Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
BOSSI RINUNCEREBBE A PRESENTARSI AL CONGRESSO E DIVENTEREBBE PRESIDENTE A VITA… MA FINO A LUNEDI NON VERRA’ MESSO NERO SU BIANCO E TUTTO PUO’ ANCORA SUCCEDERE
Ci vuol pazienza, come per la “Devolution”, il Federalismo e la Padania.
Pazienza perchè in via Bellerio si spera sempre in qualche novità , invece bisogna aspettare almeno fino a lunedì.
«Tutto bene», è la frase che attribuiscono a Umberto Bossi: bene perchè Umberto e Bobo si son parlati, li hanno visti assieme, e finalmente il vecchio Bossi ha capito che non è il caso di insistere con la sua ricandidatura a segretario della Lega Nord?
Che la Lega del futuro non può che affidarsi a Maroni?
Forse sì, o forse non è ancora un sì. E l’annuncio slitta a lunedì.
Tra una settimana ci sono i ballottaggi, ma ai leghisti che vanno e vengono dalla sede sembrano di poco conto.
Le amministrative, Verona a parte, sono andate male, punto. E adesso c’è da pensare al malato, alla Lega che va per congressi.
Maroni non può ancora dire «tutto bene», perchè con Bossi, e si è visto, c’è poco da fidarsi. In tre settimane si è dimesso da segretario, ha dato la sua benedizione a Bobo come successore e poi l’ha ritrattata ripresentando le sue voglie di padre e padrone della Lega.
Non potrà finire che con una dichiarazione pubblica di Bossi. O con un documento firmato dal prossimo Consiglio Federale. Fissato per lunedì pomeriggio, appunto.
Non è una trattativa semplice, quella tra Bossi e Maroni.
Bobo vorrebbe salvare il salvabile, evitare al vecchio amico nuove umiliazioni e altre amarezze.
Ma chi tiene in vita quel che resta del Cerchio Magico sembra insistere su Bossi, sembra temere la fine, il brusco passaggio dalla nobiltà leghista alla miseria di una finale poco dignitoso.
Basta sentire il senatore Giuseppe Leoni, che a «Panorama.it» dichiara intenzioni di bellicosa resistenza: «Se è vero che qualcuno vuole togliere Bossi dal simbolo della Lega allora si facessero un altro partito e con un altro simbolo. Io sono il detentore di un terzo del simbolo, gli altri due sono di Umberto e della moglie Manuela».
Il rischio, insomma, è che le due Leghe che ancora convivono, quella di Bossi e del Cerchio Magico da una parte, quella di Maroni e dei Flavio Tosi dall’altra, al congresso di fine giugno possano prendere due strade diverse.
Difficile, ma ad oggi non impossibile.
Leoni fa capire che la nuova Lega non può nascere senza il consenso di Bossi. E proprio su questo sta lavorando Maroni. Riuscire a convincere il vecchio Capo che alternative non ne esistono. Che la Lega è già un’altra. E che le inchieste non solo hanno azzerato la credibilità di Bossi e famiglia, ma sono appena all’inizio: anche due giorni fa la segretaria amministrativa Nadia Dagrada ha passato il pomeriggio in una caserma della Finanza.
A lunedì, dunque.
Per sapere se Bossi accetta il patto con Maroni, se farà il «Padre nobile», come gli ha consigliato Flavio Tosi da Verona. Ma prima bisognerà vedere se accetta, e cosa ne dicono il senatore Leoni, la moglie e la famiglia.
Che a sera, quando Bossi rientra a casa, non mancheranno di ripetere quel che in questi anni di malattia Rosi Mauro ha sempre urlato a Pontida: «La Lega è Bossi, Bossi è la Lega».
Per la famiglia nulla deve cambiare.
Tanto che lunedì scorso, in attesa dei risultati della amministrative, in una stanza di via Bellerio erano alla prese con l’ultima richiesta da Gemonio.
Uno stipendio della Lega per Riccardo, il primo figlio di Umberto.
Giovanni Cerruti
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
LA FRASE PRONUNCIATA DA UN BOSS DELLA MAFIA CALABRESE NEL CORSO DI UN SUMMIT SEI ANNI FA… L’ANELLO DI CONGIUNZIONE SAREBBE STATO L’UOMO DI AFFARI GENOVESE ROMOLO GIRARDELLI
«Il partito che odia i terroni ce l’abbiamo in mano». È la frase che, stando al racconto di un pentito di ‘ndrangheta, avrebbe pronunciato, circa 6 anni fa, un boss della mafia calabrese nel corso di un summit con i rappresentanti di altre “famiglie”.
E «l’anello di congiunzione» tra gli interessi delle cosche e persone vicine al Carroccio, sempre stando alla versione del collaboratore di giustizia, sarebbe stato l’uomo d’affari genovese Romolo Girardelli, indagato per riciclaggio assieme, tra gli altri, all’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, nell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria.
Lo scorso 27 aprile, il pentito Luigi Bonaventura – che è stato reggente dell’omonima cosca del Crotonese e che collabora con la giustizia dal febbraio 2007 – si è seduto davanti al pm reggino, Giuseppe Lombardo, sentito come persona informata sui fatti.
La Dda calabrese, infatti, nell’ambito delle indagini sui fondi del Carroccio che interessano anche le Procure di Milano e Napoli, sta approfondendo il filone di un presunto riciclaggio messo in piedi forse con la commistione di soldi sporchi della ‘ndrangheta e di denaro proveniente dalle casse del Carroccio.
Bonaventura, 40 anni, che ha già collaborato in altre indagini con altre Procure, proprio alla luce di quanto affermato a verbale negli scorsi anni e nell’ultima audizione, ha fatto presente agli stessi inquirenti, attraverso l’avvocato Giulio Calabretta, «l’assenza di tutele», cosa che aveva già “denunciato” anche in passato.
Malgrado, infatti, sia sotto protezione, come ha chiarito il suo legale, «non ha una scorta personale, se non quando si sposta per gli interrogatori, vive ancora in Calabria e i suoi familiari non sono per nulla protetti».
Tutto ciò «nonostante abbia raccontato molte cose sui De Stefano e sia scampato già a un attentato».
Proprio la cosca dei De Stefano è “centrale” nell’inchiesta condotta dalla Dia di Reggio Calabria e lo stesso Belsito è accusato di aver “ripulito” denaro con l’aggravante di aver favorito il clan, assieme a Romolo Girardelli, il procacciatore d’affari genovese che nelle intercettazioni viene definito “l’Ammiraglio”.
Nel 2006, ben 4 anni prima che Belsito arrivasse a gestire la tesoreria della Lega, in un pranzo a Crotone – stando al racconto di Bonaventura – a cui parteciparono rappresentanti delle cosche Nicoscia, Coco Trovato, Russelli, tutti clan della “corrente De Stefano”, il boss Pasquale Nicoscia, che poi si trasferirà a Milano, parlava di Girardelli chiamandolo «Romolino».
E in quell’occasione il boss avrebbe sostenuto che le cosche radicate al Nord «tenevano in mano» la Lega, proprio attraverso «Romolino», che veniva “gestito” dalla ‘ndrangheta.
E in altri summit, sempre stando alla versione di Bonaventura, si sarebbe parlato anche di operazioni di riciclaggio per “70 milioni di euro”.
Bonaventura ha spiegato anche come la ‘ndrangheta e le cosche vicine ai De Stefano fossero riuscite a “sbarcare” a Genova: era successo quando lo zio del stesso pentito, Gianni Bonaventura, era stato mandato in soggiorno obbligato in Liguria.
La, sempre secondo le parole del collaboratore, il boss aveva conosciuto Girardelli.
Proprio l’“Ammiraglio”, dunque, secondo Bonaventura, sarebbe stato il “contatto” che la ‘ndrangheta avrebbe speso per “agganciare” persone vicine alla Lega, anche prima dell’ “avvento” di Belsito. Bonaventura ha spiegato agli inquirenti anche di essere andato a Reggio Calabria più volte con suo zio e con il presunto boss Tonino Vrenna e di aver parlato anche in quelle occasioni del ruolo di Girardelli.
L’avvocato Calabretta ha voluto chiarire che il collaboratore ha anche «riferito alla Procura di Reggio Calabria circostanze di cui aveva già parlato nei primi sei mesi della sua collaborazione con la giustizia e che aveva già approfondito con la Procura di Bologna».
(da “Il Secolo XIX”)
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
SOLO PICCOLI INTERVENTI A PIOGGIA, PER IL 40% NON C’E’ UNA PROPOSTA SCRITTA…TRA LE 200 REGIONI EUROPEE, QUELLE MERIDIONALI IN 10 ANNI HANNO PERSO 40 POSIZIONI PER IL PIL PRO CAPITE
Ricordava soprattutto l’«imbarazzo», Carlo Azeglio Ciampi.
Una sensazione sgradevole che provava quando a Bruxelles, da ministro del Tesoro, si sentiva dire che fra i Paesi europei l’Italia era quello «più indietro» nell’uso dei fondi comunitari.
L’ex governatore della Banca d’Italia rese questa amara confessione a Nuoro, il 10 ottobre del 2000.
A Roma c’era il governo di Giuliano Amato. Due anni prima l’attuale ministro della coesione Fabrizio Barca, chiamato al Tesoro proprio da Ciampi, aveva lanciato «Cento idee» per lo sviluppo del Sud.
Fu accorata, la requisitoria del presidente della Repubblica, al Quirinale da appena un anno e mezzo.
Accorata ma durissima contro il «grande spreco» dei soldi europei inutilizzati, che avrebbero potuto far crescere il Sud.
Uno spreco ancora più insultante perchè «sono in qualche modo soldi nostri, che vengono dalle nostre tasche, dal nostro lavoro». Ciampi disse che era arrivato il momento di voltare pagina, farla finita con le opere incompiute e mettersi d’impegno per usare i soldi. Perchè «ognuno è artefice del proprio destino».
Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi: in questi dodici anni non è stato fatto neanche un piccolo passo avanti.
E se il divario fra il Sud e il Nord si è fatto ancora più spaventoso la responsabilità è anche di chi non ha provveduto a sfruttare quel tesoro.
Secondo la Svimez il Prodotto interno lordo medio delle Regioni meridionali era nel 1951 pari al 65,5% di quello del Centro Nord.
Nel 2009, al culmine della recessione precedente, era sceso al 58,8%: appena sopra al 56% del 1995.
Conseguenza della più bassa crescita, ovvio.
Ma il confronto con le altre aree europee svantaggiate fa toccare con mano che cosa abbia significato per il Sud d’Italia «lo spreco» immane dei fondi europei inutilizzati denunciato nel 2000 da Ciampi.
Nella graduatoria delle 208 regioni continentali meno sviluppate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto.
Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°.
Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino delle aree dell’«obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%.
Cinque volte di meno.
Ci sono regioni che si erano affrancate da quel livello di povertà , traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, e ci sono ripiombate.
Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l’83%, sei anni dopo era al 75%.
La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007.
Va detto che quelli dell’Europa non sono gli unici denari a giacere nei cassetti.
L’Associazione dei costruttori, per esempio, si lamenta che da agosto 2011 il Cipe ha stanziato 19 miliardi per le infrastrutture: tuttora fermi.
Ma ha ragione Rita Borsellino, europarlamentare democratica e sorella del giudice Paolo Borsellino, a definire «irresponsabile» una certa gestione dei fondi strutturali europei: rammentando come in Sicilia al 30 giugno dello scorso anno fosse stato completato appena l’8% dei progetti finanziati a valere sui piani 2000-2006.
Per rendersi conto di quanto la situazione sia grave basta leggere l’ultima relazione della Ragioneria generale dello Stato, sfornata giusto un anno fa.
La massa finanziaria destinata all’Italia da Bruxelles per il periodo che va dal 2007 al 2013 è imponente: fra finanziamento comunitario e contributo nazionale ben 59,4 miliardi di euro, di cui ben 47 destinati al Sud.
Ebbene, alla fine del 2010 soltanto un quinto di quella somma enorme era stato già impegnato. In tutto 12 miliardi, il 18,9% del totale.
Ma i denari effettivamente spesi erano molti, ma molti meno: 5,9 miliardi, ovvero il 9%. Un bilancio imbarazzante, considerando che il primo triennio 2007-2010 era già scaduto.
Semplicemente abissale, poi, la differenza fra Sud e Nord.
Nelle Regioni meridionali la spesa reale era all’8,2%, contro il 16,3% del resto d’Italia. Tenendo conto delle risorse utilizzabili nel solo primo triennio, pari a 33,5 miliardi, ecco che le otto regioni meridionali erano riuscite a impegnarne il 23,6%, con una spesa effettiva, però, non superiore all’11,4%.
E il bello è che le amministrazioni centrali, che tutti noi immaginiamo più efficienti rispetto alle strutture regionali, sono riuscite a fare appena meglio, con impegni pari al 41,2% e una spesa reale del 21%.
Per fare un paragone, lo Stato ha realizzato una performance tripla rispetto alla Calabria, che si è fermata al 7%, ma soltanto un po’ più decente di quella della Sardegna, regione che ha speso il 17,2%.
Senza riuscire ad avvicinarsi al Veneto, dove l’utilizzo reale dei fondi europei si è attestato a un pur modesto 25,5%.
Sulle cause si è discusso a lungo.
Spesso si tira in ballo la scarsa (o scarsissima) capacità progettuale delle amministrazioni locali o centrali.
Ma non c’è dubbio che ci sia anche il concorso dell’indolenza burocratica e di una certa miopia della politica.
Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati della Corte dei conti in una recentissima indagine sull’uso dei fondi comunitari nel periodo 2000-2006 da parte della regione siciliana sono illuminanti.
Si parla di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati e notevolissima presenza di progetti non conclusi, pari al 35 per cento della spesa certificata», che «hanno sfavorevolmente inciso sullo sviluppo locale e non hanno prodotto l’auspicato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione».
Non bastasse, i ricambi ai vertici delle strutture regionali seguiti alle vicende politiche, «hanno di fatto rallentato la spesa compromettendo l’efficacia del programma regionale» mentre il livello molto elevato di errori e irregolarità «denota la carenza dei controlli e una generale scarsa affidabilità degli stessi».
L’Ifel, il centro studi dell’Associazione dei Comuni, sottolinea che gli interventi sono spesso troppo frammentati, con una generale incomprensione fra gestione a programmazione, quando i fondi non vengono utilizzati per progetti non strategici.
L’Anci ha calcolato che i Comuni, destinatari di una trentina di miliardi per il periodo 2007-2013, hanno messo in cantiere qualcosa come 2.410 progetti distribuiti per 1.293 municipi.
La dimensione media è infinitesima: il valore del 43,5% delle iniziative non supera 150 mila euro.
Nella sola Calabria si sono mobilitati, sulla carta, 264 Comuni.
La dimensione media è infinitesima: il 43,5% delle iniziative non supera nemmeno 150 mila euro.
E poi ci si stupisce che per il 40% dei progetti non ci sia nemmeno una pagina scritta, nè un segno sulla carta.
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera”)
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
SPARISCONO I FINIANI, NESSUNO DELLA LISTA CIVICA… “LIGURIA FUTURISTA”: SE FUTURO E LIBERTA’ SI FOSSE PRESENTATA CON IL PROPRIO SIMBOLO AVREBBE OTTENUTO UN CONSIGLIERE, INVECE SONO CADUTI NEL TRAPPOLONE DI MONTELEONE”
Sarà perchè alla fine il pedigree da democristiani è il più facilmente identificabile.
Sarà perchè chi arriva dallo scudocrociato è più ostinato nella ricerca delle preferenze.
Ma il dato arriva dai grandi numeri: su quattro eletti della Lista di Enrico Musso in consiglio comunale (se al ballottaggio vince Marco Doria) tre arrivano dall’Udc e una è Vittoria, la sorella del candidato sindaco.
Non c’è traccia dei finiani di “Futuro e Libertà “, nè dei rutelliani dell’Api.
Indietro i candidati civici che avevano trovato nella fondazione “Oltremare” (lanciata dal professore-senatore) una speranza di entrare a Palazzo Tursi in questo mix tra lista civica e Terzo Polo.
Il primo degli eletti della Lista Musso, infatti, è il dirigente delle Poste Pietro Salemi, legato al senatore ex popolare Claudio Gustavino, approdato all’Udc.
Seconda è Vittoria Musso che ha fatto della tutela dei cani la sua battaglia politica in città .
Terzo Alfonso Gioia, ex presidente del consiglio provinciale e legato al segretario regionale dell’Udc Rosario Monteleone, già giovane democristiano passato per il gruppo di Lamberto Dini e la Margherita.
E se Gioia era stato un semplice attivista dello scudocrociato, il quarto classificato, Paolo Pietro Repetto, faceva parte della Democrazia Cristiana della corrente di Bruno Orsini, insieme allo stesso Monteleone che oggi lo ha fortemente sostenuto in queste elezioni.
Tanta Balena Bianca, dunque, anche se, a dire il vero, il primo dei non eletti,che può sempre sperare nell’abbandono di Musso per subentragli, è Emanuele Basso, che invece ha un’altra storia: è stato il primo a lasciare il Pdl in consiglio comunale per aderire al gruppo di Musso e la sua provenienza è quella del Partito liberale.
Ma dietro tornano ancora gli Udc, con il consigliere comunale uscente Gianlorenzo Bruni.
Solo a quel punto c’è il primo finiano, Giuseppe Murolo.
Fatto che per altro ha scatenato l’ironica alzata di scudi di “Liguria Futurista”, il gruppo che aveva lasciato Fli in piena contestazione con il segretario regionale Enrico Nan: “E’ funzionato il “trappolone” di Monteleone: l’Udc è riuscito a mangiarsi tutti gli eletti alla faccia di Fli che, se avesse avuto il suo simbolo sulla lista, avrebbe certamente ottenuto un consigliere; mentre l’Udc non avrebbe superato il singolo seggio”.
E gli altri di Oltremare? Musso la prende con filosofia e fa sapere:”I candidati della Lista Musso sono tutti della stessa famiglia, le vecchie divisioni tra partiti sono superate”.
Resta il fatto che Monteleone invece gongola e ha già ricevuto i complimenti da Roma.
E se è vero che tutto ciò vale solo nel caso di sconfitta di Musso al ballottaggio, nel caso invece di un senatore vincente gli equilibri sarebbero solo leggermente differenti: l’Udc porterebbe a casa metà dei consiglieri eletti, 12 su 24.
Se a tutto ciò si aggiunge l’indicazione di voto del Pdl, hano facile gioco gli esponenti del Pd a firmare comunicati al veleno: “Il civismo di Musso è già finito, la maschera è caduta – punge il segretario genovese Lunardon – era tutta una farsa. Il sostegno del Pdl riporta Musso da dove era venuto, ossia dalle liste bloccate scelte da Berlusconi”
Non che gli ex Ds stiano meglio, su dodici possibili eletti del Pd, la metà sono di provenienza Margherita.
Giovanni Mari
(da “Il Secolo XIX“)
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
IL LEGAME TRA L’IMPRENDITORE GATTIGLIA E IL GOVERNATORE DELLA LIGURIA… NEL 2005 L’OPERAZIONE PESCE FRESCO DELLA BASKO FINANZIATO DALLA REGIONE…E IL PIU’ VOTATO DI SEL PER ANNI HA CURATO LA FESTA DEL PD
Rileggendo il libro-inchiesta “Il partito del cemento” di Marco Preve e Ferruccio Sansa, si trova, nel capitolo dedicato al governatore della Liguria Claudio Burlando ed al suo blocco di potere, la famosa lista dell’associazione Maestrale del presidentissimo…
Marco Preve e Ferruccio Sansa precisano in nota:
“Meno noto al grande pubblico il nome di Maurizio Gattiglia, ma i bene informati sanno che è uno dei grandi imprenditori liguri, perchè suo padre partendo da una drogheria arrivò a fondare la Sogegross, colosso della distribuzione alimentare (vi dicono niente i marchi Basko, Ekom e Doro Centry?) che conta oltre duemila dipendenti e un fatturato di 522 milioni di euro nel 2005. Maurizio è oggi l’amministratore delegato. Nel 2005 lanciò il progetto «Fresco di più», per promuovere la vendita di pesce fresco. L’iniziativa, come riferiscono le pubblicazioni di categoria, è stata interamente finanziata dalla Regione Liguria ed è stata realizzata insieme con Basko e le associazioni liguri dei pescatori.”.
Quel gruppo che fa capo alla Sogegross è uno di quelli che abbiamo più volte indicato tra i principali sponsor del PD, attraverso la “festa democratica”, che viene seguita dalla società (del partito) A.P.G. SRL (il cui ex presidente, per anni, è stato Gianni Crivello, il più votato della lista di SEL per il consiglio comunale in appoggio a Marco Doria).
Manifesti e striscioni negli spazi della kermesse, ma anche l’affitto di stand sotto l’insegna “Basko” per allietare la politica dei militanti PD.
La Sogegross, per mantenere il suo ruolo chiave nella città , ha bisogno di alleati.
Altrimenti chi mai le avrebbe permesso di spartirsi il mercato con la Coop (altro grande sponsor del PD)?
E la Sogegross ha anche quindi bisogno che gli Enti Locali non ostacolino i piani di sviluppo… così come che approvino le eventuali varianti e autorizzazioni necessarie ad incrementare la propria presenza in città .
Non è un caso che nel 2011 denunciò i ritardi della macchina comunale che ostacolavano i progetti di ampliamento…
Dopo il ballottaggio a Genova, quando si insedierà il nuovo Consiglio Comunale, la Sogegross potrà contare anche su un proprio manager direttamente seduto sui banchi della sala rossa di Palazzo Tursi.
No, non è un eletto del PD o di SEL, ma un eletto della lista del M5S di Genova, il movimento di Beppe Grillo: Andrea Boccaccio, il terzo più votato.
Strane coincidenze…
Casa della Legalità
Ufficio di Presidenza
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
IL RUOLO DI POMPIERE DI PAOLO PUTTI CHE SPARISCE QUANDO SI TRATTA DI CONTESTARE
Nella formazione della lista 5 Stelle a Genova si è assistito all’unico caso in Italia in cui metà lista ed anche il candidato sindaco non sono del MoVimento 5 Stelle e non provengono dai Meetup.
La lista del M5S di Genova è in realtà una fusione tra il “Gruppo Storico” ed il “Coordinamento No Gronda”, e con la parallela esclusione del Meetup “Genova 1”.
Ma chi sono questi “No Gronda”?
Inizialmente era un insieme di Comitati, da qui il nome “Coordinamento”, nati in occasione del dibattito pubblico promosso dall’amministrazione comunale per scegliere il tracciato per la Gronda di Ponente, alias una nuova tratta autostradale.
Inizialmente erano i cittadini della Valpolcevera ad animare i Comitati e quindi anche il Coordinamento “No Gronda”.
Ma poi, come era accaduto per il Meetup e per i Comitati del Ponente, sono arrivati i partiti a prenderne il controllo.
“Portavoce” autoproclamatosi del “Coordinamento” è Paolo Putti, il candidato sindaco di Grillo: lo ha fatto perchè si metteva “a disposizione”.
E così sono iniziati ad essere invitati alle riunioni gli uomini di partito come Giampiero Pastorino, allora di Rifondazione (ora di Sel) eletto in Provincia nel 2007, Angelo Spanò dei Verdi, anche lui eletto in Provincia nel 2007… e poi la Cappello, eletta in Comune nel 2007 con l’Idv (e per circa due anni anche assessore in Provincia).
Entrano gli uomini dei partiti ed escono i cittadini.
Il classico copione che garantisce ai Partiti ciò che vogliono, indebolire i comitati che possono creare problemi alle Amministrazioni locali ed al contempo garantire bacini di consenso ai propri uomini.
Paolo Putti frena su ogni iniziativa che possa essere “troppo dura”. Non gli piacciono le contestazioni.
Ad esempio a Palazzo Tursi, in Comune, non c’è mai quando si tratta di andare a contestare.
Alla fine se ne vanno praticamente tutti, restano in poche decine di persone, buona parte coppie che trovano occasione di incontrarsi e poter dire che fanno qualcosa.
Alle elezioni regionali il Coordinamento “No Gronda”, guidato da Paolo Putti, contribuisce di fatto a far eleggere in regione, Alessandro Benzi, candidato nella lista di Rifondazione Comunista e nella maggioranza di Claudio Burlando, il quale ha sottoscritto il programma di Burlando dove c’è scritto a caratteri cubitali il SI’ a Gronda come al Terzo Valico.
Ma la campagna elettorale non la fa con quel programma…
Stampa dei bellissimi volantini a colori, in carta patinata in cui campeggia, enorme, ancora più grande del simbolo del partito, il logo dei “No Gronda”. Quel volantino recapitato nelle cassette dei residenti delle zone coinvolte dal tracciato, distribuito nelle piazze di quel territorio, ha certamente portato voti a Benzi, quei voti necessari all’elezione e voti che sono andati alla maggioranza di Claudio Burlando.
Paolo Putti, come portavoce del “Coordinamento No Gronda”, ha smentito che il coordinamento appoggiasse quel candidato?
Ha tuonato sull’uso improprio del logo dei No Gronda sui volantini di un candidato alle elezioni regionali?
Ovviamente no.
Ma c’è di più.
Il Coordinamento “No Gronda” (guidato da Putti) si è forse fatto promotore di un bel presidio contro “una trivella” a Murta?
Ha osato promuovere con i proprietari dei terreni occupati senza autorizzazione i danni alla società Autostrade?
Ovviamente No.
Protestare sì, ma senza disturbare, è il motto dei grillini.
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
GLI STATI UNITI DEMOLISCONO IL SEGRETO BANCARIO….GRAN BRETAGNA, GERMANIA, AUSTRIA E ORA ITALIA VOGLIONO LE TASSE NON PAGATE DAGLI EVASORI CHE HANNO ESPORTATO CAPITALI…E UN INTERO SISTEMA INIZIA A CROLLARE
“Sentito che cosa ha detto quella? Qui è finita per tutti. È solo questione di tempo, qualche anno, e poi ci costringono a chiudere bottega. La Svizzera intera può chiudere bottega”. Il cielo cupo sopra Lugano in una domenica di pioggia ispira pensieri tristi, ma il banchiere che si fuma l’ennesima sigaretta seduto a un tavolo con vista lago non ha l’aria, e neppure il curriculum, dell’uomo sentimentale.
Se la prende con una donna, la maledice senza neppure nominarla.
La signora in questione si chiama Eveline Widmer-Schlumpf e siede al governo di Berna come presidente e responsabile delle Finanze.
È lei, ormai, il nemico numero uno dei banchieri.
La ministra svende agli stranieri il futuro della Confederazione, questa l’accusa. Peggio: si è arresa senza combattere di fronte alle pressioni di americani, tedeschi, inglesi, perfino degli italiani, tutti impegnati a dare la caccia al denaro nero degli evasori fiscali nascosto nelle banche elvetiche.
Finanza contro politica, mai visto nulla di simile da queste parti, in un Paese che ha sempre visto il governo allinearsi scrupolosamente alle direttive dei signori del denaro.
Per la prima volta l’esecutivo di Berna ha osato mettere in discussione il tabù nazionale, l’inviolabile segreto bancario su cui il Paese degli orologi a cucù e del cioccolato ha costruito la sua enorme ricchezza. “La Svizzera lava più bianco”, accusava più di vent’anni fa il sociologo ginevrino Jean Ziegler in un libro che faceva a pezzi la casta del potere elvetico, complice di un colossale sistema di riciclaggio.
Le nuove paure
I tempi cambiano. La Svizzera adesso ha paura.
Gli Stati Uniti e l’Europa, travolti da una crisi economica senza precedenti, non possono più permettersi di ignorare il tesoro accumulato nei forzieri di Zurigo, Ginevra e Lugano da milioni di evasori fiscali.
Mentre i tagli in bilancio massacrano il welfare, i governi devono dare un segnale d’impegno anche sul fronte delle entrate.
E visto che le tasse, nuove e vecchie, finiscono per massacrare i soliti noti, che c’è di meglio di una crociata contro i santuari dell’evasione fiscale?
A Berna hanno capito il messaggio. “Il dovere di diligenza dei banchieri va esteso per evitare che giungano nei nostri istituti di credito fondi stranieri non dichiarati al fisco”.
Ecco, testuali, le parole della ministra Widmer-Schlumpf che tre mesi fa hanno acceso le polemiche.
Se una simile riforma andasse in porto sarebbe una mezza rivoluzione.
Adesso i banchieri hanno il dovere di fare ogni accertamento possibile sulla provenienza del denaro depositato dal cliente.
Se c’è il sospetto che i soldi siano il frutto di attività criminale allora scatta l’obbligo di denuncia all’autorità anti-riciclaggio.
Il governo di Berna, questa la novità , vorrebbe che le verifiche del funzionario di banca fossero estese anche alle questioni fiscali.
Non pagare le tasse diventa un crimine e quindi il cliente sospetto evasore va denunciato, proprio come il riciclatore del denaro della droga.
E se un Paese straniero dovesse chiedere assistenza in un’indagine, anche amministrativa, su una presunta evasione tributaria, la banca svizzera sarebbe obbligata a fornire le informazioni richieste.
Sempre meno segreti
Gli ambienti finanziari protestano: fin qui le questioni fiscali erano al riparo da qualsiasi indagine. Il segreto bancario copriva tutto.
“Va a finire che ci tocca chiedere la dichiarazione dei redditi ai clienti”, esagera il banchiere ginevrino. I politici però insistono.
Il governo di Berna, ha pubblicato un documento, una trentina di pagine, intitolato “Strategie per una piazza finanziaria competitiva e conforme alle leggi fiscali”.
à‰ la “Weissgeldstrategie”, la strategia del denaro bianco che serve a tagliare i ponti, almeno a parole, con un passato imbarazzante. Buoni propositi, niente di più.
Ma le ipotesi di riforma su una materia tanto delicata hanno mandato in bestia i banchieri.
Sentite che cosa ha detto, una decina di giorni fa, il ticinese Sergio Ermotti, l’ex braccio destro di Alessandro Profumo all’Unicredit approdato l’anno scorso sulla poltrona di numero uno di Ubs, colosso del credito elvetico: “Gli attacchi al segreto bancario non sono altro che una guerra economica”, ha dichiarato Ermotti al giornale zurighese SonntagsZeitung.
“Questa guerra mira a indebolire la piazza finanziaria elvetica per favorire i nostri concorrenti”, ha aggiunto il capo di Ubs. Insomma, il mondo intero trama per svaligiare i forzieri svizzeri.
La posta in gioco è colossale.
Si calcola che le 320 banche della Confederazione gestiscano patrimoni per oltre 4.500 miliardi di euro.
Più della metà di questo tesoro proviene da Paesi stranieri. La sola Italia avrebbe contribuito con 150 miliardi. Una stima per difetto, probabilmente.
I banchieri temono che la semplice possibilità di un accordo sulla tassazione dei capitali esportati illegalmente sia sufficiente a mettere in fuga buona parte dei clienti. E questo sarebbe un problema serio per un’economia come quella elvetica in cui il settore finanziario produce oltre il 10 per cento del valore aggiunto complessivo.
La crisi oltre la finanza
La Svizzera però non è solo finanza. Nel territorio della Confederazione hanno sede migliaia di imprese che fanno business con l’Europa.
E allora bisogna mantenere buoni rapporti con i Paesi vicini, altrimenti rischia di affondare l’economia, in gran parte orientata all’export.
Quando era ministro dell’Economia , Giulio Tremonti ha fatto in modo che la Svizzera venisse inserita nella black list dei Paesi non collaborativi in materia fiscale, tipo Cayman e Bahamas.
Questa decisione ha creato enormi problemi alle aziende svizzere che lavorano con l’Italia. Per questo Berna non può fare a meno di inviare segnali distensivi.
Che cosa succederebbe, per dire, se Londra sospendesse l’autorizzazione delle banche elvetiche a lavorare nella City?
Nasce con queste premesse il negoziato per i nuovi trattati fiscali con Germania e Inghilterra. E anche il governo di Mario Monti adesso ha imboccato la stessa strada.
Il conto agli evasori
Una multa pesante, fino al 44 per cento della somma esportata illegalmente, e la promessa di pagare le tasse in futuro.
Sono questi gli ingredienti del colpo di spugna per i furboni del fisco. Un regalo agli evasori, protesta l’opposizione socialdemocratica tedesca. E anche in Gran Bretagna l’accordo, deve ancora essere ratificato dal Parlamento.
In Italia la trattativa con Berna ripartirà il 24 maggio, come annunciato mercoledì da una nota dei due governi. Trovare l’accordo non sarà facile.
A meno che non siano gli svizzeri a mandare tutto a monte.
L’Udc, il partito nazionalista di Cristoph Blocher minaccia di promuovere un referendum per bloccare i negoziati. I banchieri approvano.
Vittorio Malagutti
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 12th, 2012 Riccardo Fucile
MAI COSI’ IN ALTO I CINQUESTELLE, MAI COSI’ BASSO IL PDL….SEL 6,8%, UDC 5,9%, IDV 5,3%, FLI 4%, FED. SIN. 2,8%, LA DESTRA 2,7%
Mai così in alto nelle intenzioni di voto il Movimento 5 Stelle (11,5%), mai così in basso il Popolo delle Libertà (19,9%).
Arretra il Pd e si attesta sul 24,9%.
Male la Lega, bene i comunisti.
Sono i risultati dell’ultimo sondaggio Swg pubblicato da Affaritaliani.it
Cresce al 44% la percentuale del partito del non voto che raccoglie il bacino degli elettori astenuti ed indecisi.
In una rivelazione analoga del 4 maggio la percentuale era del 38,2%
Crolla la fiducia degli italiani nei confronti del premier Monti: 38%.
Una settimana fa il consenso era al 44%, due settimane fa al 40%, un mese fa al 47%, a febbraio al 58% e a novembre al 71%.
Mai così in alto nelle intenzioni di voto il Movimento 5 Stelle (11,5%), mai così in basso il Pdl (19,9%).
Mentre il Pd si attesta sul 24,9%, Udc (5,9%), Sel (6,8%), Idv (5,3%), Lega Nord (5,1%), Fli (4,0%), Federazione Sinistra (2,8%), La Destra (2,7%), Lista Bonino (1,9%), Mpa/Api (0,3%).
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