Maggio 15th, 2012 Riccardo Fucile
SECONDO LA CORTE DEI CONTI E’ LA PRODUTTIVITA’ IN CALO E CRITICA L’INTESA SUGLI STATALI…IL VERO PROBLEMA E’ L’EFFICIENZA E LA MANCANZA DI MERITOCRAZIA
Se si misura il costo degli stipendi pubblici in rapporto ai cittadini, noi italiani spendiamo decisamente più dei tedeschi: 2.849 euro
ciascuno, contro 2.830 euro in Germania. Ovvio.
Meno ovvio, forse, che la nostra spesa procapite sia superiore anche a quella di Grecia (2.436) e Spagna (2.708).
Va detto che ci sono Paesi anche più generosi dell’Italia. Per esempio il Regno Unito (3.118) e l’Olanda (3.557).
Per non parlare della Francia (4.001), dove peraltro dovrebbe salire quest’anno ancora di 4 miliardi.
Il vero problema non è però il livello della spesa, peraltro perfettamente allineato alla media europea dell’11,1% del Prodotto interno lordo (anche se di ben 3,2 punti superiore alla Germania dove in dieci anni è calato dello 0,3% mentre da noi è salito dello 0,6%).
Piuttosto, la sua efficienza, e qui sta il vero problema della pubblica amministrazione made in Italy.
Lo dice senza mezzi termini un rapporto della Corte dei conti: «In un contesto caratterizzato dalla perdita di competitività del sistema Italia preoccupanti segnali riguardano la produttività del settore pubblico».
In quella relazione appena sfornata dalla magistratura presieduta da Luigi Giampaolino c’è un grafico che mostra come proprio la produttività , cresciuta nel 2010 di oltre il 2%, sia tornata lo scorso anno a zero, ricominciando nel 2012 perfino a scendere «in linea con le stime dell’andamento del Pil».
Dunque, il costo del lavoro per unità di prodotto riprende a salire.
Di chi la colpa? L’assenza della meritocrazia.
La relazione spiega che il blocco della contrattazione deciso nel 2010 per tamponare le spese ha «comportato il rinvio delle norme più significative in materia di valutazione del merito individuale e dell’impegno dei dipendenti contenute nel decreto legislativo n. 150 del 2009».
Ma ha pure «impedito l’avvio del nuovo modello di relazioni sindacali delineato nell’intesa del 30 aprile 2009 maggiormente orientato a una effettiva correlazione tra l’erogazione di trattamenti accessori e il recupero di efficienza delle amministrazioni».
Musica per le orecchie dell’ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, artefice di quella operazione.
Mentre il successore Filippo Patroni Griffi, che era stato anche capo di gabinetto dello stesso Brunetta, non ha resistito: «Premiare i migliori e aumentare la produttività sono le nostre priorità . Bisogna metterle in pratica».
Anche se i magistrati non ne sembrano proprio convinti, a giudicare dalle «perplessità » sul «contenuto della recente intesa fra Governo, Regioni, Province, Comuni e sindacati» manifestate nel rapporto.
La Corte dei conti dice che quell’accordo, «azzerando il percorso» della riforma Brunetta, rischia di lasciare tutto com’è: consentendo cioè che nel pubblico impiego si privilegi la «distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali».
Intanto però gli effetti del giro di vite deciso un paio d’anni fa si sono fatti sentire, eccome.
Basta dire che per la prima volta, da quando è stata introdotta una specie di «privatizzazione» del rapporto di lavoro, il costo del personale pubblico nel 2010 è diminuito.
Esattamente dell’1,5%, per un esborso complessivo di 152,2 miliardi.
Niente di eclatante, ma per un Paese come l’Italia è un fatto storico.
I dipendenti pubblici a fine 2010 erano 3 milioni 458.857. Ovvero, 67.174 in meno rispetto a un anno prima.
Si è sforbiciato dappertutto, con un paio di eccezioni. Come le solite Regioni e Province a statuto speciale, che neppure nel 2010 hanno voluto rinunciare ad accrescere gli organici: anche in un comparto come la scuola.
Mentre nel resto d’Italia il personale scolastico diminuiva di circa 32 mila dipendenti, negli istituti di Trento e Bolzano si gonfiava di 441 unità .
E poi c’è Palazzo Chigi.
Nell’ annus horribilis del pubblico impiego, mentre scattava quel giro di vite senza precedenti, era l’unico posto dove paghe e dipendenti continuavano ad aumentare a ritmi forsennati.
Alla presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2010, si spendevano per gli stipendi al personale 198 milioni e 700 mila euro: l’11,2% in più in un solo anno.
Depurando la cifra degli arretrati, si arriva addirittura al 15,5%.
Semplicemente pazzesco l’aumento dell’esborso per le retribuzioni dirigenziali, cresciuto del 20%. Con punte astronomiche del 35,5% e del 57% rispettivamente per i dirigenti di prima e seconda fascia a tempo determinato.
Il tutto mentre anche il numero dei cedolini saliva senza sosta.
Alla fine dell’anno raggiungeva le 2.543 unità con un aumento del 7%, che toccava l’8,9% considerando il solo personale non dirigente.
Motivo, la stabilizzazione di ben 142 precari.
Com’è possibile che questo sia accaduto nonostante il blocco delle buste paga di tutti i dipendenti pubblici?
Elementare: «Incrementando gli addetti della Protezione civile ed estendendo l’applicazione dei contratti collettivi del comparto al personale trasferito alla presidenza del Consiglio», fra cui «gli addetti alla segreteria tecnica del Cipe» e quelli «in servizio presso il dipartimento del Turismo e dello sport», spiega la relazione della Corte dei conti.
Nella quale si sottolinea come nel 2010 siano state finalmente considerate in quella voce di spesa anche le retribuzioni dei collaboratori dei politici, estranei alla pubblica amministrazione.
Il dato di quanti fossero nel penultimo anno del governo di Silvio Berlusconi non è conosciuto: nè il rapporto rivela il numero dei dipendenti presi «in prestito» da altri uffici pubblici.
Specificando però che questi, “pur in flessione», continuano «a rappresentare oltre il 40% del personale in servizio».
Se questo è vero, nella miriade di uffici della presidenza del Consiglio disseminati per Roma lavorano non meno di 4.500 persone.
Più o meno quante ne mancano nella pubblica amministrazione a causa dei permessi e dei distacchi sindacali.
Rielaborando i dati della Funzione pubblica, la Corte dei conti giunge a questa conclusione: «la fruizione di aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili e distacchi relativamente al 2010 può essere stimata come l’equivalente all’assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di 4.569 unità , pari a un dipendente ogni 550 in servizio».
Con un costo «a carico dell’erario» pari a 151 milioni.
E «al netto degli oneri riflessi».
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera”)
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Maggio 15th, 2012 Riccardo Fucile
DALLO IOR A MOKBEL ECCO PERCHà‰ LA BANDA È VIVA…”DELLE NOSTRE MANOVRE TRA MAFIA E SERVIZI IL PCI ALLORA SAPEVA TUTTO”
“Io non sono buono, sò un figlio de na mignotta”. I capelli bianchi, gli occhi neri, due fessure protette dagli occhiali. La biografia criminale di uno dei capi della Banda della Magliana riversata su nastro in un pomeriggio marchigiano di caldo, cicale e confessioni.
Jesi è un silenzio. Un ordine irreale.
Antonio Mancini, l’accattone, ci vive da 16 anni. Ai tempi in cui divideva proventi, cocaina e azioni, Mancini sfiorava l’eresia.
Leggeva Pasolini, prendeva la mira parafrasando Mohammed Alì: “Bumayè”, regolava conti, dominava Roma: “Ero un drizzatorti. Conquistavo zone, esigevo crediti, punivo gli insolventi. A San Basilio i nomi delle strade erano paesi delle Marche. Quando me sò pentito mi è venuto spontaneo indicà uno di quei posti”.
Integrazione completata. Oggi Mancini è un uomo libero. Quindici anni di carcere. Condanne scontate. Nessuna pendenza. È seduto a casa sua.
Immagini di Che Guevara, volumi di Marx, Bibbie, Vangeli. Da un computer le notizie sul ritrovamento dei resti di De Pedis a Sant’Apollinare.
Di altre ossa: “Non sono di Emanuela Orlandi e tutta l’operazione è fumo negli occhi. Domani si potrà urlare «visto che il Vaticano non c’entra nulla?». Perchè non hanno aperto prima? Troppo champagne ubriaca e qualcuno, anche tra gli inquirenti, ha riempito i bicchieri fino all’orlo”.
Nel tempo libero, quando i demoni di un passato incancellabile non tornano a fargli visita, Mancini aiuta i disabili. Loro non sanno. E lo adorano.
“Un giorno vidi passare un pulmino pieno di ragazzini. Salutavano. Andai da Sebastianelli, il commissario di Polizia del luogo e lo pregai: ‘Mi dia una possibilità , sarei felice di fare il buffone per loro’. Lui garantì per me e adesso, quell’impegno è diventata la ragione della mia vita”. L’accento romano è imbastardito. I ricordi lucidi. La rabbia ancora giovane.
“Sono anni che dico che la Magliana è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto”.
Quante persone ha ucciso, Mancini?
Con la “bandaccia” tante. Prima, quando operavo a Val Melaina, ancora di più. Ogni volta che dovevo ammazzà qualcuno io dicevo “lo mandamo a salutà Adriano”. Era come una parola d’ordine.
Chi era Adriano?
Mio padre. Comunista tutto d’uno pezzo. Me diceva sempre “addavenì baffone”. Sotto lo studio di Lucio Libertini, il deputato, aveva messo le radici. Libertini gli aveva promesso una casa popolare. Noi vivevamo in otto in due camere. Ma baffone non arrivava mai e mio padre è morto senza avere un tetto. E io guardavo quelli con il Rolex e la Ferrari e mi ripetevo: “Mejo dù anni ar gabbio che stà in due camere con sei creature”.
Quale è l’omicidio che le è più rimasto impresso?
Quello di Nicolino Selis. Lui temeva di finire ammazzato, ma riuscimmo a fissare un appuntamento in una villa di Ostia. Gli dissero che ero uscito dalla Banda, che mi ero messo in proprio. E lui cadde in trappola. Scavammo la buca e lo aspettammo. Mi trovò seduto su un divano ed ebbe il coraggio di scherzare: “Accattò, ma che finaccia hai fatto”. Io mi girai e risposi: “non sai la fine che stai a fa te”. Un secondo dopo, Abbatino tirò fuori la baiaffa da una scatola di cioccolatini e gli sparò in testa. Poi presero la mira anche gli altri.
Pentimenti?
Affrontavo le curve a 300 all’ora ed ero convinto che sarei morto a 30 anni. Ho risparmiato gente che avrebbe meritato di morire e ucciso fratelli che si fidavano di me.
E le sembra normale?
Un mio amico studioso di sciamanesimo sostiene che in fondo non sia successo niente. Il mio è solo un percorso di vita. A 12 anni volevo dominare il mondo. Quando la cavalcata epica si è trasformata in una pozzanghera di sangue, ho detto basta. La mia prima figlia era cresciuta senza un padre, non volevo che con la seconda accadesse lo stesso.
Uccideva per i soldi?
Sono stato miliardario, ma il denaro l’ho sempre disprezzato. I soldi li ho avuti ma me li sò magnati tutti. Adesso sono rovinato, dormo in uno spazio grande come una cabina telefonica. Ci siete, potete valutare.
Quanti metri quadri?
Metri? Centimetri. Sono stato io a chiedere al Comune di vivere qui in periferia. Neri, gialli, rossi. Gente che ti suona alle due di notte. “Che c’hai una birra?” Lo stagno mio.
Ieri nuotava nella criminalità .
Come Renatino De Pedis, di cui oggi si parla tanto. Con lui ruppi nel momento in cui fece uccidere Edoardo Toscano e fui contento quando l’ammazzarono. Toscano, l’operaietto, componente della banda, era un mio amico.
De Pedis non lo fu mai?
Non era più un bandito, si era imborghesito. Oggi sarebbe in Parlamento. Dalla nuova banda che si era creato tra Tor Pignattara e Marranella si faceva chiamare Presidente.
Lo pretendeva anche da voi?
Io gli sputavo in faccia. Era entrato in un giro strano con Massimo Carminati, un fascista che oggi fa i miliardi con i ristoranti.
Sabrina Minardi – l’ex compagna di De Pedis – dice che tutti sapevano che Renatino era l’uomo del Vaticano.
E del Cardinal Poletti. Renatino fu accompagnato in Vaticano da Enrico Nicoletti e Flavio Carboni. Di suo, De Pedis non sapeva “accucchià ” due parole in italiano. Ma era bello. Regale. Presentabile. Mi veniva a prendere la domenica, andavamo alla pasticceria Andreotti e poi al Bolognese. Quando parlava con il potente di turno o l’onorevole si inchinava. Io lo cazziavo e lui ribatteva: “Ah Nì, adesso mi inchino io, dopo si piegheranno loro”.
Che ruolo ebbe De Pedis nel rapimento Orlandi?
Guidò la macchina che servì al sequestro della ragazza. Il rapimento fu deciso da mafiosi e testaccini. C’erano soldi che non rientravano e la scelta era tra lasciare qualche cardinale a terra ai bordi della strada o colpire qualcuno che fosse vicino al Papa e che aveva rapporti economici con noi per marcare un segno. Scegliemmo la seconda strada.
Quanti soldi?
Più di duecento milioni di dollari che la banda aveva riciclato per lo Ior e che non aveva più rivisto dopo il crack dell’Ambrosiano. Io e Danilo Abbruciati nell’81 andammo a Milano, per incontrare gente del Banco legata a Calvi e alla P2. A portare a Wojtyla la foto scattata in piscina a Castelgandolfo in cui lui era circondato dalle suore fu Gelli in persona. Tutto era legato.
Abbruciati morì nell’82, ucciso da una guardia giurata dopo il fallito attentato a Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano.
La guardia giurata non sparò mai e subito dopo scomparve nel nulla. Abbruciati non era uno sprovveduto. Lo ammazzò lo Stato, perchè Danilo aveva visto troppo. Pensate che a Milano sarei dovuto andare io. Danilo si rifiutò: “Se viaggio io otteniamo più soldi”.
Perchè proprio la Orlandi?
Ve l’ho detto. Il padre di Emanuela non era un semplice messo. Era molto di più.
L’ha mai detto ai famigliari?
Quando vidi Natalina, la sorella di Emanuela, negli studi di Chi l’ha visto? le dissi esattamente così. D’altronde Nicola Cavaliere, un bravo poliziotto, inascoltato, lo disse subito. “La Orlandi è legata ai soldi della Magliana”. I giudici lo ignorarono, nessun magistrato voleva un carico del genere. Ora hanno detto che mi chiamerà l’Antimafia. Sto qui, vado, non mi nascondo. Non ho paura di niente.
Non ha perso l’arroganza dei tempi d’oro.
Non è questione di arroganza, ma di verità . Quando decisi di collaborare per la prima volta erano presenti Otello Lupacchini e il questore Fiorelli. Fui chiaro: “Volete il mio aiuto? Non vi ho cercato io. Se lo volete sappiate che smonterò una a una le bugie di Abbatino”. Rimasero sorpresi.
Il libro di De Cataldo?
Un bufalificio. In Romanzo criminale ha scritto che disprezzavo Pasolini dandogli del frocio. “A De Catà , io leggevo Pier Paolo quando tu ancora non eri nato”.
C’è chi sostiene che la Magliana fosse anche dietro al caso Moro.
Certo, fummo noi a trovare il covo di Via Montalcini. Selis lavorava anche per Raffaele Cutolo e passò la dritta a Franco Giuseppucci, detto “er negro”. Fu lui a portare la notizia a Flaminio Piccoli. Si incontrarono carbonari, sotto un ponte, vicino a Piazza Cavour. Le Br erano completamente eterodirette dai Servizi, infiltrate dallo Stato.
Qualche storico ritiene che Moro a Via Montalcini non sia stato mai.
E invece c’era. Poi non so se sia passato anche a Palazzo Caetani o a Palo Laziale, come alcuni suggeriscono. Venni a sapere che le lettere di Moro e i video degli interrogatori erano stati presi da una ex amante di Danilo Abbruciati. Un’ex partigiana al soldo del Mossad. Danilo sul sequestro dello statista Dc sapeva tanto.
Furono esponenti della Banda della Magliana a sparare a Moro?
Possibile. Non mi meraviglierebbe. Noi, la Mafia, il Vaticano, la politica. Nicoletti gestiva i nostri soldi e quelli di Andreotti, contemporaneamente. Il resto dell’arco costituzionale, a iniziare dall’esponente antiterrorismo più in vista del Pci, sapeva tutto. C’erano rapporti con i socialisti. Si parlava spesso di un siciliano, un pezzo grosso. Uno che avevamo tra le mani, cui potevamo rivolgerci senza troppi problemi e dare disposizioni.
A proposito di Andreotti. Mancini cosa sa del caso Pecorelli?
Tutto. L’abbiamo ucciso noi e i siciliani. De Pedis aveva la pistola con cui era stato ammazzato. A finirlo andarono in tre. Angelo La Barbera e Massimo Carminati.
Il terzo?
Non lo dico, è un mio amico. Quando mi interrogarono il nome lo feci, ma aggiunsi: “Se lo verbalizzate non firmo neanche sotto tortura”.
Un fascista?
Non attacca.
Il vostro referente mafioso a Roma?
Con Pippo Calò andavo a mangiare, ma non mi piaceva. Noi della banda pippavamo, quelli erano sempre in doppio petto. De Pedis dormiva a Villa Borghese in un appartamento dei servizi segreti, la coca stravolgeva molti ambiti. E la Magliana li controllava tutti. Facevamo riunioni con i vertici di Carabinieri e Polizia, con i servizi segreti, con chi ci avrebbe dovuto arrestare.
Frequentavate anche gente dello spettacolo?
L’attrice Gioia Scola stava sia con Paolo Berlusconi che con un amico mio. Quando andai a riferirlo in Procura, al nome di Paolo Berlusconi, il magistrato spense il registratore. Neanche Silvio, Paolo. Vi rendete conto? Sputtanare Gioia Scola andava benissimo, Paolo Berlusconi spaventava
Cosa sa della strage di Bologna?
Furono i fascisti manovrati dallo Stato. Forse gente intorno a Delle Chiaie, forse il gruppo di Massimiliano Fachini. Non Fioravanti e in ogni caso, qualcun altro della Banda intervenne in un secondo tempo allo scopo di depistare.
Chi Mancini?
Massimo Carminati. Un fascista che teorizzava l’ordine nel disordine. Anarcofascisti si facevano chiamare.
“Noi uccidiamo il potere” urlavano. Mortacci loro.
Ha le prove per dirlo?
Se sarò chiamato a fornirle, le darò.
Pensa mai alle vittime?
Se è per questo anche ai carnefici. Alla P2. Con Abbruciati che come Giuseppucci, con i servizi aveva rapporti solidi, andavo nell’ufficio di Ortolani in Via Bissolati. Incontravo Luigi Cavallo, che voleva ancora fare il golpe e diceva di essere amico di Sindona. Noi volevamo salvare Francis Turatello, tirarlo fuori dal carcere e ai nostri interlocutori milanesi dell’Ambrosiano e ai piduisti l’avevamo detto chiaramente: “Ci avete chiesto Pecorelli e Moro e noi abbiamo rispettato i patti. Adesso tocca a voi”.
Ma Turatello morì a Badu ‘e Carros nell’agosto 1981 in modo atroce.
Un dolore enorme. Dicono che l’abbia ucciso Pasquale Barra sventrandolo e mangiandogli il cuore, ma è una cazzata. Barra prese quattro schiaffi, gli esecutori furono altri e l’ordine di far fuori Francis lo diede Luciano Liggio in persona. Francis riceveva lettere dai politici. Lo chiamavano capo.
Per sparare ai fratelli Proietti nell’81, lei in Via di Donna Olimpia a Roma improvvisò un Far West.
Marcellone Colafigli era ossessionato dalla morte di Giuseppucci. Dormivamo nella stessa casa e a volte, di notte, si svegliava. “Nino, er negro è uscito dal televisore. Continua a ripete ‘na frase”. Allora io lo assecondavo. “Che frase?” E lui: “Ahò, ma nun me vendicate mai?”. Proietti era un ricattatore, bisognava farlo.
Impressiona sentirglielo dire.
Lo capisco, ma la mia vita non è stato un pranzo di gala. Ho incontrato infami e cornuti. Ho sparato, ucciso e sempre saputo che un colpo poteva ammazzare anche me. Quando te tocca te tocca, è inutile che ti guardi le spalle. Se arriva, arriva.
A De Pedis, nel ’90, arrivò.
De Pedis era un cacasotto. Avrebbe dovuto morire prima, durante una pausa del processo. Colafigli che non gli aveva perdonato l’omicidio di Edoardo Toscano fremeva. Aveva preparato il laccio nel furgone dei Carabinieri. Era livido: “Stamattina je tocca”. Lo fermai io. Fabiola Moretti, la mia ex compagna scrisse a Renatino: “Se te vuoi salvà mettite vicino a Nino”. Lui eseguì, spaventatissimo. E io lo sfottevo: “Stà buono, non sudà ”. Forse così scemo non ero.
Pazzo?
Quando dividevo l’abitazione con Pasquale Belsito, un neofascista, lo vedevo sempre giocare con le bombe a mano. Io e Colafigli pippati di cocaina come scimmie eravamo terrorizzati. Se essere pazzi assomiglia a un’esistenza così, sì, lo sono stato. Mi sono anche divertito. Con Abbruciati andavamo a donne. A volte, sul più bello, lo baciavo in bocca, così per creare un diversivo. Ve li immaginate due delinquentoni come noi impegnati a scandalizzare le ragazze?
La banda oggi?
Quando ho visto la foto di Mokbel (l’imprenditore romano che avrebbe supportato l’elezione al Senato di Nicola Di Girolamo, ndr) sul giornale mi è preso un colpo. Gennaro era il mio guardaspalle. Con Roberto D’Inzillo mi veniva a prendere in moto ogni mattina. Ha fatto sue le tecniche della banda, ma il più pericoloso, il vero capo di Roma, è un altro.
Chi?
Una nostra vecchia conoscenza uscita sempre indenne dai processi. Andate a controllare e troverete il nome.
Come Flavio Carboni all’epoca della Magliana?
Non fatemi ridere. Carboni era patetico. Si travestiva con tacchi e parrucchino e faceva affari con Berlusconi. La prima volta che lo vidi però provai un sollievo assoluto. Se questo è il famoso Carboni, su Roma e sull’Italia comanderemo per tutta la vita.
C’è una morale in tutto questo?
Ho sempre diffidato delle morali e non sarei comunque la persona più adatta. Forse però aveva ragione Domenico Sica, l’ex alto commissario antimafia. Era certo che la Banda fosse più potente di Cosa Nostra e dei Servizi messi insieme. Non credo avesse torto.
Rita Di Giovacchino e Malcom Pagani
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 15th, 2012 Riccardo Fucile
LA SFIDA PDL-PD, MENTRE LEGA E CINQUESTELLE CORRONO DA SOLI…LE INCOGNITE DI GENOVA E PALERMO…AL NORD IL PD PUNTA A RICONQUISTARE COMO E MONZA
Beppe Grillo ci spera e carica il suo candidato parmense Federico Pizzarotti, che al primo turno ha portato a casa un impensabile
19,47%.
Una vittoria del Movimento 5 stelle vorrebbe dire cambiare la geografia politica in Italia. Ma qualcosa è già cambiato e le alchimie strategiche di questa seconda tornata elettorale rendono l’idea di un quadro in forte movimento.
Il Pd si presenterà all’appuntamento con il ballottaggio in vantaggio, mentre il Pdl è in affanno.
E se l’Udc si schiera o con liste civiche o con il centrosinistra (in quattro città , mentre nella sola Isernia appoggia il Pdl), grillini e leghisti rifiutano apparentamenti e schieramenti, reclamando autonomia e diversità politica.
I risultati di Parma, Genova, Palermo, L’Aquila e degli altri capoluoghi di Provincia diranno anche dove andranno a finire i voti del centrodestra e se la nuova base grillina deciderà di astenersi o andrà alle urne, scegliendo uno dei due Poli.
Su 19 capoluoghi di Provincia, il Pdl è al ballottaggio solo in 8, mentre il Pd è arrivato al secondo turno in ben 17 Comuni (ed è in vantaggio in 13, come sottolinea il responsabile Enti locali Davide Zoggia).
Nei 101 ballottaggi, il centrosinistra è avanti in 82 Comuni.
Al Nord, Lega e Pdl sono in rotta e i democratici sperano di riconquistare, oltre alle piazze più importanti, Como e Monza.
Il Pdl non può contare sull’appoggio del Carroccio: Roberto Maroni ha infatti chiuso le porte a ogni ipotesi di apparentamento.
Quest’ultimo è il meccanismo elettorale che consente ai candidati sindaci di dichiarare il collegamento con altre liste rispetto a quelle del primo turno (liste che, in caso di vittoria, godrebbero del premio di maggioranza)
Apparentamenti a parte, il Pdl spera di convogliare ugualmente sui suoi candidati i voti dei militanti leghisti e centristi.
E, soprattutto, potrebbe decidere di arginare la vittoria del centrosinistra e l’emarginazione sul territorio, scegliendo di puntare sui centristi e sui grillini.
I quali, oltre che a Parma, potrebbero incassare i voti pdl anche a Garbagnate, dove il trentenne Matteo Afker è al ballottaggio con il candidato del Pd.
A Genova, per esempio, il Pdl potrebbe far convogliare i suoi voti su Enrico Musso (15 per cento), che deve provare a recuperare il forte svantaggio con il candidato del centrosinistra Marco Doria (48,31).
Difficile capire dove andranno a finire, invece, i voti del grillino Paolo Putti (13,86), considerato il diktat di Grillo, che esclude qualunque ipotesi di sostegno a liste diverse dalla sua.
Ampi settori del Pdl locale hanno già annunciato, inoltre, che appoggeranno Giorgio De Matteis, il centrista aquilano che sfida il sindaco uscente di centrosinistra Massimo Cialente.
Altra piazza dove i voti del Pdl dovranno trovare una destinazione, essendo rimasti fuori dal ballottaggio, è Palermo.
Qui c’è un Leoluca Orlando che ha sbaragliato tutti superando il 48 per cento.
A sfidarlo c’è Fabrizio Ferrandelli, vincitore delle primarie del centrosinistra, e rimasto solo, con l’appoggio formale del Pd (ma c’è una parte della base che ha votato e voterà Orlando). L’esponente dell’Italia dei Valori, e già sindaco di Palermo, ha incassato l’appoggio convinto dell’Udc, nella persona di Gianpiero D’Alia, presidente dei senatori dell’Udc e segretario regionale del partito.
Ma anche, a sorpresa, di alcuni esponenti del Pdl, come il presidente dell’Assemblea regionale siciliana, il pdl Francesco Cascio.
La sfida principale per il partito di Silvio Berlusconi e Angelino Alfano è recuperare l’altissima percentuale di astenuti: un terzo di chi ha disertato le urne votava centrodestra.
Solo così potrà minimizzare i danni e provare a vincere anche in alcune piazze lombarde strategiche, come Erba, Legnano, Melegnano e Magenta.
Alessandro Trocino
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Maggio 15th, 2012 Riccardo Fucile
STRADE PIENE DI BUCHE, SISTEMATE E DI NUOVO SMANTELLATE, PALAZZI INGABBIATI E NUOVI TRATTI AUTOSTRADALI REALIZZATI E MAI APERTI AL PUBBLICO
Lavori di ristrutturazione iniziati e mai conclusi, opere pubbliche da centinaia di migliaia di euro completate e lasciate in abbandono e strade che, periodicamente asfaltate, vengono riaperte a breve distanza di tempo per sistemare tubature e fogne.
L’Italia descritta dai lettori è una sorta di ‘fabbrica di San Pietro’, un infinito cantiere mangiasoldi in cui spesso ponteggi e gru vengono montati e lasciati arrugginire per anni.
Le opere pubbliche fantasma.
Ci sono lavori avviati da decenni e mai terminati, tratti autostradali progettati e che, probabilmente, non vedranno mai la luce, palazzi ristrutturati mai più utilizzati.
È un lungo elenco quello che viene fuori dalle segnalazioni dei lettori, esasperati dall’enorme spreco di denaro pubblico.
Ha aspettato più di trent’anni, ma ancora non vede la parola ‘fine’ scritta sul cantiere della diga nella zona di Valfabrica loc Val di Chiascio, vicino a Perugia.
“Circa 35/40 anni fa (allora ero un ragazzo ) – scrive Osvaldo – hanno iniziato a costruire una diga nella zona di Valfabrica. Dopo tutto questo tempo e continui fiumi di soldi pubblici ancora è tutto in alto mare, nel senso che dopo 40 anni non sono riusciti a completare nulla, mentre in Cina la diga delle Tre gole è stata fatta in dieci anni e sicuramente è enormemente più grande di questa ancora in costruzione”.
Fabio Pizzuto, invece, punta l’attenzione su opere mai neanche avviate: “Molise: autostrada fantasma Termoli-San Vittore.
Mai iniziata e progettata da qualche decennio – scrive – C’è una commissione che percepisce stipendio senza fare nulla stile ponte dello stretto di Messina”.
Sono, invece, perfettamente funzionanti due edifici a cui fa riferimento Erminio Pellegrini: “Comune di Casteggio (PV). Hanno costruito, da circa due anni, due strutture complete di tutto (anche pannelli solari ) – racconta – Sono lì vuote e abbandonate…”.
Strade come una groviera.
Come la tela di Penelope, non arrivano mai ad essere finite. Tantissime vie cittadine, piene di buche e con l’asfalto dissestato, vengono periodicamente sistemate. Ma spesso la necessità di ulteriori lavori richiede la riapertura dei cantieri.
Risultato: tante spese e il manto stradale ridotto peggio di prima.
Una prassi che, sostiene Antonio Ricci, si può constatare spesso a San Giorgio Ionico (Taranto): “Nel mio Comune, ogni volta che si rifanno i manti stradali, e io so quanto costano, inevitabilmente a distanza di pochi giorni o qualche settimana, il lavoro fatto viene smantellato per opere di fognatura, allacciamenti di gas metano, allacciamenti di acqua e quant’altro – racconta – Le aperture fatte vengono poi rappezzate alla meglio e le strade appaiono come prima del rifacimento del manto stradale e cioè in pessimo stato. Non vi dico poi cosa accade per gli impianti del fotovoltaico dove chilometri di strade vengono lasciate in completo dissesto. Mi chiedo cosa fanno gli uffici tecnici dei Comuni. Non c’è un minimo di programmazione”.
Al Nord come al Sud.
Mirella Mussini racconta: “Abito nel quartiere di Quezzi Alta di Genova e vorrei far notare lo spreco che fa il Comune per l’asfaltatura delle strade certamente non solo nel mio quartiere, ma ovunque. In sette mesi hanno asfaltato un pezzo di strada per ben due volte e per altrettante volte appena finita l’hanno bucata di nuovo”.
Gru e ponteggi.
Progetti presentati e approvati, impalcature montate e cantieri aperti. Poi, per anni, tutto fermo. Ma i soldi per l’affitto dei ponteggi e per i macchinari continuano ad essere pagati.
È questo quello che accade a Roma, stando alla segnalazione di Mario Meta: “Palazzo degli Esami in via Induno – scrive – è stato protetto da una recinzione di sicurezza in legno, a garanzia per il pubblico di passaggio. All’interno della recinzione il palazzo è stato tutto munito di ponteggi tubolari in acciaio, probabilmente per procedere alla ristrutturazione dell’edificio. Durante circa cinque anni è stata presente, montata in loco, anche un’enorme gru. Appare evidente che, nonostante i lavori non siano stati mai eseguiti, la gru è stata ‘a disposizione’, ma inutilizzata per cinque anni circa e il sistema di ponteggio è tuttora montato. Di certo il materiale di recinzione, la gru, ed infine il ponteggio, non sono di proprietà dello Stato, ma sono stati presi in affitto”.
(da “La Repubblica“)
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Maggio 15th, 2012 Riccardo Fucile
COME SI PAGHERA’ LA SANITA’: VERRA’ DATA UNA SMART CARD CHE RIVELA QUANTO SI E’ PAGATO FINO A QUEL MOMENTO: CIASCUNO VERSEREBBE DI TASCA PROPRIA FINO A UN CERTO LIVELLO, POI A CARICO DELLO STATO
Il sistema di compartecipazione o “copayment”, in vigore da più di trent’anni (fu introdotto con la Finanziaria del 1982), potrebbe
andare in pensione: scompariranno i ticket che oggi paghiamo su farmaci, visite specialistiche, analisi strumentali e di laboratorio, ricoveri al Pronto soccorso.
Il tutto attualmente per un costo per i cittadini di circa quattro miliardi all’anno che potrebbe salire a sei quando, nel 2014, entreranno in vigore le norme delle manovre estive dello scorso anno che prevedono un rincaro dei ticket per quasi due miliardi.
Scomparsi i ticket come si pagherà ?
Ciascuno di noi avrà una franchigia, calcolata in percentuale del reddito, fino al concorrere della quale dovrà pagare interamente ogni prestazione sanitaria, farmaco, analisi o intervento chirurgico.
Ad esempio, un pensionato con 10 mila euro di reddito lordo, avrà una franchigia pari al 3 per mille dunque 30 euro: questa cifra sarà il costo massimo che dovrà sborsare per accedere a qualsiasi prestazione sanitaria, pochi medicinali o un maxi intervento chirurgico.
Oltre questo plafond, sarà tutto gratuito.
Naturalmente chi ha un reddito lordo di 100 mila euro, come un professionista, avrà una franchigia più alta, circa di 300 euro: ciò significa che fino al raggiungimento di questa cifra, ad esempio, acquistando farmaci e sottoponendosi ad una visita specialistica, dovrà pagare tutto di tasca sua.
Sopra i 300 anche per lui sarà tutto gratis.
La franchigia varrà per l’arco degli ultimi dodici mesi: in questo periodo si esaurirà il ciclo di raggiungimento del plafond a pagamento e dell’accesso gratuito a tutte le prestazioni.
Dopo i dodici mesi si ricomincerà a pagare fino al proprio personale plafond e, una volta superato il livello, si accederà gratuitamente.
Chi terrà questa contabilità ? Una tessera sanitaria intelligente, dotata di chip come un bancomat, che sostituirà di qui ad un anno le attuali tessere.
Naturalmente parlare di contabilità ha un senso solo quando sono in ballo piccole prestazioni e pochi farmaci, quando c’è di mezzo un intervento chirurgico quello che conta è che si pagherà fino al raggiungimento del proprio plafond e il resto sarà a carico del Servizio sanitario.
Chi sarà soggetto al sistema della franchigia?
Praticamente tutti: scompariranno le esenzioni in base al reddito (ora 36 mila euro circa), l’età (bambini fino a sei anni e anziani oltre i 65), cronici e invalidi.
Tutti avranno una franchigia in base al reddito familiare complessivo.
Con due varianti: il reddito sarà valutato non solo in base all’Irpef, ma in base all’Isee (che tiene conto della consistenza patrimoniale) e moderato da una sorta di “quoziente familiare” che terrà conto del numero dei figli.
Il piano dovrà comunque passare al vaglio delle Regioni in vista del tavolo sul Patto per la salute.
Per ora le reazioni sono negative: “Ipotesi da scartare, colpirebbe tutti indistintamente, sarebbe la riedizione della tassa sulla salute degli Anni Novanta”, ha dichiarato Luca Coletto, coordinatore degli assessori regionali alla Sanità .
Il ministero della Salute assicura comunque che gli incassi del nuovo sistema a franchigia saranno pari a quelli con i vecchi ticket.
Roberto Petrini
(da “la Repubblica“)
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Maggio 15th, 2012 Riccardo Fucile
I COMUNI CHIEDONO DI ESCLUDERE DAL DEFICIT GLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE LOCALI
La sanità , perchè è qui che si concentra il grosso dei numeri. E le auto blu, perchè al di là dei costi, rappresentano il simbolo di quei privilegi difficili da sopportare in un tempo di sacrifici per tutti.
Si apre una settimana decisiva per la spending review e, spiegano fonti governative, dovrebbero essere queste le due priorità per la revisione della spesa pubblica.
Mentre il governo pensa a come tagliare i costi della macchina dello Stato, però, sale la protesta dei Comuni che vogliono utilizzare le risorse che hanno già e sono bloccate dal Patto di stabilità .
In questi giorni Bondi ha studiato il ruolo della Consip, la società per razionalizzare gli acquisti della pubblica amministrazione.
Ed ha potuto osservare che c’è un buco nelle regole che dovrebbero garantire il rispetto dei parametri di prezzo e qualità in tutte le gare pubbliche: il ritardo nella trasmissione dei dati.
Il prezzo d’acquisto viene comunicato spesso dopo mesi, quando ormai è impossibile intervenire.
Per questo è allo studio un meccanismo che consenta di incrociare subito il prezzo al quale un fornitore si è aggiudicato la gara con quello praticato dalla stessa Consip.
Con la possibilità di bloccare la fornitura in caso di scostamento non giustificato.
Ma i risparmi non dovrebbero arrivare solo dal lavoro di Bondi e Giarda.
Sempre per la sanità , ad esempio, si profila la chiusura e l’accorpamento di 11 mila strutture nelle otto Regioni che hanno i conti in rosso, come Piemonte e Lazio.
Se il lavoro sulla spesa pubblica è ancora lungo, sul fronte opposto il governo dovrà fronteggiare la crescente offensiva dei Comuni, che hanno i soldi, ma sono imbrigliati nella gabbia del Patto di Stabilità interno e non li possono spendere.
Una situazione che i sindaci, pronti a offrire al governo delle soluzioni per limitare l’impatto della maggior spesa sul deficit pubblico, definiscono assurda, e resa ancor più paradossale dalla nuova Imu.
I sindaci devono mettere la tassa, ma con il tetto del Patto, non possono spenderne il gettito per finanziare servizi o nuove opere pubbliche.
Nel 2012 la spesa massima che il Patto consente ai sindaci è di 5,9 miliardi di euro, ma potrebbe essere superiore di 3,5 miliardi di euro se i Comuni potessero utilizzare le risorse correnti disponibili senza aumentare le tasse.
E se si potessero toccare i residui passivi, cioè i fondi stanziati negli anni scorsi e giacenti in cassa ma non utilizzati, ci sarebbe una maggior capacità di spesa di altri 11 miliardi di euro. «Con un impatto solo “una tantum” sul bilancio pubblico, perchè – spiega Angelo Rughetti, segretario generale dell’Anci, l’associazione dei Comuni – non sarebbe un’uscita di carattere strutturale».
In tutto i sindaci avrebbero la possibilità di mobilitare 20 miliardi di euro solo quest’anno, che sarebbero utilissimi alla crescita dell’economia.
E anche se comprendono la situazione delicata dei conti pubblici italiani, non si scoraggiano.
Il 24 maggio saranno tutti a Venezia a manifestare contro l’Imu, ma puntano a un accordo con il governo per lo sblocco, almeno parziale, del Patto interno e la razionalizzazione della nuova imposta municipale.
E suggeriscono a Monti per l’Italia la «ricetta Monti» per l’Europa: la golden rule per escludere dal calcolo del deficit gli investimenti in un piano di infrastrutture per le grandi città , i project bond per finanziarle.
E la creazione di due fondi, da collocare sul mercato, che acquistino uno gli immobili, l’altro le società partecipate dai Comuni.
Lorenzo Salvia, Mario Sensini
(da “Il Corriere della Sera“)
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