“SCARSO RENDIMENTO? SI TORNA IN MANO AI GIUDICI”
INTERVISTA AL GIUSLAVORISTA DELL’ARINGA: “COSI’ C’E’ IL RISCHIO CHE L’AZIENDA FACCIA SCELTE DISCREZIONALI”
«Sì, ho letto. Il governo vuole escludere il reintegro per i licenziamenti legati allo scarso rendimento del lavoratore. Mi permetto di manifestare qualche dubbio».
Carlo Dell’Aringa non è solo un deputato del Pd.
Insegna Economia politica alla Cattolica di Milano, è stato tra gli estensori del «libro Bianco» che portò alla Legge Biagi, nel governo Letta ha fatto il sottosegretario al Lavoro, nel governo Monti era arrivato ad un passo dalla poltrona di ministro. Insomma, è uno dei nomi più illustri nel ristretto club dei giuslavoristi che in queste ore sezionano le notizie in arrivo dal fronte del Jobs act .
Quali sono i suoi dubbi professore?
«Tutto dipende da cosa si intende per scarso rendimento. Può essere oggettivo, cioè non dipendere dalla volontà del lavoratore ma dalle nuove mansioni che deve svolgere in caso di innovazioni organizzative o tecniche».
Facciamo un esempio?
«L’azienda compra un macchinario nuovo e naturalmente vuole che lo si faccia funzionare per bene. Ma il dipendente non ci riesce proprio, non basta nemmeno uno specifico corso di formazione. Se per scarso rendimento si intende questo già adesso la prassi e la giurisprudenza prevedono che possa dar luogo a un licenziamento di tipo economico. In sostanza non cambierebbe molto, si preciserebbe meglio una fattispecie già coltivata nella prassi».
Ma per scarso rendimento si può intendere anche il poco impegno del lavoratore.
«Ecco, il punto è questo. Se si fa riferimento allo scarso impegno ma anche alla cattiva volontà o alla negligenza del lavoratore, la modifica del governo diventa impropria. Qui il motivo non sarebbe più oggettivo ma soggettivo: insomma si rientra nel campo dei licenziamenti disciplinari che, anche con le nuove regole scritte dal governo Renzi, prevedono in alcuni casi il reintegro».
Par di capire che il governo voglia intendere lo scarso rendimento in senso oggettivo. Insomma, lo scarso impegno non c’entrerebbe.
«Me lo auguro, altrimenti si finirebbe per complicare le cose. Poi non ci si può lamentare se i giudici sbagliano».
Quasi tutti i sindacati hanno protestato dopo l’incontro a Palazzo Chigi: solo linee generali, nessun dettaglio, la sensazione che i giochi siano già fatti. Da ex uomo di governo, hanno ragione loro?
«Li capisco. Un atteggiamento del genere sarebbe giustificato solo se il governo non avesse le idee chiare su cosa fare. Ma non mi sembra questo il caso. La materia va discussa e affrontata davvero, altrimenti questi incontri rischiano di essere percepiti come una presa in giro».
Da esperto, le pare possibile che le nuove regole sui licenziamenti valgano solo per i nuovi assunti mentre per tutti gli altri no? Il problema dell’Italia non è anche la distinzione fra lavoratori giovani non garantiti e anziani più garantiti?
«Se il mondo del lavoro si abituerà a queste nuove norme sarà inevitabile estenderle a tutti nel giro di qualche anno. Il doppio regime può reggere nella fase transitoria ma non può durare 10 o 15 anni».
E secondo lei ci abitueremo a fare a meno dell’articolo 18?
«Ci siamo abituati alla scomparsa della scala mobile. Ci abitueremo anche a questo».
Entro il 2020, quindi, il Jobs Act sarà valido per tutti?
(Ride )«Questo lo dice lei, ma certo non dovremo aspettare il 2030».
Lorenzo Salvia
(da “il Corriere della Sera”)
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