SALVINI NON HA I PIENI POTERI NEMMENO NEL CENTRODESTRA
L’ACCORDO SULLE REGIONALI SEGNA IL DECLINO DEL LEADER DELLA LEGA… NON HA UNA CAMPAGNA DA FARE NE’ UNA EVENTUALE VITTORIA DA FESTEGGIARE… E I NOMI CERTIFICANO IL SUO FALLIMENTO AL SUD
È la fine del centrodestra dei “pieni poteri” e del “citofono”, simbolo della caccia all’uomo che risultò fatale per Salvini alle elezioni dell’Emilia-Romagna: l’idea di un uomo solo al comando, in grado di imporre agli altri qualunque candidato perchè in fondo si vota per lui, insomma, il plebiscito populista, sognando la spallata al governo.
Ecco, l’accordo raggiunto dal centrodestra per l’election day di settembre chiude questa fase. E segna un altro tratto del declino di Salvini, perchè, anche in caso di vittoria del centrodestra, non sarebbe una “sua” vittoria, ma al massimo dei suoi alleati e dunque “anche sua”.
Insomma, è cambiato lo schema. Anche con la fantasia più fervida è complicato immaginare il leader della Lega impegnato, con lo stessa passione profusa al Pilastro, in una campagna elettorale al fianco di Raffaele Fitto in Puglia o di Stefano Caldoro in Campania, candidati che non voleva ma che, alla fine, ha dovuto accettare, altro segno che i rapporti di forza sono cambiati.
Se dovesse vincere Fitto, i titoli del 21 settembre saranno sul suo “grande ritorno” con le foto della Meloni accanto, quelli su Zaia, senza foto di altri, registreranno un prevedibile plebiscito, col corollario di deduzioni sulla sua leadership, in verità già iniziate: l’altro volto della Lega, la Lega pragmatica contrapposta alla Lega sovranista, di governo, attenta alle ragioni dei produttori e del Nord eccetera eccetera. Nessuno titolerà “ha vinto Salvini”.
È per questo che, fino alla fine, il leader della Lega ha provato a impossessarsi di una regione del Sud, nella consapevolezza che un’elezione siffatta non rappresenta nè una rivincita politica nè una battaglia in grado di coinvolgerlo “moralmente”.
Nè la Toscana, dove sarà candidata la Susanna Ceccardi può essere un palcoscenico sostitutivo essendo, a meno di eventi clamorosi, la cronaca di una sconfitta annunciata. Con un occhio agli equilibri interni questo assetto di candidature è una vittoria di Giorgia Meloni, che candida Francesco Acquaroli nelle Marche e Fitto in Puglia, pretendendo quel rispetto degli accordi siglati ai tempi proprio dell’Emilia.
Allora, Salvini pur di avere la Bergonzoni sognando la spallata, promise che dalle Marche in giù non avrebbe avuto pretese. Adamantino esempio di come si può rimanere vittima delle proprie macchinazioni.
La questione più di fondo, che non riguarda il potere interno, però è altra.
Caldoro è alla sua terza candidatura. Nel 2010 fu eletto presidente, proprio contro De Luca, alla guida di una coalizione trainata dal Pdl, senza la Lega che a quei tempi non si presentava al Sud. Nel 2015, sempre contro De Luca, perse. Ora la terza, sfida simbolo di una inamovibilità del potere del Mezzogiorno e della tendenza feudale delle leadership locali.
Fitto, già governatore in quota Forza Italia nel 2010, perse con Vendola nel 2005, ma ha mantenuto sempre un forte radicamento. Il suo ritorno non è una novità , ma è già una vittoria morale: pressochè cacciato da Berlusconi quando ne sfidò la monarchia, osteggiato da Salvini che ha provato financo a candidare uno dei tanti giovami che Fitto, come si suol dire, ha fatto crescere, adesso i sondaggi che indicano che è una candidatura che può vincere.
Parliamoci chiaro, i nomi certificano un gigantesco problema di classe dirigente di Salvini al Sud, che è mancato lì dove la Lega sovranista e nazionale aveva scommesso. In Calabria non ha sfondato, anzi perse dieci punti rispetto alle Europee risultando il terzo partito, in Campania, di fronte all’afflusso di personaggi chiacchierati legati al mondo che fu di Nicola Cosentino ha dovuto spedire come commissario l’ex sottosegretario all’Interno Nicola Molteni e non ha inciso nella scelta del candidato, in Puglia lo stesso ceto politico buono per tutte le stagioni, dopo aver occhieggiato alla Lega, si è schierato con Fitto quando ha capito che può vincere.
Per Roma non c’è una sola idea, mentre il mondo che conta — le imprese, le professioni, il mondo del civismo – già punta sul Pd dopo gli anni del disastro Raggi. Quello che emerge è il limite dello schema populista e del “partito del leader”, che prescinde dal tema della selezione e della costruzione della classe dirigente.
Il che vale a livello locale, col ritorno di figure già note di altri partiti ma anche al livello nazionale.
Non è questione all’ordine del giorno, perchè non si vota per le politiche, ma semmai dovesse accadere anche in questo caso un blocco politico che esprime il 40 per cento e passa di consensi non ha una squadra pronta a governare il paese, come accadde, ad esempio nel 2008: da Tremonti a Maroni, da Sacconi a Frattini a Ronchi.
Più volte in questi anni il Sud, il cui voto è diventato volatile dopo la fine della grande spesa pubblica e, con essa, di una rete di consenso organizzato, è stato anticipatore di fenomeni e linee di tendenza nazionali.
Nel Sud partì e poi declinò il renzismo, nel Sud iniziò prima l’onda e poi la risacca dei Cinque stelle, nel Sud, dopo la valanga alle europee e alle amministrative dello scorso anno, sembra già essersi arrestata l’espansione leghista, intesa come plebiscito.
Forse sta anche qui la ragione di queste candidature, nel venir meno di una certa forza d’urto. Se uno non ha candidati forti, non ha neanche la forza di imporli.
(da “Huffingtronpost”)
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