SU NAVALNY L’EUROPA NON PUO’ RESTARE INERTE
IN RUSSIA DOPO 20 ANNI DI SOVRANISMO PUTINIANO LA SOCIETA’ SI RIBELLA
È sempre bene distinguere un fuoco di paglia da un incendio, sono due cose diverse. Cautela e realismo di fronte alle dimensioni e alla complessità della Russia possono indurre a valutare le manifestazioni di sabato a sostegno di Alexey Navalny come un corollario fisiologico del braccio di ferro in corso da tempo tra l’attivista politico e il sistema di potere russo.
Per alcuni, le proteste, pur imponenti per partecipazione e diffusione sul territorio nazionale, sono certo espressione di malcontento, ma non suscettibili di provocare un incendio fuori controllo.
Meglio tener presenti i limiti della cosiddetta società civile, pensano, senza sottovalutare la forza degli apparati e la storica capacità di assorbimento della Russia. Sicchè nel posizionamento sulla vicenda Navalny e sui suoi sviluppi, quegli stessi osservatori non vanno al di là della felpata visione di uno status quo in sostanza immutabile. Argomenti per certi versi plausibili, tuttavia a questo punto occorre aggiungere qualcosa.
Navalny sta dimostrando grande coraggio personale e coerenza d’intenti. Sa che non avrebbe potuto continuare la battaglia contro la corruzione del potere, nelle sale dorate del Cremlino, negli ingranaggi del sistema economico e nei bastioni della sicurezza, se fosse rimasto esule all’estero.
Il suo posto è in Russia e, con tutti i rischi, forse la sua sfida potrà essere rilanciata meglio dalla prigione. La guerra d’attrito potrebbe essere lunga oppure spegnersi a poco a poco, come sembra avvenire in Bielorussia.
Anche Vladimir Putin è coerente. A lungo non ha nemmeno nominato Navalny, per delegittimarlo anche con il linguaggio. Non lo imbarazza il tentativo di eliminazione fisica dell’oppositore, nega l’evidenza e ironizza con arroganza sulle capacità dei suoi servizi (“se fossimo stati noi, l’avremmo ucciso”).
È coerente, nel segno della forza e del suo uso spregiudicato, dentro e fuori dei confini, vecchio antidoto contro novità temute. Anche piccole concessioni sarebbero viste come cedimenti imposti da debolezza, che da secoli è un incubo fatale nell’esercizio del potere a quelle latitudini. Ci vogliono invece la forza e la minaccia, per mostrarle a chi deve essere governato nell’ordine assoluto e a chi è sempre sospettato di trame oscure ai danni della Russia.
Ora la gente scende in piazza a Mosca, San Pietroburgo e in molte altre città , grida contro la corruzione e per la libertà , non teme la repressione. Tremilatrecento arresti non sono un fatto da poco. Dopo venti anni di nazional-putinismo si muove un embrione di società che cerca un cambio di passo. E se qualcuno pensava di emulare il modello cinese, ampi margini di tolleranza in economia accanto a un ferreo controllo politico, si sarà dovuto ricredere: l’equazione non funziona in un sistema produttivo ancora troppo poco agile e spesso in affanno.
Intanto la solidarietà agli oppositori coraggiosi, che rivendicano diritti e trasparenza, non dovrebbe essere rituale. L’Europa comunità di diritto non può restare inerte quando sono princìpi fondamentali a essere sotto scacco. Vale anche per la Russia, non solo per la Cina, l’Egitto o l’Arabia Saudita.
Se davvero vogliono assicurare all’Europa il ruolo che merita, i suoi dirigenti non devono temere di far sentire la propria voce. Le garanzie sui diritti sono un prezioso capitale comune degli europei. Non deve essere velleitario l’auspicio che essi sappiano trovare una sintesi credibile tra sensibilità e interessi diversi.
Oggi a Bruxelles i ministri degli Esteri Ue parleranno anche di Russia. Se insieme confermassero con chiarezza l’attenzione per quel che si muove nelle città del Paese, sarebbe un bel segnale dopo le parole semplici ma solenni di Joe Biden sulla democrazia.
(da “Huffingtonpost”)
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