Destra di Popolo.net

IL PAESE IN MANO ALLE LOBBY DOVE I CONTI NON TORNANO MAI

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

STORIA DI QUESTA LEGISLATURA ATTRAVERSO I TREDICI INTERVENTI SULLE FINANZE…. SE LE MISURE SI INFRANGONO CONTRO LA FORZA DELLE CORPORAZIONI

Si scrive spending review, si legge manovra strappalacrime.
La terza del governo Monti, la tredicesima dall’avvio della legislatura.
Un continuo stress per gli italiani; una chiamata alle armi per le lobby. Ne abbiamo in circolo delle più diverse specie: pubbliche o private, laiche o religiose, occulte o palesi, politiche o sindacali, professionali o industriali, e poi le banche, il terziario, le assicurazioni.
Anche in quest’ultimo frangente hanno immediatamente posto un veto, dai farmacisti agli avvocati.
Minacciano scioperi e serrate, ma la battaglia verrà  decisa in Parlamento, quando il decreto del governo dovrà  essere approvato. Perchè è lì, nel valzer degli emendamenti scritti in ostrogoto, che si consumano favori a spese dello Stato, o che s’innescano precipitose retromarce per risparmiare questa o quella corporazione.
E allora ripercorriamone la storia, magari può servirci a indovinare il futuro.
Gli interventi e le polemiche
I primi tre interventi della legislatura cadono nel secondo semestre del 2008, assieme al battesimo del governo Berlusconi.
Nell’ordine: il decreto legge anticrisi, convertito dalle Camere il 5 agosto (96 articoli, 707 commi); la Finanziaria, che arriva puntuale (sia pure in formato light) insieme con il panettone; un secondo decreto anticrisi, approvato il 28 novembre dal Consiglio dei ministri.
Come al solito, molte pie intenzioni: per esempio la social card (400 euro) e un piano casa per i meno abbienti; la «Robin Hood tax», che accresce il prelievo fiscale per le imprese del settore petrolifero; un tetto al 4% per i mutui a tasso variabile.
Molte polemiche: dalla Confindustria che giudica del tutto inadeguato il pacchetto di stimolo per l’economia, fino alle varie associazioni dei consumatori, anch’esse insoddisfatte.
Retromarce, come quella innescata dal neoministro dell’Università  Mariastella Gelmini, che esordisce sussurrando l’ipotesi di togliere il valore legale della laurea; ma il sussurro dura un attimo, giacchè l’Adepp (l’associazione che riunisce le casse di previdenza professionale) alza subito un veto.
Guerre fra categorie: la più cruenta divampa in estate fra notai e commercialisti, circa il passaggio di quote nelle srl attraverso una scrittura privata, siglata dalle parti con la firma digitale, e quindi senza timbro notarile.
Sicchè il Consiglio nazionale del notariato sferra il contrattacco con una pubblicità  che elenca le insidie della firma digitale, mentre l’ordine dei commercialisti risponde con un comunicato che esalta le virtù della semplificazione.
La Banca del Mezzogiorno
Ma ogni manovra è pur sempre una tavola imbandita, dove ciascuno trova di che sfamarsi.
Così il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, riesce a imporre la Banca del Mezzogiorno, alimentandola con 5 milioni di fondi statali.
Dispensa mance e spiccioli: fra l’altro 2 milioni per l’apicoltura, benchè non molto tempo prima questa voce di spesa fosse stata presa ad esempio proprio da Tremonti per indicare sprechi di risorse.
E tace quando il presidente del Consiglio (2 dicembre 2008) arriva a prospettare l’Iva al 50% per Sky, tv concorrente delle tv di Berlusconi.
Alla fine ne verrà  deciso il raddoppio (dal 10% al 20%) sulle pay-tv, decisione che rispecchia il nuovo clima istituzionale del Paese: perchè adesso non sono più le lobby a condizionare dall’esterno l’azione dei governi, sono i governi che includono le lobby al proprio interno.
È il caso di Mediaset, lobby di lotta e di governo.
Punto e a capo, scocca il 2009.
Quando le manovre sono due: quella estiva, con l’ennesimo decreto anticrisi; e poi la Finanziaria di dicembre.
Il primo intervento vale 5 miliardi e mezzo; stringe un po’ i conti pubblici, benchè Tremonti s’affretti a dichiarare che la situazione sia sotto controllo (invece non lo è affatto, come dimostreranno le vicende successive); e ovviamente è corredato dal solito pacchetto di rinunce (l’annunciato giro di vite sulle banche) e di rinvii (la class action).
Ma la sua perla più preziosa è lo scudo fiscale-ter: per favorire il rientro dei capitali italiani illegalmente detenuti all’estero, paghi il 5% e scatta l’assoluzione di Stato.
Una misura premia-furbi, come immediatamente scrisse l’Avvenire, quotidiano non certo ostile all’esecutivo in carica.
Una promessa tradita, dal momento che in campagna elettorale (31 marzo 2008) Berlusconi si era impegnato a non riaprire la stagione dei condoni.
Un calcolo sbagliato: il governo aveva stimato il rimpatrio di 300 miliardi, l’anno dopo se ne conteranno solo 80. E in conclusione una ferita al principio di legalità , come se in passato non ne fossero state inflitte già  abbastanza
Quanto alla Finanziaria, esce dal forno con due soli articoli, farciti però da 247 commi.
Innesca una querelle fra il governo e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, dopo la scelta di blindarla ponendo la questione di fiducia.
Riattizza le polemiche sullo scudo fiscale, che tuttavia Tremonti difende a spada tratta, definendolo «la più grande manovra finanziaria mai fatta da un Paese negli ultimi anni».
E naturalmente dispensa pacchi dono, ben infiocchettati sotto l’albero di Natale. 400 milioni per l’autotrasporto. 50 milioni alle emittenti radiotelevisive locali. 130 milioni alle scuole cattoliche, pardon, private. 120 milioni per le assicurazioni degli agricoltori, più altri 100 per il loro fondo di solidarietà . Infine 181 milioni d’interventi a pioggia.
Soldi per il Belice, quarant’anni dopo il terremoto; per gli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia; per le associazioni dei combattenti; per l’Unione italiana ciechi; per le vittime del terrorismo; per il Policlinico San Matteo di Pavia; per l’Istituto mediterraneo di ematologie; e via via, la lista ha più grani di un rosario.
La legge di stabilità 
Ma è l’ultima Finanziaria vecchio stile: il 16 dicembre 2009 il Senato esprime un sì definitivo alla riforma della contabilità  pubblica, sostituendo questo strumento normativo con la legge di stabilità .
E il nuovo stile? Tal quale il vecchio. La manovra approvata nel dicembre 2010 stanzia 100 milioni per l’editoria, 25 milioni per le università  private, e al contempo rimpolpa le dotazioni delle Forze armate o del Servizio sanitario nazionale, magari a costo di prosciugare il Cinque per mille.
Tuttavia è soltanto un dessert, un digestivo, perchè il vero pasto si era già  consumato in estate. Il decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010, convertito il 30 luglio dalle Camere, aveva propinato infatti una cura da cavallo all’economia italiana, per difenderla dalla crisi dell’euro: 24,9 miliardi il saldo complessivo.
A danno, soprattutto, dei dipendenti pubblici, che si videro congelare lo stipendio per 3 anni; mentre sui dirigenti scattava una decurtazione del 10%.
Ma la manovra estiva, come tutte le manovre dei nostri governi, distingue tra figli e figliastri: ci sono i sommersi e ci sono i salvati. D’altronde è in tali frangenti che si misura la forza di ogni corporazione, durante le intemperie, quando occorre mettersi al sicuro.
Chi sono i salvati? Intanto le banche: il decreto governativo introduceva nuove tasse, il Parlamento le ha poi eliminate.
C’era inoltre l’idea di istituire un’authority di controllo sulle fondazioni bancarie: caduta pure questa. In secondo luogo le assicurazioni, sulle quali incombeva una vera e propria purga, e che invece se la cavano con un maggior peso fiscale di 230 milioni.
In terzo luogo i partiti: inizialmente il rimborso per le loro spese elettorali avrebbe dovuto subire un taglio del 50%, poi del 20%, infine si è fermato al 10%.
Idem per le retribuzioni di ministri e sottosegretari, un dimagrimento più simbolico che sostanziale. In quarto luogo le Province: dovevano saltarne una decina, tutto rinviato al nuovo codice delle autonomie. In quinto luogo i magistrati, usciti vittoriosi da un lungo braccio di ferro col governo, durante il quale l’Anm aveva minacciato scioperi e sfracelli.
La pace giudiziaria viene siglata all’ombra di un comma alquanto misterioso, sbucato fuori all’improvviso in Parlamento: «Nei confronti del personale di magistratura e dell’Avvocatura dello Stato, per il triennio 2013, 2014 e 2015 si applica l’adeguamento computato sulla base del triennio 2007, 2008, 2009». In pratica i magistrati scampano il blocco degli stipendi. Evviva.
Altro giro di boa, ed eccoci al 2011.
Quando le manovre orchestrate per far quadrare i conti diventano addirittura 4: tre targate Berlusconi, l’ultima (a dicembre) con la firma in calce di Monti.
Il primo colpo esplode a luglio; ma è un colpo a salve, nonostante le buone intenzioni.
Quali? In primo luogo una stretta fiscale per le società  che gestiscono i pedaggi autostradali, abbassando all’1% il limite alla deducibilità  degli ammortamenti sugli investimenti delle concessionarie.
«Un disincentivo», denuncia l’amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci; «una cazzata», aggiunge soave il presidente dell’Aiscat, Fabrizio Palenzona. Detto fatto: provvedimento ritirato.
Così come rientra in quattro e quattr’otto il proposito d’abolire gli ordini professionali, attraverso l’art. 39-bis della manovra.
Apriti cielo: il presidente del Consiglio nazionale forense, Guido Alpa, esprime immediatamente il proprio sdegno; il presidente del Collegio nazionale dei periti agrari, Andrea Bottaro, denuncia l’attacco alle professioni; il presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani, Andrea Mandelli, punta l’indice contro la liberalizzazione selvaggia; il presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Claudio Siciliotti, definisce sconcertante il metodo seguito dal governo.
E infine tutti questi presidenti armano la mano di 22 senatori-avvocati, che scrivono una lettera di fuoco al presidente del Senato-avvocato Renato Schifani, con il sostegno esplicito del ministro-avvocato Ignazio La Russa: amen, tutto rinviato alle calende greche.
Il contributo di solidarietà 
Il mese dopo parte il secondo colpo, la manovra d’agosto.
Quella che stabilisce un contributo di solidarietà  per i redditi più alti, subito bollato come «inaccettabile e iniquo» da Confindustria e Federmanager.
Risultato? Il contributo resta, ma solo per i dipendenti pubblici (5% sopra i 90 mila euro, 10% oltre i 150 mila euro).
Sicchè i lavoratori privati la fanno franca, a dispetto del principio costituzionale d’eguaglianza. Ma non può esserci eguaglianza nel Paese delle corporazioni, e proprio quest’ultima manovra lo dimostra nel modo più eloquente.
Perchè i parlamentari liberi professionisti riescono a dimezzare il taglio dell’indennità  (da 2.700 a 1.500 euro mensili).
I gestori degli stabilimenti balneari mancano per un soffio il blitz che avrebbe allungato fino a 90 anni la durata delle loro concessioni. I tassisti ottengono d’essere esentati rispetto alla pur timida liberalizzazione dell’accesso a talune attività  economiche.
Infine la Chiesa cattolica respinge con successo gli emendamenti sull’Ici per le proprie attività  commerciali. D’altronde in Italia le chiese sono tante, ciascuna col suo santo in Paradiso.
Ma nessun santo salva il governo Berlusconi, ormai giunto all’ultima curva del circuito: il 12 novembre le Camere approvano la legge di stabilità , lo stesso giorno il presidente del Consiglio si dimette.
Nasce perciò il governo Monti, e qui passiamo dalla storia alla cronaca.
Perchè è ancora fresco il ricordo del fuoco di sbarramento alzato dalle lobby contro il decreto «salva Italia» (4 dicembre 2011), e successivamente contro il decreto «cresci Italia» (24 gennaio 2012, salutato in Parlamento da 2.299 emendamenti).
Sicchè la vendita al supermercato dei farmaci di fascia C va a farsi benedire; i tassisti scansano le liberalizzazioni; i commercianti le rinviano in nome della competenza regionale; i petrolieri mantengono il vincolo di fornitura in esclusiva sui carburanti (a eccezione dei benzinai proprietari della pompa: ma sono il 2% appena del totale).
Mentre le banche, nello stesso giorno in cui entra in vigore la legge che azzera le commissioni bancarie (25 marzo 2012), ne ottengono il ripristino con un decreto legge, anche perchè nel frattempo i vertici dell’Abi si erano dimessi in blocco.
Insomma, una legge effimera come una farfalla; ma dopotutto in Italia le manovre dei governi sono sempre instabili e precarie.
L’unico dato permanente è la forza plumbea delle corporazioni.

Michele Ainis
(da “La Repubblica”)

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L’ISTITUTO LUCE SBARCA SU YOUTUBE: 30.000 VIDEO SULLA STORIA D’ITALIA

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

ALCUNI FILMATI DURANO POCHI SECONDI, ALTRI DIVERSI MINUTI: RACCONTANO UNO SPACCATO DI QUASI 40 ANNI DI EVOLUZIONE SOCIALE E TECNOLOGICA

“Una svolta storica sia a livello tecnologico che culturale”: esordisce così Pier Rodrigo Cipriani Foresio, presidente dell’Istituto Luce-Cinecittà , accogliendo su Youtube il nuovo canale frutto di una preziosa partnership con Google.
In questa prima fase sono stati messi a disposizione quasi 30mila video, alcuni di pochi secondi, altri di diversi minuti che permettono di raccontare una spaccato dell’Italia fatto di quasi 40 anni di evoluzione sociale e tecnologica: 9452 balli, 7700 gambe, 33813 sfilate, 20451 sport, 15096 saluti.
Sono solo una parte degli strabilianti numeri messi in campo dall’Istituto Luce nel filmato di presentazione con oltre 400 ore di Cinegiornali Luce dal 1927 al 1945 e quasi 350 ore per i 14mila titoli della “Settimana Incom” dal 1946 al 1964.
“Grazie a questo accordo contribuiremo attraverso la nostra piattaforma mondiale a preservare la cultura e la storia locale, in questo caso italiana — ha sottolineato Carlo d’Asaro Biondo, presidente per l’area Seemea (Sud e Est Europa, Medio Oriente e Africa) di Google, durante la presentazione dell’iniziativa — Arte, cinema, sport, costume, politica, insomma la vita dei nostri genitori e nonni è resa disponibile in rete alle generazioni future, rispettando il diritto d’autore. Una memoria e un passato che non possiamo permetterci di perdere nel tempo e che come Google siamo orgogliosi di contribuire a tutelare”.
Tutti i video sono stati protetti grazie alla tecnologia Content ID, che permette così rilevare ogni utilizzo e re-utilizzo di un determinato filmato: non una forma di censura o di controllo ma un sistema che permetterà  di generare ricavi grazie ai banner che appariranno sulla pagina.
“Poter generare dei ricavi attraverso la pubblicità  e senza nessun costo per noi, credo che questo sia un bell’esempio di cultura sostenibile e accessibile a tutti. Le persone, soprattutto i giovani, cercano contenuti su Internet — ha continuato il presidente Cipriani — Bisogna trovare le formule giuste per adempiere alla nostra missione istituzionale: promuovere la storia e il cinema italiano. L’istituzione deve essere un aggregatore di energie e un facilitatore all’innovazione”.
Quello che l’Istituto Luce-Cinecittà  intende in modo particolare sottolineare è che non è stato creato uno spazio virtuale in cui semplicemente caricare dei filmati, ma è stato aperto un vero e proprio canale di Youtube con una precisa selezione delle parole chiave per una ricerca accurata ed una attenta suddivisione in categorie tematiche.
Si passa da “Arte, scienza e letteratura del ‘900” alle “Dive del cinema e della passerella” e “La dolce vita”, senza dimenticare “La seconda Guerra mondiale”, i “Protagonisti del XX secolo” e la “Polvere d’archivio”, che lasciano spazio alla sezione “Istituto Luce Cinecittà  presenta”: un luogo in cui far confluire il presente e il futuro di questo grande archivio del passato.
Un valore storico così imponente che ha persino spinto la Commissione Italiana Unesco alla nomina dei Cinegiornali Luce per il registro della Memoria del Mondo.
Sarebbe curioso poter assistere ad un’edizione straordinaria del Cinegiornale Luce, alla notizia del lancio su internet del più grande archivio storico italiano: “La memoria del virile popolo italico approda nell’etere grazie ad un marchingegno tecnologico di superba fattura, così da essere ad imperituro esempio delle giovani leve

Elio Cogno
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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FRANCIA: NIENTE PIU’ DETENZIONE PER GLI IMMIGRATI IRREGOLARI

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

CON LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE DEL 5 LUGLIO   GLI AGENTI DELLA POLIZIA FRANCESE NON POTRANNO PIU’ ARRESTARE UNO STRANIERO A CAUSA DELLA SUA SITUAZIONE IRREGOLARE

Molto forte è la portata di questo provvedimento, anche da un punto di vista morale e filosofico.
Quello che impone, infatti, è un cambiamento radicale della visione del clandestino. Se con il decreto legge in vigore dal 2 maggio del 1938 chi viveva sprovvisto di documenti legali era un delinquente, oggi questi non è più da considerarsi tale.
Non per questo motivo almeno.
“Questo dovrebbe cambiare anche il modo in cui l’opinione pubblica percepisce i migranti privi di documenti”, dichiara Patrice Spinosi, avvocato che è tra i fautori della lunga battaglia legale che ha portato a questo provvedimento.
Secondo il Groupe d’information et de soutien des immigrès (Gisti) finora erano, in media, almeno 60mila gli stranieri che venivano arrestati ogni anno per mancanza di documenti regolari.
Se poi queste persone non riuscivano a dimostrare di avere dei dcumenti in regola, subivano una sanzione amministrativa, ovvero un “obbligo di lasciare il territorio francese”.
Ora, dicono gli avvocati, le autorità  di polizia non potranno più disporre   misure del genere.
Con il nuovo provvedimento, inoltre, uno straniero che viene arrestato perchè sospettato di un qualsiasi altro reato, potrà  essere tenuto in custodia cautelare per quattro ore al massimo, cioè solo il tempo necessario per compiere le dovute verifiche.
Se la persona in questione non possiede il permesso di soggiorno, questo non significherà  necessariamente che sarà  rimandato nel suo paese d’origine.
Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, ha comunque annunciato la necessità  di adottare una legge (di cui si discuterà  probabilmente il prossimo settembre) che “dia base giuridica” al provvedimento in questione.

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“ONOREVOLI REDDITI” PUBBLICATI IN RETE: BERLUSCONI, ALFANO E BOSSI DICONO NO

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

IN AUMENTO IL NUMERO DEI PARLAMENTARI CHE HANNO ACCONSENTITO A RENDERE NOTO IL PROPRIO 740 ON LINE… META’ DEL VECCHIO GOVERNO SI E’ RIFIUTATO: OLTRE ALL’EX PREMIER SCONOSCIUTI I GUADAGNI DI LA RUSSA, TREMONTI E COLONNELLI VARI

Berlusconi e Alfano hanno detto no. Bersani, Casini, Di Pietro e Fini, invece, hanno fatto il contrario.
Mancano solo i leader del Popolo della Libertà  (il Cavaliere è da sempre il più ricco di tutti, con un ‘tesoro’ annuale di 48 milioni di euro) tra i big dei partiti che hanno dato il loro assenso alla pubblicazione, sui siti di Camera e Senato, della propria dichiarazione dei redditi.
Le dichiarazioni (su supporto cartaceo), pur consultabili da tutti presso il Servizio delle prerogative, delle immunità  parlamentari e del contenzioso (a Palazzo della Sapienza, in Corso Rinascimento a Roma) sono state pubblicate online in nome di una maggior trasparenza, dopo il pressing dei deputati radicali eletti nel Pd.
All’iniziativa, naturalmente su base volontaria, hanno aderito il presidente dell’Assemblea di Montecitorio e leader di Fli Gianfranco Fini, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e quello dell’Idv Antonio Di Pietro, oltre al neo segretario leghista Roberto Maroni.
Oltre a Berlusconi e Alfano, inoltre, manca all’appello anche l’ex leader del Carroccio Umberto Bossi.
Presenti, al contrario, tutti i sei deputati radicali del Pd che avevano condotto una battaglia parlamentare perchè i redditi dei parlamentari fossero consultabili in rete: trattasi di Rita Bernardini, Marco Beltrandi, Maria Antonietta Farina Coscioni, Matteo Mecacci, Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti.
A Montecitorio, tra i presidenti dei gruppi, ci sono più sì che no: online, infatti, sono i redditi di Benedetto Della Vedova (Fli), Massimo Donadi (Idv), Dario Franceschini (Pd), Silvano Moffa (Popolo e territorio) e di Gian Luca Galletti (Udc).
Non hanno dato l’assenso, almeno per ora, il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto, il presidente dei deputati della Lega Gianpaolo Dozzo e il presidente del gruppo Misto Siegfried Brugger, della Svp.
Tra i big, hanno detto di sì alla pubblicazione in rete dei redditi anche Massimo D’Alema e la vice presidente della Camera Rosy Bindi.
Risultato simile al Senato, dove sono cinque quelli che hanno acconsentito alla pubblicazione e 3 quelli che hanno detto no.
Rispetto alla Camera, però, diversa la provenienza politica degli assensi: presenti in Rete i redditi del capogruppo di Coesione nazionale Pasquale Viespoli, del presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro e quello dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri, il presidente dei senatori dipietristi Felice Belisario, il capogruppo Udc Gianpiero D’Alia.
Non disponibili sul sito di Palazzo Madama, invece, i redditi del capogruppo del Carroccio Federico Bricolo, quelli di Giovanni Pistorio, presidente del gruppo Misto, e quelli del presidente dei senatori del Terzo Polo e leader di Alleanza per l’Italia Francesco Rutelli, che però ogni tre mesi pubblica la propria situazione patrimoniale e il saldo dell’estratto conto sul suo profilo Facebook.
Fra quanti, alla Camera, hanno dato l’ok per la pubblicazione in rete dei redditi anche alcuni ex ministri del governo Berlusconi, come Franco Frattini e Renato Brunetta, mentre, almeno per ora, non compare la dichiarazione dei redditi dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e dell’ex titolare della Difesa Ignazio La Russa.
Il numero dei deputati che ha dato il via libera alla pubblicazione dei dati patrimoniali on line è comunque in aumento, dai 205 di febbraio, infatti, gli ‘onorevoli redditi’ in rete sono passati ai 253 di giugno.
Quanto al governo, Monti ha imposto per tutti, se stesso compreso, la pubblicazione on line dei redditi.
E così è stato.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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LA STRANA GUERRA DEI LE PEN: “MARINE? UNA PICCOLO BORGHESE”

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

BUFERA PER UN’INTERVISTA AL TIMES DEL VECCHIO LEADER DEL FRONT NATIONAL CHE POI RETTIFICA: “TRADUZIONE DALL’INGLESE SBAGLIATA”… UNA RISPOSTA ALLA “DEDIABOLISATION” DEL PARTITO DA PARTE DELLA FIGLIA O SOLO UN GIOCO PER OTTENERE PIU’ CONSENSI?

Jean-Marie Le Pen, padre fondatore del Front National, il partito di estrema destra francese, ha definito, apparentemente con un certo disprezzo, la figlia Marine, che ha ora in mano le redini dell’Fn, «una piccolo borghese» in un’intervista pubblicata venerdì sul quotidiano inglese The Times.
Dopo ha cercato di giustificarsi, puntando il dito sulla cattiva traduzione delle sue parole da parte dell’Afp, l’agenzia di stampa francese.
Ma quella definizione ha scatenato diverse polemiche nel campo dei Le Pen.
E alla fine non è chiaro se l’anziano padre, classe 1928, sia davvero geloso del successo della figlia e guardi con diffidenza alla svolta da lei voluta, lo sdoganamento dell’Fn, prendendo le distanze dagli eccessi di Jean-Marie.
O se ci troviamo dinanzi a uno di quegli abili giochini di cui i Le Pen sono capaci per ottenere più consensi possibile.
Marine Le Pen si è imposta alla testa del partito nel gennaio 2011, prendendo il posto del padre, che ha seguito passo passo fin da ragazzina.
Ha portato avanti una politica di dèdiabolisation del Front, abbandonando ad esempio l’antisemitismo di Jean-Marie.
E cercando di presentarsi come un’alternativa di destra ai neogollisti: insomma, una destra moderna come le altre.
Ci è riuscita: alle ultime presidenziali Marine Le Pen ha conquistato il terzo posto, con il 18% dei consensi.
Quel successo è stato ottenuto grazie all’appoggio di un elettorato per lo più popolare, talvolta ex elettori della sinistra.
Ebbene, in questo contesto arriva l’intervista del padre a The Times.
“Io sono un uomo del popolo — ha sottolineato — Sono originario di una famiglia di contadini e di pescatori. Poi sono diventato ufficiale in un reggimento di paracadutisti. Ho avuto una vita, diciamo, virile. Mia figlia, invece, malgrado quello che possa dire, è una piccolo borghese”.
Da sottolineare: quello che ha detto su di sè è vero. Le Pen è di origini modeste. Anche se non ha specificato di vivere in una sorta di castello alle porte di Parigi, dove, appunto, è cresciuta la “borghese” Marine, dagli anni Settanta, grazie alla fortuna colossale ereditata da Hubert Lambert, misterioso uomo d’affari, di cui era diventato amico.
Proprio quell’eredità  è stata sempre contestata dai familiari di Lambert.
Ma ritorniamo al padre e alla figlia. In seguito Jean-Marie ha dichiarato che l’Agence France Presse non ha tradotto correttamente la sua intervista: “Ho detto a little bourgeoise girl“. Sì, una ragazza borghese.
Ma il giornalista Adam Sage ha specificato che Jean-Marie Le Pen ha utilizzato l’espressione in francese.
Per l’anziano politico “non c’è niente di insultante in quello che ho detto. Volevo solo spiegare che io sono nato in un ambiente popolare e lei in uno borghese. Ma mica quello della borghesia dei Dassault o di Laurent Fabius“.
Cioè, nè in una delle famiglie più ricche di Francia, amici e finanziatori di Nicolas Sarkozy, nè in quella dell’attuale ministro degli Esteri, socialista ma originario di una ricca famiglia parigina.
“La strategia di Marine — ha aggiunto — è evitare di concedere ai suoi avversari il meno possibile di angoli di attacco . Ad esempio, tutti quei militanti, coraggiosi e dinamici, che si sono fatti notare semplicemente perchè avevano la testa rasata, sono stati messi da parte”.
Nessuna reazione diretta di Marine.
Ma un esponente del suo entourage, rtmasto anonimo e intervistato dal quotidiano Libèration, ha definito la vicenda “una villania in più dell’anziano Le Pen”.
“Ma tanto le sue parole — ha aggiunto la fonte — non hanno più un impatto all’interno del partito. Più invecchia, comunque, più diventa cattivo”.
Quanto a Florian Philippot, giovane collaboratore di Marine Le Pen, rappresentante della nuova generazione dell’Fn, ha sottolineato che “le parole di Jean-Marie Le Pen non sono state molto simpatiche, ma c’è di peggio”.
Sul fatto che i giovani con la testa rasata siano stati esclusi dai raduni, ha detto di “esserne felice. E’ tutta lì l’azione positiva di Marine”.
Qualcuno, però, a Parigi interpreta tutta la storia come il tentativo dei Le Pen di non perdere la fedeltà  dei “vecchi” militanti del Front, proprio con interventi periodici e ad hoc, all’apparenza imbarazzanti, di Jean-Marie.
Creando polemiche inutili.

Leonardo Martinelli
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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CROLLANO DEL 47% LE EROGAZIONI PER L’ACQUISTO DI CASE ATTRAVERSO UN MUTUO NEL PRIMO TRIMESTRE 2012

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

L’ANALISI DI ASSOFIN, CRIF E PROMETEIA SEGNALANO UN MENO 9,1% GIA’ NEL 2011 RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE

Una sensazione che ora trova conferma con i numeri: nel primo trimestre 2012, le erogazioni dei mutui immobiliari per l’acquisto di nuove abitazioni sono crollate del 47%.
Così secondo la trentaduesima edizione dell’Osservatorio sul credito al dettaglio realizzato da Assofin, CRIF e Prometeia.
Un’analisi che registra una decisa flessione del credito alle famiglie, e non solo per l’acquisto di case.
I FINANZIAMENTI

Succede la stessa cosa anche per altri settori come l’arredamento, l’elettronica, gli elettrodomestici, per cui i finanziamenti sono diminuiti sia nel 2011 (-5,8%) che nel primo trimestre 2012 (-11%).
«In un contesto caratterizzato dalla perdurante incertezza derivante dalla crisi economica e finanziaria ancora irrisolta e da un clima di fiducia che resta su valori minimi – si legge nel rapporto dell’Osservatorio – le famiglie italiane hanno limitato i consumi e si sono dimostrate molto prudenti nell’accensione di nuovi finanziamenti. In particolare i consumi di beni durevoli, per l’acquisto dei quali più frequentemente si ricorre ad un finanziamento, hanno registrato una netta contrazione, mostrando una flessione in linea con quella rilevata per i flussi di credito al consumo».
I MUTUI
Per quanto riguarda i mutui, nel 2011 le erogazioni hanno subito una contrazione del 9,1% rispetto all’anno precedente.
Calo che è diventato un vero e proprio crollo (-47%) nei primi tre mesi del 2012.
A scoraggiare la richiesta di finanziamenti per la casa, l’aumento dei tassi di interesse applicati ai nuovi contratti, ma, ovviamente, anche l’irrigidimento dei criteri di concessione.
Il calo più deciso è però riservato agli altri mutui (per ristrutturazione, liquidità , consolidamento del debito, surroga e sostituzione): dopo il -24,9% del 2011, nei primi tre mesi del 2012 sono scesi dell’80% rispetto allo stesso periodo del 2011.

Corinna De Cesare
(da “Il Corriere della Sera“)

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ORA SCILIPOTI SCRIVE A MOFFA: “CHIAREZZA O ME NE VADO”

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

IL SUO GRUPPO VOTA PRO-FORNERO, LUI VUOLE LE DIMISSIONI DEL MINISTRO E SCOPPIA LA GUERRA ALL’INTERNO DI “POPOLO E TERRITORIO”

Il suo gruppo ha votato contro la mozione di sfiducia al ministro Fornero e lui ha minacciato di andar via.
E’ tornato sugli scudi Domenico Scilipoti, che ha confermato di esser pronto a lasciare Popolo e Territorio dopo la scelta del partito, a suo avviso “inaccettabile”, di schierarsi al fianco della titolare del Welfare al momento di esprimere un parere sulla sfiducia individuale.
Un dissenso che Scilipoti ha messo nero su bianco in una lettere indirizzata al capogruppo Silvano Moffa: “Un ministro — ha scritto Scilipoti — che si è macchiato di gravi errori, come quello che riguarda la vicenda degli esodati, e che, tra l’altro, ha firmato una delle riforme del lavoro più devastanti, degli ultimi vent’anni”.
Scilipoti ha rimproverato a Moffa di aver deciso “senza convocare prima il Gruppo” e ora chiede chiarezza.
“Ti prego di voler convocare, con urgenza, una riunione dove spiegare le ragioni di una scelta così singolare e difficilmente comprensibile al fine di fare chiarezza e confrontarci” ha chiesto l’onorevole ex ‘Responsabile’.
Poi la minaccia: “Non ti sarà  difficile — ha detto Scilipoti — comprendere che in mancanza di motivazioni più che valide, per mantenere la mia coerenza, dimostrata fin da quando ho deciso di sostenere il governo Berlusconi, mi vedrò costretto ad abbandonare il Gruppo di Popolo e Territorio”.

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ULTIMA CHIAMATA: IL VENTENNIO PERDUTO DELL’ITALIA

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

DEBITO PUBBLICO, PIL E REDDITI: IL PAESE DELLE OCCASIONI SPRECATE

Dagli all’Europa, che inchioda i cittadini a pagare per scelte su cui non possono decidere.
In questi mesi non si sente altro: se la crisi è diventata una camicia di forza è colpa di Bruxelles e della Bce; se i governi sono costretti all’austerity di bilancio è colpa della moneta unica.
Nel gran ballo mediatico l’Europa è sempre tirata per la giacca: c’è chi la critica perchè avrebbe avallato alla guida dei paesi membri tecnocrati graditi ai mercati internazionali, sospendendo il gioco democratico.
E chi ne vorrebbe di più per imporre alla Germania di Angela Merkel maggiore solidarietà  verso la casa comune europea.
In tutti i casi è diventata l’alibi comodo dei nostri fallimenti, anche se la sua sovranità  è sempre ciò che gli stati nazionali lasciano che sia.
Se ci sono leader coraggiosi progredisce verso gli Stati Uniti d’Europa, dando fondamento alla moneta unica, altrimenti rincula miseramente come in questi anni.
L’impressione è che con il baratro italiano l’Europa matrigna, lo spread, la Bce e l’euro c’entrano nella misura in cui una moneta comune senza istituzioni condivise resta appesa ad ogni vento.
E’ questa l’ambiguità  di Maastricht.
Ma la bassa crescita e le non riforme che ci espongono alla speculazione sono un problema che ci trasciniamo da 20 anni, il riflesso del fallimento della Seconda Repubblica, morta delle troppe promesse mancate di chi (destra e sinistra ognuno pro quota per gli anni di governo) ha preso in mano un paese uscito dall’abisso del 92-93, doveva riformarlo per tenerlo al passo della globalizzazione, invece lo ha ricacciato nel baratro, costringendo i tecnici a tornare in campo. Un’altra volta.
Lo dicono i numeri.
Se compariamo 20 anni dopo i principali indicatori del sistema paese (debito, spesa pubblica, Pil, redditi, evasione, pressione fiscale, produttività , Borsa, dualismo nordsud e commercio mondiale) scopriamo infatti che l’Italia del 2011 ereditata dal governo Monti è messa uguale, se non peggio, al terribile 1993, quando nasce in emergenza la Seconda Repubblica e, da Maastricht, comincia il lungo viaggio verso la moneta unica.
Debito pubblico
Un buco più grande nonostante 800 miliardi di euro di minori tasse.
La crisi mondiale ci restituisce un paese con un debito pubblico che a fine 2011 ha toccato il 122% del Pil, 6,5 punti sopra il livello del 1993, quando il salvataggio della lira varato dai governi Amato e Ciampi avvia la ritirata dello stato imprenditore.
In 15 anni (1993-2007) l’Italia ha fatto meglio di qualsiasi altro paese europeo, privatizzando 186 società  e incamerando 146 miliardi di euro (il 24% di tutte le dismissioni Ue).
Sono gli anni dello yacht Britannia, la leggenda delle privatizzazioni all’italiana, quando i finanzieri anglosassoni avrebbero deciso la spartizione del patrimonio industriale tricolore.
Peccato che, ex post, si sia trattato di una rivoluzione mutilata: il patrimonio netto dello Stato non è praticamente diminuito e la maxi vendita si è ridotta ad una grande operazione di cassa a parziale e temporanea riduzione del debito pubblico (sceso al 103% del 2004 ma poi riesploso oltre il 120%).
Soprattutto, il paese ha gettato al vento la grande occasione dei bassi tassi di interesse. «Per quasi 15 anni, fino alla prima metà  del 2011 — calcola l’economista Giovanni Ferri, ex Banca Mondiale oggi membro del Banking Stakeholder Group dell’Eba — grazie all’euro abbiamo pagato tassi ‘tedeschi’. Contando un calo prudenziale dello spread di 400 punti sul periodo pre euro, si arriva a 60 miliardi di minori interessi l’anno. Ottocento miliardi nei 15 anni di bonus tedesco. Se li avessimo usati per ridurre il debito pubblico oggi avremmo un rapporto debito/Pil del 70% invece che del 120, e non saremmo nel mirino della speculazione. Per questo, un giorno, qualcuno dovrà  chiedere conto ai nostri politici, di destra e di sinistra, che cosa ci avete fatto col bonus tedesco?»
Pil e redditi
Il Paese non sa più crescere: giù ricchezza e produttività 
L’Italia, nord produttivo compreso, nell’ultimo ventennio ha perso per strada un punto e mezzo medio di crescita strutturale, passando dall’1,5% allo «0 virgola» degli anni duemila.
La distanza accumulata rispetto agli altri paesi dell’eurozona vale circa 300 miliardi di minor ricchezza prodotta ogni anno.
Se accorciamo il focus, nel 2010 il Pil tricolore era appena il 3,8% sopra il livello del 2000.
Significa che in rapporto alla popolazione, nel frattempo salita del 6,2% grazie all’immigrazione, è sceso in termini reali del 2,3%.
Si tratta della peggior performance tra i paesi avanzati: ha fatto +7,6% il Giappone (in deflazione da 20 anni), +9,5 la Germania, +11,8 la Francia, +16,7 gli Usa, +18,1 la Gran Bretagna.
Se dunque la crisi mondiale, la speculazione e la dittatura dello spread cominciano dal 2008, la stagnazione italiana è precedente.
Lo dimostra anche la serie storica del Pil pro capite: nel 1990 era del 2% inferiore a quello dei tedeschi, nel 2010 il solco si è allargato al 15%, nonostante i pesanti oneri dell’unificazione tedesca.
Quello con la Francia si è ampliato dal -3 al -7%.
Con Londra si è addirittura passati da un vantaggio del 6% a un delta negativo di 12 punti. Il risultato è che nel 1990 il nostro Pil per abitante valeva il 107% della media Ue, nel 2011 è sceso al 94%.
«Il reddito medio annuo delle famiglie italiane nel 2010, al netto delle imposte e dei contributi sociali, risulta pari a 32.714 euro, cioè 2.726 euro al mese, una cifra inferiore in termini reali del 2,4% rispetto a quello riscontrato nel 1991», conferma Bankitalia. E ancora.
Fatta cento la produttività  (Pil per ora lavorata) degli Usa, nel 1990 l’Italia misurava 87. Nel 2010 è crollata a 75, 12 punti meno.
Dov’è la colpa dell’euro?
Nord-Sud: 20 anni sprecati aumenta il divario tra le due Italie
In termini di reddito prodotto, quello meridionale resta inchiodato al 59-60% di quello del nord Italia.
Un divario cresciuto nell’ultimo ventennio (nel 1993 si attestava intorno al 63%), quando in Italia si afferma il paradigma leghista del Paese duale alla cui base c’è un dogma: il Sud è la palla al piede del Nord.
Il Meridione è solo spreco e il Nord deve liberarsene altrimenti sprofonda. Una lettura dei «territori separati» che ha egemonizzato il discorso pubblico, trasformando il sud nella panacea di tutti i mali del Nord, anch’esso in crisi.
Persino la stagione dei Patti per lo sviluppo promossa da Carlo Azeglio Ciampi, e la strategia di far passare le risorse finanziarie direttamente attraverso le regioni, hanno risentito di questa impostazione localista.
Quel che invece non si è interrotta è la spirale spesa pubblica buona/ spesa pubblica cattiva.
Quella cosiddetta discrezionale, cioè per sussidi e servizi, fatta 100 la quota a disposizione di un cittadino del nord, è schizzata a 106 per ogni abitante del sud; quella in conto capitale, cioè per gli investimenti, fatta sempre 100 la quota girata al nord, al sud è crollata a 87. In sostanza nell’ultimo ventennio (dopo che nel trentennio 1950-1970 si era ridotto di 20 punti) non solo si è riallargato il gap Nord-Sud nelle risorse prodotte, ma si sono perpetuati i vizi nei trasferimenti dallo stato centrale al mezzogiorno: più risorse per consumi e clientele, meno per strade, scuole e infrastrutture.
Economia sommersa
Evasione fiscale invincibile anche dopo Mani Pulite
L’Italia del Dopoguerra è un paese che fonda il proprio accumulo di benessere su una costituzione materiale distorta: un settore pubblico sterminato e inefficiente usato da ammortizzatore sociale; un settore privato e di piccola industria spina dorsale del paese a cui si concede, quasi a compensazione, il vizietto dell’evasione.
Col tempo la prassi degenera: il piccolo «nero» si fa grande evasione, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione.
Dai «giovani» pensionati ai doppiolavoristi del pubblico impiego e delle grandi aziende private, dalle casalinghe che fanno i mestieri agli insegnanti che danno lezioni private.
Finchè il patto improprio ha funzionato ha prodotto ricchezza per tutti, ma da fine anni 90, con l’ingresso in Europa e la concorrenza globale, il Bengodi è finito. Secondo stime recenti dell’Istat, il valore aggiunto dell’economia sommersa vale tra il 16 e il 17,5% dell’intero Pil.
Vuol dire che nel nostro paese ogni anno circolano abusivamente tra i 255 e i 275 miliardi non dichiarati. In termini di gettito, si tratta di almeno 7 punti di prodotto interno lordo, grosso modo 100 miliardi l’anno di mancati incassi per l’erario.
Una cifra mostre, simile a quella di 20 anni fa, quando il sommerso oscillava tra il 15 e il 18% del Pil.
Se poi guardiamo i redditi dichiarati da imprenditori e liberi professionisti, si scopre che in Italia il peso delle loro tasse sul totale delle imposte riscosse è sceso dal 13,2% del 1993 al 5% del 2010 per i primi, dal 7,6% al 4,2% per i secondi.
Economia sommersa
Borsa e made in Italy
Piazza Affari in caduta libera. Export in frenata
La globalizzazione ha stravolto la mappa economica planetaria, trasferendo a Oriente ricchezza, potere e commerci.
Nella classifica del commercio globale l’Italia è scesa dal 4,8% del 1993 al 3,1% del 2011, dal quinto al settimo posto.
Certo la nostra forza rimane l’export. Ma secondo l’Ocse stiamo rallentando. Nell’ultimo ventennio quello italiano è cresciuto del 113% contro il 260% della Germania e il 152% della Francia.
Nel 1990 le nostre esportazioni valevano il 54% di quelle di Berlino e il 96% di quello di Parigi; l’anno scorso siamo scesi rispettivamente al 32 e all’81%.
Se poi guardiamo alla Borsa, la foresta rimane pietrificata: il 40% delle aziende di Piazza Affari mantiene un’azionista di riferimento pubblico. Lo stesso numero di società  quotate al 2011 (271) è fermo da un decennio.
Nel 1993 erano poco meno: 222. Non basta. Tra le cosiddette multinazionali tascabili del «Quarto capitalismo», meno di 20 sono quotate.
La Borsa nell’ultimo ventennio è dunque servita a fare cassa in vista dell’euro, non a creare un moderno mercato dei capitali.
Il risultato è che a fine 2011 Piazza Affari, con una capitalizzazione pari al 20,7% del Pil, si colloca al 20esimo posto al mondo, preceduta anche dai listini dei mercati emergenti: Brasile (64,9% del Pil), Russia (72,8%) e Sudafrica (207%). E dire che ancora nel 2001 la piazza milanese era ottava al mondo, con una capitalizzazione pari al 50% del Pil.
Tasse
«Flat tax», il sogno tradito della Seconda Repubblica
La progressione delle tasse in Italia comincia negli anni 80, quando la pressione fiscale era del 30%, per salire al 35 a metà  decennio, in parallelo all’esplosione del debito pubblico.
Nel ’92, sull’orlo della bancarotta, sfonda la soglia del 40% per non tornare più indietro, anzi. Il record del 43,9% del 1997 verrà  infranto alla fine di quest’anno quando le tasse saliranno all’astronomico 45,1% (+2,1% sul 2011).
E ancora di più nel 2013, quando la proiezione è di un insostenibile 45,4% nominale, perchè depurato dall’evasione schizza al 55% per chi le imposte è costretto a pagarle fino all’ultimo centesimo.
Solo negli ultimi 7 anni, tra il 2005 e il 2012, la pressione fiscale è salita di 4,7 punti di Pil. In media un punto di tasse in più ogni 532 giorni.
Altro che aliquota unica Irpef al 33%, la mitica «flat tax» annunciata dal Berlusconi del 1994, scritta a chiare lettere nel programma economico firmato Antonio Martino che tanto fece sognare gli italiani.
Se analizziamo la speciale classifica del salasso, calcolata sull’arco temporale 1995-2011, le rispettive coalizioni che si sono alternate al governo ,si sono praticamente equivalse: una media pressione fiscale del 42,6% per i governi di centrosinistra, una media pressione fiscale del 42% per i governi di centrodestra. Entrambi, liberisti immaginari!
Spesa pubblica
Il trionfo del partito unico della spesa (corrente)
Nell’ultimo decennio la spesa pubblica primaria, al netto degli interessi sul debito, è aumentata di 141,7 miliardi di euro (+24,4%).
Toccando, nel 2010, quota 723,3 miliardi (46,7% del Pil), pari a 11.931 euro spesi per ciascun cittadino (1.875 in più rispetto al 2000). Nel 2011 lo stato ha invece speso il 45,5% del Pil, superando il livello del 1993 (43,5%).
La cruda verità  è che nella Seconda Repubblica si è fatto pochissimo per intervenire sui flussi di spesa pubblica.
Tranne il governo Ciampi (-0,54% nel biennio 93-94) e il primo Berlusconi (-1,20% nel 94-95), tutti gli esecutivi l’hanno aumentata: +6% il Prodi 96-98, addirittura +16,9% il Berlusconi 2001-2006, intaccando l’avanzo primario, fondamentale nei paesi ad alto debito per garantire la sostenibilità  dei conti.
Non solo.
In questo ventennio la forte riduzione della spesa per interessi si è accompagnata ad un’esplosione delle uscite correnti, per quasi 2/3 fatte da stipendi della Pa e prestazioni sociali. In un raffronto impietoso 1995-2012 fatto dall’Eurostat, l’Italia è il paese che ha registrato la maggior crescita cumulata di spesa corrente primaria: +5,9% contro il 3,6% della Francia, il 3,3% della Spagna, il -0,8% della Germania e una media dell’Eurozona pari al 2,2%.
Troppe cicale al governo e troppo poche formiche.
Marco Alfieri

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MONTI GUARDA LONTANO : “IO NEL 2013? STO VALUTANDO”

Luglio 9th, 2012 Riccardo Fucile

“C’E’ CHI VUOLE COLPIRE L’EURO”… “RISPETTARE I PATTI DI GIUGNO”

Così, per la prima volta, e fuori dai confini nazionali, il Professore lascia trapelare una velata disponibilità  a proseguire la sua opera anche dopo il 2013.
Se gli sarà  chiesto, se le forze politiche che lo sostengono anche dopo le politiche lo riterranno necessario.
Lui resta a guardare
Al tavolo del ristorante dell’hotel «Le Pigonnet» di Aix en Provence, sabato sera, con il premier Monti siedono il procuratore Antimafia Piero Grasso e l’ex ministro Franco Frattini, anche loro invitati a intervenire alla tre giorni del prestigioso «Circle des economistes».
I diplomatici del Consolato italiano a Marsiglia e pezzi dello staff di Palazzo Chigi.
A un certo punto si avvicina per un saluto anche l’anziano ex presidente francese Valerie Giscard D’Estaing.
Al capo del governo italiano viene chiesto dai commensali se non sia il caso di annunciare una disponibilità  di massima a restare al suo posto anche dopo il voto.
I mercati continuano a navigare in pessime acque, i partiti di maggioranza sembrano proiettati verso le larghe intese.
Monti, sotto i tendoni bianchi dell’elegante albergo, si schermisce. Ma la sua suona come una parziale apertura.
Sostiene di non essere «del tutto convinto che sia arrivato il momento di dare una disponibilità  a proseguire questa esperienza di governo ».
Se lo facesse adesso, prosegue, forse non farebbe «il bene del governo» che si trova a guidare.
«Presidente, se non adesso, verrà  un momento in cui sarà  necessario, forse a settembre, ottobre, quando l’ipotesi di elezioni anticipate sarà  definitivamente tramontata» gli fanno notare. Il premier non dà  un assenso, ma non si oppone nemmeno all’ipotesi.
Sospira, lascia cadere lì l’argomento.
Il fatto è che anche a Roma se ne inizia a parlare con maggiore schiettezza.
A Monti, raccontano, non sono sfuggite le aperture di questi giorni di un falco berlusconiano come Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl.
E adesso anche ministri del suo governo alludono.
L’ultimo ieri Piero Gnudi: «Monti è una risorsa per il Paese su cui si dovrà  far conto».
Già , ma è una questione, quella del futuro politico del Paese, che intreccia i destini economici e che dunque inizia a pesare anche su scala internazionale.
Lo ammette in un certo senso lo stesso premier quando, parlando coi giornalisti a margine del suo intervento al simposio economico sulla «Ricerca di un nuovo equilibrio mondiale», sostiene per la prima volta in pubblico che sull’innalzamento dello spread influisce anche l’incertezza su quel che accadrà  in Italia dopo il 2013.
E’ stato tempestato di domande su che ne sarà  del Paese dopo Monti anche l’ex ministro Franco Frattini, quando due giorni fa si è ritrovato sotto un fuoco di fila di amministratori delegati di società  francesi e non, invitati a un seminario del Credit agricole nella stessa Aix
Il presidente del Consiglio di questo è consapevole, ma è un nodo politico che andrà  affrontato, se altri lo riterranno, dopo l’estate.
Intanto c’è da difendere l’intesa siglata al Consiglio europeo il 29 giugno e il meccanismo antispread ideato da Palazzo Chigi e avversato adesso da Olanda e Finlandia. Monti ha raggiunto Bruxelles già  ieri sera per preparare il delicato Eurogruppo di oggi. La preoccupazione è tanta, a Palazzo Chigi.
«Ma quello di giugno è un accordo siglato e scritto – si fa notare – . Nessuno lo può mettere in discussione. Se qualcuno lo vorrà  fare, significherebbe compromettere la stabilizzazione dei mercati della Ue».
Il sospetto è che, se dovessero insistere nel frenare, Olanda e Finlandia puntino in realtà  a creare le condizioni per uscire loro dall’eurozona. Ma ovviamente si tratta di una pura ipotesi.
Sullo sfondo di queste inquietudini, è stato lungo e fruttuoso il faccia a faccia avuto ieri mattina da Monti, nei giardini dell’hotel di Aix, con il ministro delle Finanze francese Serge Moscovici.
I due «ministri» economici hanno concordato – come avvenuto al Consiglio europeo nel gioco di sponda con Hollande – una strategia comune per affrontare l’offensiva dei paesi «ostili» del Nord Europa.
Con Moscovici l’intesa è piena sulla necessità  di contenere il debito ma anche di costruire meccanismi efficaci per difendere l’euro nel breve periodo.
Ancora una volta, oggi pomeriggio, sarà  decisivo superare le perplessità  tornate ad affiorare
nella cancelleria tedesca.
Monti una stoccata l’ha lanciata anche sotto i riflettori del Circolo degli economisti che lo hanno applaudito e ricevuto con tutti gli onori in Francia. Sarà  importante che «la Germania non si leghi a un senso dell’immediato, ma che lavori sul lungo termine».
Che ragioni in grande, insomma.
C’è un’Europa da costruire, al di là  dei timori del momento, una governance da rendere più credibile.
«Ce lo chiede l’Asia, l’America: l’alternativa è trasformare l’Unione in una creditocracy».
Non c’è tempo da perdere, ripeterà  oggi a Bruxelles il Professore.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)

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