SUD SUDAN TRA I PROFUGHI IN FUGA DAI MASSACRI ETNICI
A SEI ANNI DALL’INDIPENDENZA IL PAESE E’ DEVASTATO DAL CONFLITTO… A JUBA L’UNICA SALVEZZA E’ ANDARE NEL CAMPO DELL’ONU…100.000 PERSONE PROSSIME ALLA MORTE PER FAME
Una volta dentro il campo di sfollati della capitale del Sud Sudan, sorvegliato a vista dai caschi blu delle Nazioni Unite, le possibilità di sopravvivenza per Peter, un giovane di 21 anni, aumentano all’istante.
Vita o morte sono divise da un lungo perimetro di filo spinato.
Da una parte l’impunità delle strade polverose della capitale Juba. Dall’altra un fazzoletto di terra dove vivono 40 mila persone scappate da una guerra civile che dal 2013 a oggi ha causato 100 mila vittime e 3,5 milioni di sfollati (stime Onu). I più fortunati, circa 1,5 milioni, hanno trovato rifugio in Uganda, Etiopia e Kenya; mentre oltre 2 milioni sono ancora prigionieri del proprio Paese, il più giovane del mondo, nato nel 2011 e già in frantumi.
L’incubo della guerra
Peter, scappato nel cuore della notte dalla sua casa di Yei, 150 chilometri dalla capitale, da due anni vive barricato in quello che le Nazioni Unite hanno ribattezzato Campo di protezione per i civili. Il primo nella storia delle operazioni di pace Onu, che mai aveva dato mandato ai caschi blu di trasformare un campo di sfollati interni in base militare.
Torri di avvistamento, sacchi di sabbia e check point ogni chilometro. A presidiarli si alternano militari nepalesi e cinesi, uomini e donne, parte dei 17 mila soldati di Unmiss, la missione di pace dell’Onu in Sud Sudan.
Peter è uno dei pochi coraggiosi che a volte esce dal campo, per respirare l’illusione di una vita normale.
Ma dura poco, il tempo di una passeggiata senza inciampare nei picchetti delle tende ammassate all’interno di quella che molti ormai definiscono casa.
I soldati governativi del Spla (Sudan People Liberation Army), in mimetica e basco rosso pattugliano le strade al di fuori della base Onu. Fedeli al presidente del Paese Salva Kiir, la maggior parte di loro condivide con il capo di Stato l’etnia d’origine, quella Dinka, maggioritaria in Sud Sudan. E per Peter, di etnia Nuer, la principale tra le minoranze, i rischi aumentano. «Non capisco perchè devo vivere rinchiuso qui dentro solo per non essere Dinka, siamo tutti sud-sudanesi» si interroga Peter all’ingresso del campo.
Civili nel mirino
Sia le Nazioni Unite che il Center for civilians in conflict hanno pubblicato documenti in cui denunciano le violenze subite dai civili appena fuori dalla struttura: donne stuprate, uomini uccisi.
Lo scorso luglio, negli scontri che hanno sancito la fine del fragile accordo di pace del 2015 tra il presidente Kiir e il vicepresidente Machar, di etnia Nuer e ora confinato in Sudafrica, neanche i campi dei civili sotto protezione Onu sono stati risparmiati dai colpi di artiglieria.
Terminati i rigidi controlli di sicurezza per evitare che entrino armi all’interno del campo, Peter si dirige verso la sua tenda, fino a pochi mesi fa condivisa con la sorella 18enne, l’unico famigliare superstite e che adesso si è sposata con un ragazzo conosciuto nella capitale.
«Quella notte ho ricevuto una telefonata che mi avvisava: l’esercito stava cercando casa per casa gli uomini di etnia Nuer — ricorda l’inizio del suo incubo — sono scappato nella savana, ma era buio totale, non vedevo niente, sentivo solo il fischio dei proiettili sopra la mia testa».
«Nella fuga due membri dell’esercito mi hanno fermato. Ho detto che ero un civile, ma avevo paura che riconoscessero il mio accento e che per me fosse finita — spiega Peter — uno era Dinka, l’altro Kakwa (minoranza etnica musulmana, ndr). Quest’ultimo mi ha salvato la vita convincendo l’altro a lasciarmi andare».
Da allora è iniziato un calvario che l’ha portato prima nel Nord dell’Uganda, dove il numero di rifugiati sud-sudanesi ha toccato quota un milione e, poi, nel campo Onu a Juba, dove i 40 mila sfollati vivono grazie alle razioni di cibo distribuite dal World Food Programme.
La tenda dove vive Peter è circondata da altre famiglie scappate dal Nord del Paese, l’area più contesa per la presenza del petrolio, la cui gestione significa il controllo del Paese, dato che il 97% degli introiti nazionali derivano dal greggio. In questa regione, già duramente segnata da oltre 40 anni di guerra con il Sudan, gli scontri tra ribelli e governativi sono ancora più intensi. Un’area paludosa che ha reso più difficile la fuga dei civili.
Alcuni si sono nascosti per giorni negli acquitrini mangiando radici e provando a pescare pesci con le mani. Acque infestate da coccodrilli e ippopotami. Un rischio da prendere pur di evitare di cadere in mani nemiche.
La carestia
Una guerra che, oltre a vittime e sfollati, sta affamando 5 milioni di persone, metà della popolazione, con almeno 100 mila civili prossimi alla morte per fame (stime Onu). Un conflitto politico che rischia di trasformarsi sempre più in scontro etnico, dove non esiste una linea di demarcazione netta data le decine di etnie che popolano il Sud Sudan.
Dove la base si trova a subire il vertice, ma non a comprenderlo e il presente sembra cancellare tradizioni secolari. «Per noi Nuer incidere sei linee orizzontali (gaar) sulla nostra fronte era un simbolo di distinzione — spiega Nhial, un quarantenne vicino di tenda di Peter — ma adesso si è trasformato in una condanna perchè siamo facilmente riconoscibili».
A rendere ancora più pesante l’aria all’interno del campo di sfollati di Juba, il caldo torrido provocato dai riflessi del sole sui pezzi di lamiera usati per coprire gli squarci delle tende.
La stagione delle piogge è in ritardo, decine di bambini aspettano in coda il loro turno per riempire una tanica d’acqua. L’olezzo proveniente dalle latrine a cielo aperto è nauseabondo. «Il sovraffollamento rischia di far esplodere un’epidemia di colera come nel 2016» spiega la dottoressa Sadia Azam, a capo dell’ospedale realizzato dall’organizzazione umanitaria statunitense International Medical Corps all’interno del campo.
A pochi isolati di distanza, l’esercito ha ripreso a pattugliare le strade della capitale. Per gli stranieri rimasti, quasi tutti membri di ong e organizzazioni umanitarie, il coprifuoco è fissato per le 20,30.
Le vie di Juba, antitesi delle capitali africane, sono sempre più deserte. Oltre ai boda boda (moto taxi) si vedono le jeep bianche con la scritta delle Nazioni Unite che fanno la spola tra l’aeroporto e i compound blindati. Il carburante è razionato: massimo 20 litri a macchina e l’economia è al collasso. Il pound locale è scambiato 120 a un dollaro e le banche sono quasi prive di valuta straniera.
Ong sotto attacco
Appena fuori della capitale, nelle strade impervie che attraversano la savana verdeggiante, si intravedono giovani armati di kalashnikov a difesa del proprio bestiame, preso di mira dalle diverse fazioni in conflitto.
Le imboscate di milizie più o meno connesse al contesto politico nazionale sono sempre più frequenti. Servono soldi per armarsi e per mangiare. Spesso a pagare il prezzo più alto sono le ong. Dal 2013 ad oggi 83 cooperanti sono stati uccisi.
Dietro ai disperati tentativi per resuscitare i negoziati di pace non mancano le interferenze degli Stati africani e delle grandi potenze straniere interessate al petrolio, Stati Uniti e Cina in primis. Con l’amministrazione Trump pronta a staccare il supporto al presidente Kiir, aumentando così il rischio di una regionalizzazione del conflitto e di una deriva multietnica da cui sarebbe difficile uscire.
(da “La Stampa”)
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