Giugno 24th, 2012 Riccardo Fucile
UNICEF: “NEL MONDO CI SONO 215 MILIONI DI PICCOLI SCHIAVI, IMPIEGATI IN ATTIVITA’ A RISCHIO”
Sono 215 milioni i bambini coinvolti nel lavoro minorile in tutto il mondo.
Più della metà svolge attività a rischio, come la schiavitù sessuale e la guerra. Ma non solo.
Ogni minuto ne muore uno per incidenti, malattie o gravi traumi psicologici.
E il 40% dei disoccupati sono giovani.
A denunciarlo è l’Unicef, in occasione della giornata mondiale contro il lavoro minorile.
«Oggi giovani disoccupati o impiegati in modo inadeguato sono in genere bambini lavoratori, la cui educazione, salute e benessere sono stati compromessi in modo permanente. Il lavoro minorile crea svantaggi ai lavoratori per tutta la vita e rafforza cicli intergenerazionali di povertà , discriminazione e iniquità », ha spiegato Joanne Dunn dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia.
«Il lavoro minorile mina sistematicamente i progressi per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Osm) per ridurre la povertà , l’istruzione, l’Hiv/Aids e la disuguaglianza di genere.
Se non riusciremo a sconfiggere il lavoro minorile, non riusciremo a sostenere il diritto umano dei bambini alla protezione e a un futuro migliore», ha concluso Dunn. Nel frattempo a Firenze, nell’ambito del convegno «Lavoro Minorile: azioni di contrasto e promozione del benessere» verrà firmato un protocollo d’intesa tra l’Unicef Italia e il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della regione Toscana. Il protocollo avrà l’obiettivo di promuovere e realizzare attività d’informazione, diffusione e studio della Convenzione sui diritti dell’infanzia; favorire la partecipazione autentica e strutturata delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi alle attività promosse; favorire lo scambio reciproco d’informazioni e buone prassi sulle politiche e i progetti dedicati all’attuazione dei diritti dei minorenni sul territorio; promuovere iniziative per il benessere dei bambini/e con particolare attenzione al diritto alla salute, soprattutto per i più marginalizzati.
Marta Serafini
Corriere della Sera
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Giugno 24th, 2012 Riccardo Fucile
LA LETTERA INVIATA AI LEADER EUROPEI E DEL G20: “E’ LA STRADA GIUSTA”
Cinquantadue professionisti del mondo della finanza hanno scritto ai leader del G20 e dell’Europa per chiedere che sostengano la tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) volta a generare risorse per “le persone più bisognose nei propri paesi e nelle nazioni più povere del mondo”.
La lettera, firmata da autorevoli professionist di Wall Street, della City di Londra e di altre piazze finanziarie europee, afferma che la TTF “permetterebbe di riequilibrare I mercati finanziari prendendo le distanze da una mentalità di trading a breve termine che ha contribuito all’instabilità dei nostri mercati finanziari. Questa tassa ha anche il pregio di generare un gettito rilevante”.
Tra i firmatari, Arielle de Rothschild, Managing Director del Rothschild Group, Andreas Neukirch, President del GLS Bank, in Germani, Barry Marshall, ex Chief Operating Officer del Gartmore Group e Dr William Barclay ex senior Vice President del Chicago Stock Exchange oltre a otto ex dirigenti della Goldman Sachs e JP Morgan.
La lettera respinge le affermazioni dei critici della TTF secondo cui questa tassa provocherebbe danni all’economia.
Nella lettera si spiega infatti che la TTF — detta anche Robin Hood Tax dalle campagne internazionali che chiedono che il gettito sia destinato per combattere la povertà – “avrebbe un effetto irrisorio sugli investimenti a lungo termine” e che “una piccola tassa sulle transazioni migliorerebbe il funzionamento dei mercati”.
Si fa notare inoltre, che il valore delle transazioni finanziarie è attualmente settanta volte le dimensioni dell’economia reale e che gran parte di questo aumento è dovuto all’uso di computer che permettono lo scambio in frazioni di secondo traendo profitti dalle brevissime oscillazioni di mercato senza che si contribuisca in alcun modo alle funzioni fondamentali del mercato primario: incrementare gli investimenti allocando efficientemente le risorse e mitigando i rischi.
Questa lettera arriva proprio a pochi giorni dal lancio della Robin Hood Tax Campaign negli USA e alla vigilia del vertice dei Ministri delle Finanze europei che si terrà a Lussemburgo.
Questo vertice insieme al Consiglio Europeo della prossima settimana potrebbero rompere la situazione di stallo provocata dall’opposizione della Gran Bretagna all’introduzione della tassa su scala europa.
Una coalizione di stati, che includa Germania, Francia, Italia e Spagna, potrebbe comunque far avanzare la proposta e superare quindi l’ostruzionismo britannico per la soluzione a 27 Stati Membri.
Una recente analisi della Commissione Europea ha confermato che l’impatto della TTF potrebbe avere un effetto positivo sulla crescita.
Questa lettera dal mondo della finanza, si aggiunge alle dichiarazioni favorevoli alla tassa già espresse da Bill Gates, dal Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace, dall’Arcivescono di Canterbury, e da oltre mille economisti — tra cui il Premio Nobel Stiglitz — che hanno sostenuto pubblicamente la Robin Hood Tax.
Questa lettera ribadisce che la TTF è un’opportunità storica che non può essere accantonata.
Forme di tassazione delle transazioni finanziarie, applicate su alcuni strumenti finanziari, hanno già dato prova di essere efficaci, è il caso di quanto già avviene in Gran Bretagna, in Sud Africa, ad Hong Kond, in Svizzera e in India, paesi in cui da queste tassazioni si generano risorse per miliardi di dollari all’anno.
(da “La Stampa“)
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Giugno 24th, 2012 Riccardo Fucile
UN FLAGELLO ESTRANEO AL CRIMINE ORGANIZZATO CHE INFURIO’ PER SECOLI ANCHE AL NORD
Preparavano i bagagli e salutavano le persone care. Ma prima di mettersi in viaggio non si dimenticavano di fare testamento.
Nel Settecento e nell’Ottocento succedeva in tutta Italia, da Como alla Calabria.
Lo raccontano testimoni del calibro dell’intellettuale campano Giuseppe Maria Galanti o dello scienziato e patriota lecchese Antonio Stoppani, a dimostrazione dei rischi ai quali si andava incontro allora per le strade italiane.
Che non pullulavano certo di Tir, nè di auto guidate il sabato sera da giovani ubriachi appena usciti dalla discoteca. Ma di briganti.
L’Italia ne era piena. Ne è sempre stata piena, finchè quello che viene definito il «fenomeno» del brigantaggio non fu stroncato dallo Stato unitario.
La formidabile galleria tratteggiata da Enzo Ciconte nel suo volume “Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento”, da poco in libreria per i tipi di Rubbettino, si chiude con il bandito Giuseppe Musolino, detto il «re dell’Aspromonte». Figura a suo modo epica e di fortissima connotazione popolare, al punto da ispirare Giovanni Pascoli per un’ode rimasta poi incompiuta, muore ottantenne nel 1956: dopo quarantacinque anni di carcere e dieci di manicomio.
Difficile dire se fosse davvero l’ultimo dei briganti, ma è certo che con lui scompare un mondo che per secoli ha percorso una strada parallela a quella della storia d’Italia.
Un mondo fatto di violenza, coraggio, viltà , lealtà , tradimento, avidità , corruzione, egoismo, solidarietà .
E le cui origini sono del tutto sconosciute.
Ma non le ragioni per cui la penisola italiana ne diventa il terreno fertile.
Il fatto è che a partire dal Cinquecento l’Italia è attraversata da scontri sanguinosi, senza soluzione di continuità . Ed è seguendo il filo rosso del sangue e del denaro che il brigantaggio prospera, fino a diventare, nello Stato unitario, un vero e proprio contropotere.
«Nel 1559», racconta Ciconte, «la fine delle guerre d’Italia lascia sul lastrico un numero enorme di persone, abili a combattere, ma che non sono più abituate al lavoro dei campi. Molti di costoro forniscono schiere e schiere di fuorilegge radunati in bande. Non c’è da stupirsi che anche nel Veneto del Seicento molti delinquenti siano soldati, costretti a quella scelta per integrare la misera paga giornaliera».
Ma se il fenomeno è diffuso in tutta Italia, è al Sud che tocca l’apice.
«La Calabria del Cinquecento produce tanti briganti perchè è in quel secolo che la condizione di vita dei contadini e dei diseredati spesse volte raggiunge punte di insopportabilità tali da spingere le popolazioni a scoppi irrefrenabili d’ira violenta contro i baroni e i signori locali».
Alle rivolte spesso si univano anche i frati.
Una situazione nella quale, ricorda Ciconte, «giganteggia la figura di Tommaso Campanella», che tuttavia non riuscirà a «instaurare una repubblica comunista e teocratica come quella immaginata nella Città del Sole».
Alcuni briganti sono abilissimi nell’utilizzare a proprio vantaggio i contrasti fra i poteri locali.
È il caso dell’abruzzese Marco Sciarra, detto «Flagellum Dei»: nemico pubblico numero uno per lo Stato pontificio; protettissimo dalla Repubblica di Venezia.
Nè mancano i banditi che si fanno direttamente braccio armato dei potenti e dei nobili, qual è, per esempio, Francesco Marocco detto Tartaglia, ciociaro di Sora, al servizio di Paolo Giordano Orsini. Oppure Pietro Mancino, una specie di Francis Drake pugliese, che per conto dei francesi e del Papa è la spina nel fianco del Regno di Napoli.
Va da sè che per stroncare il brigantaggio non si esitasse a ricorrere a ogni mezzo.
Ivi incluse le atrocità .
«Di questi tempi è frequente», scrive Ciconte, «trovare agli angoli delle strade i cadaveri, o pezzi di essi, dei banditi orrendamente sfregiati e tagliati in quarti; è un fatto consueto, fa parte del panorama abituale perchè tutti sono convinti che l’orribile spettacolo possa essere d’esempio».
Un macabro rituale che si ripeterà per secoli, fino alla vigilia dell’Italia unita, nello Stato pontificio.
«Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un’accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo».
L’autore di questa sconvolgente descrizione altri non è che Giovanni Battista Bugatti, meglio noto come Mastro Titta: il boia del Papa che per ben 68 anni, dal 1796 al 1864, eseguì le sentenze capitali emesse dal tribunale dello Stato della Chiesa.
Aveva 17 anni quando uccise il suo primo uomo, 85 quando chiuse una carriera durante la quale per ben 77 volte aveva squartato un cadavere: fosse quello di un brigante o di un semplice furfante.
Nemmeno le pene più atroci, come la tortura, nè le leggi più infami avrebbero tuttavia spezzato il legame, inevitabile, fra briganti e alcuni strati popolari.
Ci sono perfino momenti in cui le bande si fanno esercito «di liberazione». In alcune zone del Sud, come l’Abruzzo, i briganti combattono con i sanfedisti per restituire ai Borbone il regno che gli è stato sottratto dai rivoluzionari francesi.
Tragica premessa per quella dolorosa pagina storica derubricata per lunghi decenni sotto la voce «repressione del brigantaggio», ma che in realtà ha assunto nel Mezzogiorno dopo il 1861 i contorni di una vera e propria guerra civile.
Nella ribellione al governo giacobino di Gioacchino Murat emergono banditi leggendari, che sono condottieri in piena regola: come Michele Pezza da Itri, detto «Fra Diavolo». Ciconte ci racconta che, con il momentaneo ritorno dei Borbone a Napoli, «mantiene il grado di colonnello, ottiene una pensione ed è nominato Duca di Cassano».
Poi tornano i francesi e lo impiccano. Uno dei tanti.
«Murat individua nel brigantaggio l’arma più importante usata da inglesi e borbonici contro il suo regno e decide di non accettare più quella situazione», spiega l’autore.
Dà quindi una terrificante carta bianca al suo generale Charles-Antoine Manhès: «È una guerra di sterminio che voglio fare a questi miserabili». Ed è quello che accade.
Il problema si ripeterà quando arriverà l’esercito piemontese. Ma «non c’è bisogno dei soldi dei Borbone per accendere la rivolta», commenta Ciconte. «Molti li accendono i galantuomini che con la coccarda tricolore s’insediano nei posti di potere e comandano più di prima… Altri li accende la chiamata alle armi delle quattro classi più giovani e poi una successiva chiamata, per il solo Mezzogiorno, di 36 mila uomini con una ferma che ha durata quinquennale… I giovani meridionali non hanno alcuna intenzione di vestire la divisa del re piemontese. Molti per non fare il soldato si fanno briganti… I boschi pullulano d’altri giovani. Sono i soldati borbonici che rientrano nelle loro case… Gli ufficiali trovano un posto nel nuovo esercito, i soldati no… Ad essi s’aggiungono i soldati dell’esercito meridionale garibaldino che viene sciolto. Molti di loro diventeranno provetti capibanda».
Ma senza subire, a quanto pare, il fascino della via mafiosa al crimine.
«Tra brigantaggio, mafia, camorra e ‘ndrangheta», afferma Ciconte, «non c’è alcun nesso. In Calabria il brigantaggio non ha interessato l’attuale provincia di Reggio Calabria. In Abruzzo, Puglia e Basilicata ci sono stati briganti, non mafiosi. In Campania il brigantaggio interessa le province di Terra di Lavoro e dei Principati e non la città di Napoli, che è il cuore della camorra».
In Calabria «lo scenario delle gesta brigantesche è identico a quello delle lotte contadine. Si può arrivare a dire che… briganti e moti contadini hanno scacciato da quelle terre la ‘ndrangheta, ne hanno impedito la formazione».
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera”)
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Giugno 24th, 2012 Riccardo Fucile
RAPPORTO DEL DIPARTIMENTO DI STATO USA: NEL 2011 SALVATE DALLO SFRUTTAMENTO 42.000 PERSONE, LA MAGGIOR PARTE IN EUROPA
Amina è una giovane del Bangladesh che accettò l’offerta di fare la domestica in Libano finendo in una casa dove venne violentata, torturata e ridotta alla fame per tre mesi prima di piegarsi ai voleri dei carcerieri accettando di diventarne schiava.
In un mondo con oltre sette miliardi di abitanti ve ne sono 27 milioni che vivono in schiavitù ma nel 2011 ne sono stati liberati appena 42.291.
E Amina è fra questi.
La fotografia del Pianeta contenuta nel rapporto sul «Traffico degli esseri umani» redatto dal Dipartimento di Stato e firmato da Hillary Clinton precipita in una dimensione dei rapporti internazionali pressochè inedita.
Le regioni geopolitiche sono ritagliate sulla forza delle reti del traffico di uomini, donne e bambini: dai confini dell’Afghanistan a quelli della Cina e dell’Indonesia si estende il mercato più grande con 11,7 milioni di vittime, seguito dall’Africa con 3,7 milioni, l’America centro-meridionale con 1,8 milioni, la Russia con 1,6 milioni e l’area transatlantica Usa-Europa occidentale con 1,5 milioni mentre l’Australia è l’unica a poter vantare l’assenza di luoghi dove i trafficanti hanno totale potere sui sottomessi.
A fronte di questo sterminato giacimento di vite che alimenta il crimine organizzato vi sono i singoli individui che le polizie nazionali, giorno dopo giorno, riescono a liberare.
Il rapporto riconosce la difficoltà di quest’opera, evidenziata da numeri esigui e da una gerarchia geografica rovesciata perchè il numero maggiore di liberazioni di schiavi si registra nell’area transatlantica, che invece è ultima per quantità di sottomessi.
In Europa le vittime identificate nell’ultimo anno sono state 10.185 e nell’Emisfero Occidentale 9014 ma dove gli schiavi sono di più le liberazioni sono di meno: in Estremo Oriente 8454, in Africa 8900 e nel mondo arabo-musulmano appena 1831.
I numeri di condanne di trafficanti in queste regioni sono altrettanto esigui, basti pensare che in tutto il Maghreb-Medio Oriente sono state solo 60.
I dati in arrivo da ogni capitale vengono analizzati da una task force che classifica le vittime per categorie: c’è chi è schiavizzato per fini sessuali, anche se minore, per i lavori forzati, manodopera infantile, formazione di reparti di bambini-soldati o per essere trattato da dipendente domestici senza diritti.
Se combattere contro tale fenomeno è una missione in salita, Hillary identifica «dieci eroi» che sono di esempio per il contributo che danno e fra loro c’è un’italiana: Maria Grazia Giammarinaro che dal 2010 è la coordinatrice della lotta al traffico di esseri umani dell’Osce e si è recata in 16 nazioni per invocare l’adozione di misure più severe.
La conclusione del rapporto dell’amministrazione Obama è infatti che se la piaga della schiavitù non ha confini; in Occidente esistono almeno delle leggi per combatterla mentre all’estremo opposto vi sono 16 nazioni che «non rispettano gli standard minimi di lotta al traffico e non stanno facendo sforzi significativi per raggiungerli».
Ecco quali sono: Algeria, Libia, Siria, Iran, Arabia Saudita, Yemen, Sudan, Eritrea, Repubblica Centrafricana, Congo, Zimbabwe, Madagascar, Nord Corea, Nuova Papua Guinea e Cuba.
C’è poi un secondo gruppo di 32 nazioni «sotto osservazione» perchè «non danno informazioni» e registrano «numeri alti di vittime», limitandosi a promettere «azioni future» per ridurle: fra loro spiccano Cina e Russia.
Maurizio Molinari
(da “La Stampa“)
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