WELFARE AL CONTRARIO: COSI’ LO STATO AIUTA PIU’ I RICCHI CHE I POVERI
PARADOSSO SPESE ASSISTENZA: AL 40% PIU’ POVERO DELLE FAMIGLIE VA MENO DI UN QUARTO DEL TOTALE
Tra i tanti paradossi della spesa pubblica italiana ce n’è uno particolarmente fastidioso, quello che vede la spesa assistenziale andare a favore più dei ricchi che dei poveri.
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lo sospettava già da economista, ma ora che ha una visione diretta dei dati ne ha avuto la conferma
Prendendo la spesa per prestazioni assistenziali gestita dall’Inps e legata anche a requisiti di reddito e suddividendo le famiglie che ne beneficiano in dieci decili secondo l’Isee (misura reddito e patrimonio) si osserva che essa va per meno di un quarto (il 23%, per la precisione) agli ultimi 4 decili, cioè al 40% delle famiglie più povere.
In particolare, solo il 4% della spesa va all’ultimo decile, mentre il 10% delle famiglie più ricche beneficia del 14% della spesa e al secondo decile dei più ricchi va, in proporzione, la fetta maggiore dell’assistenza, il 19%.
Insomma, un terzo della spesa si rivolge al 20% più ricco.
La spesa
Il totale delle uscite considerate vale circa 20 miliardi l’anno, di cui la metà per le integrazioni delle pensioni al minimo, quasi 5 miliardi per pensioni e assegni sociali e il resto per maggiorazioni varie delle pensioni, sempre legate al reddito.
Ma allora come è possibile che la spesa si addensi verso i decili di famiglie più ricche?
Per due ragioni.
La prima è che una parte delle prestazioni in pagamento sono ancora quelle liquidate quando i requisiti di reddito non erano previsti dalle norme o erano meno severi.
Per esempio, l’integrazione al minimo, che lo Stato dà a 3,5 milioni di pensionati che hanno meno di 15 anni di contributi versati e non raggiungono l’importo minimo fissato per legge ogni anno (502,38 euro al mese nel 2015), fino al 1983 era concessa indipendentemente dal reddito e dall’83 al 1992 sulla base dei redditi del solo pensionato, mentre solo dal 1992 si considera anche quello del coniuge.
La seconda ragione che spiega il paradosso è che un conto è considerare come requisito per la prestazione il solo reddito Irpef, come si fa ora, un altro l’Isee, che include anche la ricchezza patrimoniale immobiliare e mobiliare (conti correnti, depositi, titoli, azioni e altri investimenti finanziari) e il possesso di veicoli e che lo fa non solo per il beneficiario, ma anche per il coniuge e i figli, cioè per tutti i tutti i componenti del nucleo familiare.
Il metodo
È evidente che se si applicasse l’Isee, soprattutto quello riformato nel 2013 che è abbastanza sofisticato e può contare sull’incrocio delle banche dati, non solo si scoverebbero più facilmente prestazioni erogate a evasori fiscali, ma si potrebbe anche risparmiare qualche miliardo di euro all’anno che oggi va a famiglie che non hanno bisogno di assistenza.
Un’operazione che potrebbe servire alla spending review, la revisione della spesa pubblica, oppure a finanziare l’introduzione del Reis, il reddito di inclusione sociale, contro la povertà , ma che si scontra col tema dei cosiddetti diritti acquisiti. Altri risparmi sarebbero possibili se l’Isee si applicasse anche ad altre voci importanti di spesa, come per esempio l’indennità di accompagnamento per gli invalidi totali non autosufficienti (13,6 miliardi nel 2014 per circa 2 milioni di persone) e che sono state sempre slegate dal reddito.
Ma quest’ultimo, come è facilmente intuibile, è un capitolo ancora più difficile da toccare.
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera”)
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