SALVINI E DI MAIO, I DUE VINCITORI SONO GIA’ INVECCHIATI
CHI AVEVA VOTATO PER IL CAMBIAMENTO SI RITROVA NELLA CRISI DEI VETI E DELLE MANOVRE
L’incarico lampo a Maria Elisabetta Alberti Casellati, il secondo a una donna a più di trent’anni di distanza dal primo a Nilde Iotti, presidente della Camera spedita a esplorare dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, testimonia la disponibilità di Sergio Mattarella di sperimentare strade inedite, purchè se ne presentasse l’opportunità .
Il risultato consegna l’immagine di un invecchiamento precoce della XVIII legislatura repubblicana e dei vincitori del 4 marzo, Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Com’è stato evidente al cronista che si è affacciato nelle aule parlamentari durante il dibattito sull’intervento anglo-franco-americano in Siria.
Un’aula pesta, dal color sabbia della pioggia di questi giorni.
Sui banchi del governo, la vecchia squadra mai andata a casa, transitata da un Parlamento all’altro. Con molti ministri caduti della battaglia elettorale che portavano addosso le ferite della Waterloo democratica.
Massimo De Vincenti (non eletto) con le mani a tormentarsi il volto, Giuliano Poletti affaccendato e smarrito, Gianluca Galletti con le mani sul banco, Marco Minniti impietrito, Roberta Pinotti consapevole, Andrea Orlando diligente.
E poi Marianna Madia e Beatrice Lorenzin, il sottosegretario Enzo Amendola, non più deputato, e Maria Elena Boschi
E i seggi del Pd ristretti, maschilizzati, con intere file occupate da soli uomini (Graziano Delrio, Piero Fassino, Maurizio Martina), in alto la pattuglia degli iper-renziani romani, Luciano Nobili, Michele Anzaldi, Filippo Sensi.
In mezzo, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, a parlare di Siria, Iran, Usa e Russia, Germania, Francia e Europa, a braccio, senza appunti, muovendosi da padrone assoluto della materia, appariva un sopravvissuto, qualcuno che sarà in seguito rimpianto, parlava della crisi internazionale: «L’Italia non è un paese che si cambia l’alleato di volta in volta», a proposito della fedeltà atlantica che è una «scelta di campo, la nostra scelta di campo», e non varia «da Nixon a Kennedy, da Bush a Clinton a Obama» e a Trump, ovviamente. «Io, in questa vicenda, di ragionevolezza ne ho vista ben poca…».
Gentiloni parlava di Siria e delle sue alleanze mobili, le astuzie di Assad, i voltafaccia di Trump, la smania di grandeur del piccolo Macron, e i piani di Erdogan, i tripli giochi dei sauditi, la guerra-ombra di Israele e Iran.
Ma più andava avanti, il presidente del Consiglio, più sembrava riferirsi alla crisi di casa nostra. «Non c’è ricostruzione senza transizione», ha sospirato a un certo punto. E noi qui siamo, nel momento più difficile e pericoloso, nella transizione.
In una terra di mezzo e di nessuno: dove il governo vecchio non è ancora scomparso e il governo nuovo non si è ancora visto.
Si capiva dalle incertezze degli applausi. Timidi e riservati soltanto all’oratore del gruppo di appartenenza. Con un centro-destra unito sotto le bandiere dell’unico leader riconosciuto da tutti, si direbbe: nè Berlusconi nè Salvini, ma Vladimir Putin.
«La Russia è parte della nostra storia, è inaccettabile questa russofobia degna dell’Ottocento!», tuonava Guglielmo Picchi della Lega, già deputato-peone di Forza Italia.
Giorgia Meloni attaccava «gli interessi geo-politici» degli alleati, l’Europa «presente solo quando si tratta di fare bullismo sulle popolazioni dell’Aquila», Forza Italia faceva intervenire Valentino Valentini, l’interprete in russo di Berlusconi negli incontri con Putin (ma una volta raccontò che traduce l’ex spia sovietica dal tedesco), unico testimone dei mille incontri riservati tra il Cavaliere e lo Zar.
E in tutto questo l’altro vincitore del 4 marzo, il partito del Cambiamento, il Movimento 5 Stelle, si rifugiava nel politichese, salvo ripetere un mantra speranzoso: «Questo Paese ha bisogno di un nuovo esecutivo».
Sì, ma quale? I vincitori del 4 marzo, M5S e Lega, quelli che si sono auto-proclamati così, sono finiti nella palude dei veti incrociati. Non hanno i numeri per fare la maggioranza, effetto avvelenato ma previsto della legge elettorale Rosatellum.
I perdenti, Forza Italia di Silvio Berlusconi e il Pd di Matteo Renzi, possono esercitare il ruolo: da fare interdizione contro soluzioni che li escludano, come ha consigliato Gianni Letta all’uomo di Arcore fino a questo momento, a rinchiudersi in una posizione di opposizione, come ha imposto il dimissionario Renzi al Pd, in attesa degli eventi. L’incarico alla Casellati è la conferma dell’impasse.
La coppia dei vincitori sembrava destinata a conquistare tutto: presidenti delle Camere, nuovo governo, Csm, Rai.
Sembrava, perchè era un’illusione ottica motivata dall’immobilismo del Pd e dalla caduta libera dei commensali di Palazzo Grazioli.
Si attendono le elezioni regionali. Si aspetta che succeda qualcosa nel campo avversario, una strategia più alla Kutuzov che alla Napoleone.
Ma intanto, per una eterogenesi dei fini, sono costretti ad avanzare nel campo nemico, finire nel rischio del trappolone che avevano organizzato per i loro avversari.
E in questa avanzata sono costretti ad assumere le vesti, le movenze, gli argomenti del sistema che hanno proclamato di voler sostituire.
La metamorfosi è evidente nel caso del Movimento 5 Stelle. E non riguarda soltanto la miracolosa trasmutazione del programma elettorale rivelata dal “Foglio”, dai toni anti-Nato alla ben più moderata richiesta di un «adeguamento dell’Alleanza Atlantica (Nato) al nuovo contesto multilaterale», su cui tutti possono convenire, e al tentativo di difendersi richiamando questioni di impostazione grafica.
Non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi, in realtà . Quarant’anni fa, e più, il Partito comunista guidato da Enrico Berlinguer firmò una mozione parlamentare con gli altri partiti che definiva la Nato «termine fondamentale di riferimento» della politica estera italiana.
Un voto esaltato da Ugo La Malfa, da Giulio Andreotti e da Aldo Moro, un atto ufficiale del Parlamento che contava molto di più di qualche acrobazia verbale o tipografica in un programma elettorale, ma era il passaggio con cui il Pci, nato dalla rivoluzione sovietica e incasellato nello schieramento opposto all’Occidente guidato da Mosca, accettava di inserirsi nell’area del sistema come premessa fondamentale per aspirare a un ruolo di governo.
Così Di Maio si sta dando da fare per rassicurare cancellerie internazionali, gerarchie militari, presidenza della Repubblica, fino a compiere in poche settimane un percorso di conversione spettacolare.
Se qualcuno chiedesse oggi qual è il partito che più di ogni altro in Parlamento rappresenta la visione del Quirinale, il trasversale partito del Presidente che sempre si manifesta soprattutto nelle situazioni di crisi, la conclusione paradossale sarebbe che quel partito esiste ma non è il Pd, indocile e riottoso a farsi trascinare sulle strade indicate dal Colle che portano a uscire dalla posizione dell’Aventino, quel partito è il Movimento 5 Stelle, pronto a tutto pur di non perdere l’istante, il momentum che porta Di Maio a Palazzo Chigi.
M5S si muove anche su fronti meno visibili.
Su quello dei poteri economici, per esempio. Con argomenti che suonano familiari ai vertici delle aziende partecipate dallo Stato (Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica): una difesa sovranista degli interessi nazionali, che passa anche per la fine della stagione delle privatizzazioni, ma anche per una blindatura delle aziende rispetto alle inchieste della magistratura.
Discorsi simili a quelli che vanno facendo gli uomini di Salvini. E per M5S è un’altra svolta.
Un percorso simile lo sta compiendo la Lega con un gioco di squadra che vede Salvini irrompere nelle linee avversarie (ovvero nell’elettorato di Forza Italia) e Giancarlo Giorgetti esercitare una regia rassicurante per mondi internazionali e economici .
Così la Lega mette in campo la sua natura anfibia di partito-movimento, solido e tetragono, organizzato come un esercito, chiuso a testuggine, ma anche agile nella manovra e capace di trasformarsi senza perdere pezzi per strada, nè di elettorato nè di identità .
E M5S, specularmente, è un movimento-partito, magmatico, con una classe dirigente che si fa e si disfa come sabbia nel deserto, e al tempo stesso è guidato dal centralismo della Casaleggio e della piattaforma Rousseau, i detentori del potere che possono operare ogni svolta e ogni trasformazione, senza pagare un prezzo elettorale o contestazioni dei militanti, almeno per ora.
Dopo il tentativo della presidente Casellati è arrivato il momento del cambio di marcia, operato con la mano invisibile del presidente Mattarella.
Che prevede l’accompagnamento del Movimento 5 Stelle fino alla rottura dell’ultimo tabù. Il cambio di alleanze, dalla Lega di Salvini, una prospettiva precocemente invecchiata, al giro con il Pd, a sua volta chiamato ad abbandonare l’opposizione a tutti i costi.
Il cambio di mentalità , che vale più di quattro parole corrette in un programma sconosciuto. E forse il cambio di candidato, dal capo politico Di Maio al nome istituzionale del presidente della Camera Roberto Fico. La disponibilità a mettere in gioco i voti, i talenti ricevuti. Uno vale uno, dicevano nel Movimento un tempo, quando contava solo Beppe Grillo e gli altri erano inter-scambiabili. Ora M5S deve testimoniare la validità di quell’antico assioma. Perchè altrimenti il governo del Cambiamento finirebbe per assomigliare al trasformismo di sempre.
(da “L’Espresso”)
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