano 31mila.
“Dunque si ammazzava cinque volte di piuÌ€, ma si finiva in galera due volte di meno — continua Antigone — Non si era ossessionati dalla sicurezza”.
Sotto i nostri occhi, invece, secondo l’associazione, sta ripartendo una campagna sulla sicurezza “che evita accuratamente di fondarsi su dati — si legge sul rapporto Torna il carcere — ma si appella alla percezione di insicurezza, adottando un rinnovato atteggiamento repressivo nei confronti soprattutto di persone che vivono ai margini della societaÌ€”.
Cambia anche la popolazione delle carceri italiane, dove troviamo sempre più carcerati con condanne brevi o in custodia cautelare.
Dati alla mano, aumentano i detenuti con condanne inferiori ai tre anni (da 23,7% a 24,3%) e diminuiscono le condanne superiore ai dieci (dal 28,9% al 28,6%).
“Il carcere non ha più quel ruolo di extrema ratio che dovrebbe essere nel suo spirito”, continua Susanna Marietti.
Un meccanismo perverso che secondo Antigone emerge anche dall’altissimo numero di detenuti in custodia cautelare, un carcerato su tre (34,6%).
L’Italia, infatti, guarda ancora da lontano la media europea di detenuti in attesa di sentenza definitiva (22%), posizionandosi come il quinto paese dell’Ue con il più alto tasso di carcerati a cui è applicata questa misura.
“Il ricorso alla custodia cautelare eÌ€ selettivo e ingiusto — racconta il rapporto — giaccheÌ riguarda soprattutto i detenuti piuÌ€ vulnerabili come gli stranieri”.
Non a caso, un detenuto su tre non è italiano; una percentuale in lieve aumento rispetto al 2015 (passando dal 33,2% del 2015 al 34,1% di aprile 2017).
Scelte che si trasformano in soldi dei contribuenti, visto che dal 1992 a oggi l’Italia ha speso 648 milioni di euro per risarcire ingiuste detenzioni cautelari, 42 milioni solo nel 2016.
Ma per quali motivi si finisce in carcere?
Un reato su quattro è contro il patrimonio, il 17,8% contro la persona mentre il 15% sono reati legati a violazioni delle normativa sulle droghe.
Anche gli stranieri si contraddistinguono sopratutto per reati contro il patrimonio e contro la legge sulle droghe.
Tuttavia, superano gli italiani per i reati connessi alla prostituzione (77% del totale) e alla legge sugli stranieri (92,1% del totale).
“Come dimostrano i reati di cui vengono accusati — si legge sul report — la devianza degli stranieri è strettamente connessa a fattori economici, il che conferma il legame tra situazione di irregolaritaÌ€ e facilitaÌ€ di accesso al circuito penitenziario”.
Questa la fotografia che Antigone fa della popolazione carceraria non italiana, costituita soprattutto da marocchini (18,2%), romeni (14,1%), albanesi (13,6%) e tunisini (10,5%).
Inumani e degradanti.
La Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2013 aveva già messo in guardia contro i trattamenti subiti dai alcuni detenuti delle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione (sentenza Torreggiani).
“La carcerazione — avevano stabilito i giudici di Strasburgo — non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione”.
Eppure dietro le sbarre si continua a morire. Sono stati 45 i suicidi in carcere nel corso del 2016, spesso avvenuti dopo la detenzione in celle di isolamento.
Come è successo a Youssef Mouchine, 30enne che si è tolto la vita a ottobre 2016 nel carcere di Paola (provincia di Cosenza) dopo essersi lamentato di maltrattamenti e delle notti passate sul pavimento di una cella “liscia”.
Lo stesso è accaduto a un 25enne del carcere di Siracusa che a inizio 2016 si è tolto la vita mentre era ristretto in una cella in attesa di giudizio. Un elenco che non sembra fermarsi, visto che nei primi mesi di quest’anno si sono registrati già 19 suicidi nelle carceri italiane.
Dopo la sentenza della Corte europea, che aveva dichiarato illegale il sistema detentivo italiano, l’Italia aveva messo in atto una manovra per aumentare le misure alternative e ridurre la pressione repressiva sulla popolazione penale.
Tuttavia, la condanna dei giudici di Strasburgo si sta sempre più ingiallendo all’interno di un sistema gestito all’89,3% da poliziotti penitenziari e solo al 2% da educatori.
“L’attenzione sul problema del sovraffollamento carcerario è calata — racconta Susanna Marietti — ora che gli occhi dell’Europa non sono più puntati sull’Italia”. Senza sentire il peso della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e con l’avvicinarsi delle elezioni, chiude Antigone, si sta tornando “a un uso distorto del carcere”. Dove si continua ad essere reclusi senza condanna, avere pochi medici e psicologi, lanciare denunce di abusi e, in alcuni casi, anche a morire.
(da “La Repubblica”)
Leave a Reply