Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
E UN TERZO DELL’EVASIONE OFFSHORE VIENE DAI PAESI IN VIA DI SVILUPPO
I numeri che nelle ultime ore stanno facendo onde alte in mezzo mondo sono questi: almeno 21 mila miliardi di dollari (circa 15 mila in euro), sarebbero depositati in paradisi fiscali.
Forse 32 mila.
In conti protetti, a bassissimo regime di tassazione nei soliti luoghi,
Svizzera, Cayman Islands, Bermuda, Irlanda, Singapore e via dicendo.
È come prendere le intere economie di un anno di Stati Uniti e Giappone e nasconderle sotto il tappeto.
Oppure, nel caso della stima più alta, due volte il Prodotto lordo americano.
Denaro in sonno, non usato a scopi produttivi e nemmeno tassato nel luogo in cui è stato prodotto.
Una buona fetta di questo – tra i 7,3 e i 9,3 mila miliardi – di proprietà di residenti in Paesi in via di sviluppo.
Questa è solo la ricchezza finanziaria nascosta: non sono calcolate opere d’arte, immobili, gioielli, yacht domiciliati negli stessi paradisi.
Le cifre colossali risultano da uno studio realizzato per il gruppo di attivisti Tax Justice Network da James Henry, esperto di tassazione, ex capo economista della società di consulenza McKinsey.
È stato pubblicato ieri dal settimanale britannico Observer. Per arrivare alle sue conclusioni, Henry ha incrociato una serie di fonti, compresi dati della Banca per i regolamenti internazionali e del Fondo monetario internazionale.
Ne risultano stime che forniscono una narrazione interessante dei movimenti della ricchezza nell’era della globalizzazione.
Stime che però vanno trattate con prudenza e che possono essere lette da diverse angolazioni.
I 21-32 mila miliardi di dollari sono quanto sarebbe finito nei paradisi tra il 1970 e il 2010.
Il risultato di movimenti di capitale favoriti – come dice lo stesso Henry – «da uno stormo di facilitatori professionisti altamente pagati e industriosi nei settori del private banking, della professione legale, della contabilità e dell’investimento».
Una parte di questi spostamenti sarebbe avvenuta in forma di flussi di capitale. Un’altra attraverso fatturazioni false.
Dei 6.500 miliardi di dollari che per esempio sarebbero usciti illegalmente dai Paesi in via di sviluppo tra il 2000 e il 2008, 3.477 deriverebbero da fatture truccate che hanno consentito di creare offshore patrimoni non identificabili dalle autorità : il 60% dalla Cina, l’11% dal Messico, il 5% dalla Malaysia, il 3% da India e Filippine.
Nello stesso periodo, invece, sarebbero usciti per vie diverse, ma sempre illegali, 427 miliardi di dollari dalla Russia, 302 dall’Arabia Saudita, 268 dagli Emirati Arabi, 242 dal Kuwait, 152 dal Venezuela.
Lo stesso fenomeno Henry lo misura nei Paesi sviluppati, naturalmente.
Da una parte, individui ricchi e certe multinazionali usano vie illegali per evadere il Fisco: la ricerca individua abusi da parte di imprese nel commercio di banane, di minerali, di grano, di legno, nella finanza e nella gestione di contratti di proprietà intellettuale.
Dall’altra, questo denaro mobile trova punti deboli nelle legislazioni nazionali che consentono quell’elusione ai confini delle regole che va sotto il nome di pianificazione fiscale internazionale. La gestione della ricchezza da parte di grandi banche globali è uno dei modi che Henry ha utilizzato per le sue stime (fa l’elenco delle prime 50 nella gestione del denaro, in testa Ubs, Credit Suisse, Goldman Sachs).
Per illustrare il suo metodo, Henry cita anche l’enorme domanda, apparentemente inspiegabile, che si è sviluppata nel corso degli anni per i biglietti da cento dollari e la loro bassissima velocità di circolazione; una serie di redditi mancanti nelle statistiche internazionali; le frequenti diversificazioni di portafoglio (per fare uscire denaro da un Paese) e altri indicatori.
Il risultato è la stima stratosferica della «ricchezza» dei centri offshore.
Che l’evasione e l’elusione siano enormi è risaputo.
La cifra di 21-32 mila miliardi di dollari ha però suscitato qualche perplessità : difficile immaginare che un forziere del genere se ne stia più o meno in sonno, in un mondo dove «il denaro non dorme mai».
«Ci sono chiaramente quantità significative nascoste – ha commentato alla Bbcil direttore dell’Ufficio per la semplificazione fiscale britannico, John Whiting –. Ma, se veramente è quella la misura, cosa sta facendo tutto quel denaro?». Whiting non ha elementi per contestare le cifre ma sostiene che «l’ipotesi che un ammontare del genere sia attivamente nascosto e mai usato sembra strana».
Lo studio di Henry pone ovviamente la questione delle mancate tasse raccolte dagli Stati. Ma anche quella dell’ingiustizia sociale.
L’economista calcola che il 30,3% della ricchezza finanziaria mondiale sia nelle mani di 91.186 happy few: si tratta di 16,7 mila miliardi di dollari, 9,7 dei quali se ne starebbe offshore.
Una super èlite di redditieri e donne e uomini d’affari occidentali seduti allo stesso desco di nababbi del petrolio, dittatori africani ed emergenti asiatici e sudamericani.
Se si apre un po’ il ventaglio, poco più di nove milioni di cittadini – membri d’onore di una più sobria (si fa per dire) «èlite globale» che controlla oltre l’80% della ricchezza liquida del pianeta – avrebbero depositato offshore 19 mila e seicento miliardi di dollari. Paradisi, nel senso di mondi paralleli e invisibili.
Danilo Taino
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
NICOLE ALZA LA POSTA: LE DEVE ESSERE ASSICURATO L’ACQUISTO DI UN CENTRO BENESSERE A LOS ANGELES E UN APPOGGIO CON GLI AMBIENTI DEI SERIAL AMERICANI… SOLO COSI’ UFFICIALIZZERA’ L’ADDIO ALLA POLITICA
Nicole Minetti alza la posta in palio. 
Aveva già deciso di lasciare il suo seggio in consiglio regionale ben prima delle uscite severe di Daniela Santanchè e Angelino Alfano: troppo forte la pressione mediatica e politica.
Aveva già deciso tutto, le sue dimissioni erano attese ad horas, aveva già chiarito tutto ai suoi tre “angeli custodi” (Maria Clotilde Strada, Doriano Riparbelli, Giancarlo Serafini) ma la consigliera riminese eletta in Lombardia non è ancora passata dalle intenzioni ai fatti.
Anzi, secondo un retroscena pubblicato dal Secolo XIX, la Minetti avrebbe rilanciato: mi dimetto in cambio di un aiuto economico.
L’organizzatrice delle serate di Arcore vorrebbe infatti rilevare un centro benessere di Los Angeles e soprattutto entrare nel mondo della fiction statunitense.
Da una parte, racconta il quotidiano genovese, potrebbe avere una strada aperta grazie alla nuova amicizia con Gary Dourdan, che è stato uno dei protagonisti del Csi di Grissom.
Ma l’altra dovrebbe essere le conoscenze che certamente il Cavaliere ha messo insieme nei suoi trent’anni da imprenditore televisivo.
Così la Minetti è andata in retromarcia. “Colpita dall’affetto dei suoi sostenitori” (così si sarebbe definita) ha deciso di pensarci ancora un po’ su.
Una decisione che appariva precipitosa per dare campo libero all’ennesima ricandidatura di Berlusconi a presidente del Consiglio, la più difficile delle cinque precedenti anche e soprattutto per l’imbarazzante eredità lasciata dai Bunga bunga dei quali, volente o nolente, Nicole è diventata una delle icone.
Invece no: il passo indietro dell’ex soubrette romagnola è dovuta alla paura che la giunta di Formigoni possa cadere da un mese all’altro sotto le bordate dell’inchiesta giudiziaria che vede al centro della scena alcuni dei suoi amici più stretti.
Da qui la piattaforma da presentare a Berlusconi in cambio delle dimissioni entro l’inizio dell’autunno e la ripresa della stagione politica che porterà alle elezioni politiche.
D’altro canto la questione Nicole è sempre stata un affare privato dell’ex presidente del Consiglio: nelle liste elettorali è finita perchè voleva il capo, la volontà di dimettersi è stata resa nota solo al capo (e non ad Alfano, creando una notevole commedia degli equivoci all’interno del Pdl, sottolinea il Secolo XIX) e ora, per contro, questo nuovo rallentamento di cui sa solo il capo.
Al rovescio nessuno sapeva nel partito quello che la Minetti conosceva benissimo già da tempo: Berlusconi si vuole ricandidare.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
IN CIMA ALLA LISTA NERA I CAPOLUOGHI DI CAMPANIA E SICILIA… BOOM DI COMMISSARIAMENTI NEGLI ULTIMI DUE ANNI
Ci sono dieci grandi città italiane con più di 50 mila abitanti che sono ad un passo dal crac.
Napoli e Palermo in cima alla «lista nera», anche se da settimane una task force a Palazzo Chigi sta facendo di tutto per evitare il peggio.
Poi Reggio Calabria, finita in rosso già nel 2007-2008 ed ora oggetto di un’inchiesta della magistratura.
E poi tante altre amministrazioni, grandi e meno grandi (come Milazzo), magari fino ad oggi virtuose, potrebbero essere costrette a chiedere il «dissesto», che significa scioglimento della consiglio, entrata in campo della Corte dei Conti e commissario prefettizio.
L’ultimo colpo, o se vogliamo il colpo di grazia, sta infatti per arrivare: è una norma inserita nel decreto sulla spending review che nelle pieghe delle nuove regole che impongono l’«armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio» impone di svalutare del 25% i residui attivi accumulati sino ad oggi. Si tratta di entrate contabilizzate ma non ancora incassate, come possono essere i proventi delle multe e le tassa sui rifiuti.
Cifre importanti, che servono a «fare» il bilancio di un ente che spesso, per prassi, gonfia queste voci pur sapendo di non riuscire a poter incassare il 100% degli importi messi a bilancio.
Incassi spesso molto dubbi insomma, che ora non possono più servire a far quadrare i conti.
«A rischio sono almeno una decina di grandi città » confidano i tecnici del governo che stanno monitorando la situazione.
«La situazione sta diventando ogni giorno più difficile», conferma il presidente dell’Anci Graziano Del Rio. Che punta il dito contro l’ennesimo taglio dei trasferimenti, contro le misure introdotte dalla spending review, e che rilancia l’allarme di tanti colleghi sindaci.
«Tagliando di colpo i residui attivi è chiaro che i bilanci non quadrano più».
Di per sè il principio, argomenta Del Rio, non sarebbe nemmeno sbagliato, «ma serve più gradualità per dare tempo ai sindaci che hanno utilizzato questa modalità di adattarsi. Perchè altrimenti anche Comuni virtuosi, come ad esempio Salerno, a questo punto sono a rischio».
In base ai dati a disposizione del Viminale il fenomeno dei Comuni che hanno dichiarato il dissesto negli ultimi due anni è letteralmente esploso: da 1-2 casi all’anno si è passati a circa 25, comprese anche amministrazioni del Centro-Nord dove questo tipo di fenomeno fino a ieri era sconosciuto.
Eclatante il caso di Alessandria, il cui sindaco solo poche settimane fa, ha gettato la spugna sotto il peso di 100 milioni di euro di debiti.
Stessa sorte in precedenza era toccata a Comuni più piccoli come Riomaggiore (Sp), Castiglion Fiorentino e Barni in provincia di Como.
C’è un problema di tenuta dei bilanci e ce n’è uno ancora più forte di cassa.
Che spesso il sindaco di turno si trova vuota.
Perchè la centralizzazione della Tesoreria decisa di recente ha sì fatto affluire alla cassa nazionale qualcosa come 9 miliardi di liquidità aggiuntiva ma, al tempo stesso, ha reso più complicato da parte degli enti poter beneficiare di anticipazioni da parte del sistema bancario.
Prima col proprio tesoriere municipale ogni sindaco poteva contrattare e in casi di emergenza otteneva liquidità praticamente anche gratis, ora se si rivolge ad una banca deve certamente pagare gli interessi.
Ammesso che il prestito riesca ad ottenerlo.
A tutto ciò occorre poi aggiungere gli ennesimi tagli ai trasferimenti imposti dalla spending review: 500 milioni già entro fine 2012 e 1 miliardo all’anno dal 2013.
«A 4 mesi dalla chiusura dei bilanci 2012 – spiega Del Rio – anche i 500 milioni di tagli ai trasferimenti previsti per quest’anno sono molto pesanti. Rappresentano una quota molto importante dei nostri bilanci e cancellarli così di colpo non solo crea altri problemi di cassa ma sconvolge anche gli obiettivi del patto di stabilità ».
Per questo l’associazione dei Comuni, che domani tornerà a manifestare a Roma contro i nuovi tagli, manda a Monti un messaggio preciso: «Attenzione a forzare la mano, perchè avanti di questo passo il giorno in cui comuni come Milano, Napoli e Torino usciranno dal patto di stabilità basterà questo solo gesto a scassare i conti dell’intero Stato».
Conclude Del Rio: «Siamo disponibili a ragionare, ma le cose vanno fatte con criterio. E soprattutto bisogna tenere conto che come Comuni negli ultimi anni abbiamo già dato 22 miliardi di euro».
Paolo Baroni
(da “La Stampa”)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
L’IMMOBILE NEL ROGITO E’ STATO INDICATO AL PREZZO DI 3 MILIONI DI EURO, MA PER L’EX ASSESSORE REGIONALE BUSCEMI VALEVA ALMENO 9 MLIONI… UNO SCONTO GIUSTIFICATO DALLA NOMINA DI ALESSANDRA MASSEI AI VERTICI DELLA SANITA’ LOMBARDA
Roberto Formigoni ripete: “Non ho ricevuto un euro da Daccò”. 
Eppure l’informativa della polizia giudiziaria che Il Fatto Quotidiano ha potuto leggere, elenca puntigliosamente “le utilità a favore del presidente di Regione Lombardia”: 3,7 milioni in yacht, 800 mila euro in vacanze ai Caraibi, 70 mila in spese al Meeting di Rimini, 500 mila in ristoranti da grand gourmet, almeno 600 mila in contributi elettorali.
E circa 4 milioni come generoso sconto per l’acquisto della villa ad Arzachena, in Sardegna. Non un euro, dunque, ma almeno 9 milioni di euro sono “le utilità ” di cui ha beneficiato il presidente.
La villa è il pezzo più pregiato del ventaglio di “benefit” elencati nell’informativa ed è anche quello con la storia “politica” più interessante.
Perchè, secondo gli investigatori, ha come “contraccambio” immediato la nomina ai vertici della sanità pubblica lombarda di una persona di assoluta fiducia del superfaccendiere Pierangelo Daccò: Alessandra Massei.
Una villa da favola: in cima alla collina del Pevero, non lontano da Porto Cervo, sette stanze su tre livelli, patio, verande coperte, terrazzo da cui si contempla Cala di Volpe.
Potrebbe essere chiamata “Villa Formigoni”. Formalmente ad acquistarla, nell’ottobre 2011, è Alberto Perego, amico e convivente del presidente della Regione Lombardia.
Ma gli investigatori si convincono che sia di fatto di Formigoni, o almeno “anche” di Formigoni: dopo le “vacanze di gruppo”, ecco una “villa di gruppo”.
Il Celeste, in effetti, il 13 maggio 2011 ci mette del suo: 1 milione di euro. Ma dice che si tratta di un prestito all’amico Perego, che per motivi di salute aveva bisogno di una “casetta” al mare.
Non la pensa così Massimo Buscemi, genero di Daccò, che parla della villa con Formigoni come se il reale proprietario fosse il presidente.
Subito dopo essere stato cacciato dalla giunta (era assessore alla cultura), il 10 febbraio 2012 si precipita minaccioso dal presidente per pretendere in cambio una poltrona altrettanto remunerativa.
Quand’è nell’ufficio del capo, fa partire una telefonata dal suo cellulare, perfido, facendo così intercettare tutto il colloquio.
Che cosa evoca? Proprio la villa in Sardegna. Dice (mentendo) che i magistrati hanno chiamato la moglie, Erika Daccò: “Le chiederanno della casa… e come mai così poco… Tre milioni? Contro 9/10 milioni di valore commerciale! No guarda, siamo nella merda fino a qua, Roberto”. Commenta la polizia giudiziaria: “È evidente che Formigoni nè ha disconosciuto l’operazione, nè contestato le cifre espresse da Buscemi”, che “non si rivolge a Perego, parte acquirente negli atti ufficiali, ma ne parla con Formigoni”.
Insomma: “Buscemi ha la cosciente consapevolezza di interloquire con il reale beneficiario economico dell’operazione o quantomeno uno dei beneficiari”.
L’operazione va in porto il 28 ottobre 2011: viene firmato il rogito.
Per 3 milioni di euro.
Ok il prezzo è giusto? Per Buscemi valeva “9/10 milioni”.
L’immobiliare Brunati l’aveva messa in vendita — e prima delle sostanziose ristrutturazioni — a 7 milioni.
Sulla base delle dichiarazioni di Piero Cipelli, uomo di fiducia di Daccò, la polizia giudiziaria rileva che “il prezzo pagato da Formigoni e Perego altro non è che la mera ‘copertura’ dei costi sostenuti dalla Limes” (società di Daccò) per il terreno, la costruzione e le modifiche successive. E Formigoni che c’entra?
“L’interesse di Formigoni”, mette a verbale Cipelli, “era legato al fatto che la villa l’avrebbe occupata insieme con Perego, almeno così mi disse Perego… Intendo dire che ritengo che la villa sia stata acquistata da entrambi, anche se formalmente solo da Perego”.
Nel bel mezzo di questa operazione, entra in scena Alessandra Massei (oggi indagata per riciclaggio).
Ciellina, bocconiana, in affari di Daccò (“È socia con me nelle operazioni immobiliari in Argentina con la società Avenida”), è stata direttore generale del Fatebenefratelli e direttore amministrativo della Fondazione Maugeri.
Daccò la catapulta ai vertici della sanità pubblica lombarda. È il 29 maggio 2011. Annotano gli investigatori: “Relativamente alla vicenda connessa alla cessione della villa… dopo circa un mese dal preliminare di vendita” la giunta lombarda nomina Massei dirigente regionale con competenze cruciali nella sanità .
“Appare quindi evidente che, nel periodo di maggio-giugno 2011, il ‘controllo’ di Daccò sulla sanità lombarda era in fase di espansione. Le indagini fin qui svolte”, si legge nell’informativa, “hanno permesso di delineare la ‘figura chiave’ di Alessandra Massei nel contesto criminale che ruota attorno alla figura del faccendiere.
La Massei, infatti, è stato uno degli ‘strumenti’ attraverso cui Daccò avrebbe operato il ‘controllo’ su alcune strutture sanitarie”.
E il suo ruolo in Regione “avrebbe consentito a Daccò di esercitare un potere di intervento diretto e immediato sulle strategie politiche e di indirizzo organizzativo-economico della sanità ” in Lombardia.
Gianni Barbacetto e Antonella Mascali
(da “Il Fatto Quotidiano “)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
COMPUTER E SMARTPHONE SI OSTINANO A ESSERE INFALLIBILI. L’ALFANO ELETTRONICO INVECE SI SMENTISCE OGNI DUE MINUTI, BASTA DIRGLI COSA DEVE PENSARE
Lunghe file, attese di ore, ma soprattutto eccitazione e fremito di curiosità .
Era così, ieri, in quasi tutti i centri commerciali del paese, perchè tutti volevano la nuova strabiliante, rivoluzionaria diavoleria tecnologica, l’Alfano Elettronico, il gadget hi-tech più alla moda, più richiesto, invidiato da chi non ce l’ha, esibito con orgoglio da chi lo possiede.
“Non chiamatelo robot — dice un signore che esce trionfante dal negozio con il suo pacco — perchè l’Angelino Elettronico è anche capace di sentimenti. Piange, sa? Si deprime, anche. Ma alla fine ubbidisce sempre”.
Venduto in voluminosa scatola, senza libretto delle istruzioni perchè l’uso è assai intuitivo, l’Angelino Elettronico è ormai un elettrodomestico irrinunciabile nelle case più moderne.
Ma a cosa serve esattamente? “Oh, fa un sacco di cose”, dice un venditore.
“Se in treno lasci il posto lui te lo tiene finchè torni. Se dice una cosa e tu lo smentisci sta zitto e buono. Vuole vedere?”.
Certo che sì: la prova su strada è certamente interessante.
L’apparecchio — straordinariamente somigliante ad Angelino Alfano — si accende silenziosamente.
Poi tuona: “Bisogna fare le primarie!”.
A questo punto basta avvicinarsi e dire: “No”.
Ed ecco l’Alfano Elettronico che cambia espressione e ribatte: “Non bisogna fare le primarie!”.
Straordinario.
E lo stesso per la candidatura a premier, per le dimissioni di Nicole Minetti e per qualunque altro argomento.
E’ lui che comincia, afferma una cosa, poi tutto viene da sè, basta smentirlo e si rimangia la parola in trenta secondi.
“Tutti vogliono un segretario così”, dice lo slogan pubblicitario, e a giudicare dal successo di vendite c’è del vero.
Nella versione Gold, l’Angelino Elettronico porta anche il caffè, rifà i letti, pulisce i bagni della villa e polemizza a comando con gli avversari del suo proprietario.
Sempre pronto, naturalmente, a smentirsi in pochi secondi, addirittura in pochi decimi.
Alessandro Robecchi
(da “MisFatto”)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
DALLA GRANDE BRIANZA ALLA CAPITANATA, I TAGLI DEL GOVERNO CREANO POLEMICHE
La «Provincia della Romagna» e quella del «Gusto» in Emilia, la «Pontino-Ciociara», la
«Grande Brianza», e quella «delle Langhe».
La nuova cartina dell’Italia dovrà prevedere meno della metà delle attuali 107 Province.
E i criteri previsti dalla delibera emanata dal Consiglio dei ministri, 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati, mettono a rischio 64 enti, 50 nelle Regioni a statuto ordinario e 14 in quelle a statuto speciale, salvandone per adesso quindi solo 43, tra cui le 10 Città metropolitane.
Così gli effetti del «riordino» delle geografia (guarda il pop up) delle amministrazioni locali saranno in alcuni casi un ritorno alle origini e ai nomi storici; in altri i territori dovranno trovare la maniera di convivere per svolgere assieme alcune funzioni, come la viabilità e la tutela ambientale.
«L’esito generale della riorganizzazione potrà portare a un numero, con qualche approssimazione, di 40 Province e 10 Città metropolitane», ha spiegato il titolare della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, al termine di un Consiglio dei ministri che è andato avanti sul taglio delle Province, mentre ha soprasseduto sulla impopolare possibilità di sopprimere per quest’anno le festività patronali e Santo Stefano (dettata dalla manovra di Ferragosto scorso).
La novità è che il governo non parla più di «soppressione e accorpamento delle Province», termini che erano stati utilizzati nello spiegare il provvedimento di spending review , allarmando l’Unione delle Province, ma appunto di «riordino» con il pieno coinvolgimento delle autonomie locali.
In base a criteri che tra l’altro sono stati ritoccati rispetto alle più stringenti indicazioni trapelate.
Il precedente tetto dei 3 mila chilometri quadri di estensione poneva problemi irrisolvibili: alle due Province liguri vicine di Savona (1.500 chilometri quadrati) e Imperia (1.150), che insieme non raggiungevano in requisiti, mentre ora potranno fare la Provincia del «Ponente»; Caserta, invece, si estende per 2.600 chilometri, ma ha quasi un milione di abitanti, e Pesaro-Urbino avrebbe dovuto accorparsi con Ancona che è il capoluogo di Regione, e in quanto tale non viene toccato.
Ora saranno i consigli delle autonomie locali, organi di livello regionale, a predisporre un progetto di accorpamento che sarà presentato alla Regione e da questa al governo. «Entro l’anno, se non prima – secondo il ministro – il riordino delle Province sarà legge dello Stato».
Quindi la discussione si apre a livello locale, dove già non mancano le resistenze.
In Toscana tutto l’attuale sistema va ridefinito: la sola Firenze rientra nei requisiti, ma diventerà Città metropolitana dal primo gennaio 2014; le rivali storiche, Pisa e Livorno, se ne dovranno fare una ragione e unirsi, come anche Siena e Arezzo.
Nel Lazio la presidente della Regione, Renata Polverini, contesta i criteri.
Anche qui la revisione dovrà essere una rivoluzione, con Latina che si potrebbe unire a Frosinone e Viterbo; Rieti e Civitavecchia che faranno assieme la Provincia della «Tuscia e Sabina».
E le Regioni a statuto speciale mettono le mani avanti, rivendicando la propria autonomia.
La Sardegna, per esempio, dove risponde ai requisiti solo Cagliari, prevede per legge tre Province: anche Sassari e Nuoro.
Tra le scelte obbligate, la neonata provincia BAT, Barletta, Andria e Trani (operativa solo dal 2009), farà con Foggia l’antica «Capitanata»; in Abruzzo la Provincia «Adriatica» metterà insieme Teramo, Pescara e Chieti.
In Lombardia, dove rimangono solo Brescia, Bergamo, Pavia, mentre Milano pure sarà Città metropolitana, nascerà la «Grande Brianza».
Alcune Province poi con territori molto piccoli, come Catanzaro e Campobasso, sono fatte salve perchè capoluogo.
Finita la riorganizzazione, i nuovi enti avranno funzioni di tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione territoriale, della viabilità e del trasporto provinciale. Perdendo quindi le competenze sul mercato del lavoro e l’edilizia scolastica.
Ed è su questo punto che l’Upi, pur apprezzando il gesto distensivo fatto dal governo decidendo di riordinare le Province e non abolirle, ora si aspetta un confronto e non è disposta a seppellire l’ascia.
Melania Di Giacomo
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
PER I MUSEI STATALI NON ESISTE UNA STIMA DEL VALORE DELLE OPERE POSSEDUTE… BENI FANTASMA E SPESE POCO TRASPARENTI
Il nome in codice era «Giacimenti culturali». E ancora oggi rimane un dubbio.
Al progetto di catalogazione del patrimonio artistico e monumentale italiano avevano dato quel nome consapevoli che si stava parlando del nostro petrolio, o perchè sapevano che l’operazione si sarebbe rivelata una miniera d’oro per società di informatica private?
Le tracce di tutti quei soldi (2.110 miliardi di lire, pari a circa 2,1 miliardi di euro di oggi) stanziati a partire dal 1986 (al governo c’era Bettino Craxi) si sono ormai perse. Ventisei anni dopo resta un’amara considerazione della Corte dei conti, rintracciabile a pagina 310 della memoria del procuratore generale Salvatore Nottola al giudizio sul rendiconto dello Stato approvato il 28 giugno: «Nonostante vari tentativi di giungere a una stima attendibile dei beni culturali, non esiste oggi una catalogazione definitiva specie per i reperti archeologici. Inoltre, per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute».
Molte delle quali, fra l’altro, restano chiuse nei magazzini.
Un caso?
Il museo più visitato d’Italia, e uno dei più frequentati del mondo, considerando il numero dei turisti in rapporto alla superficie.
Ovvero, la Galleria degli Uffizi di Firenze.
Ricorda però il giudice contabile Francesco D’Amaro, autore del capitolo sui beni culturali della memoria di Nottola, che il museo fiorentino espone al pubblico 1.835 opere mentre «ne conserva in deposito circa 2.300, offrendo in visione solo il 44%» di quelle possedute.
Problemi di spazi espositivi, ma non soltanto. E dire che gli Uffizi, secondo uno studio di The European house Ambrosetti, hanno una quantità di visitatori per metro quadrato quattro volte maggiore del Louvre (45,8 contro 11,8).
Anche se i numeri assoluti non sono certo confrontabili con quelli del museo parigino. L’anno scorso la Galleria degli Uffizi ha staccato un milione 369.300 biglietti, a cui si sono aggiunti 397.392 ingressi gratuiti. Incasso: 8,6 milioni di euro.
Al Louvre sono entrati invece in più di 8 milioni, per un introito superiore a 40 milioni.
C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza.
Troppi beni architettonici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare.
Dice sempre la Corte dei conti che abbiamo 3.430 musei, di cui 409 in Toscana, 380 in Emilia-Romagna, 346 in Lombardia, 302 nel Lazio.
Poi ci sono 216 siti archeologici, 10 mila chiese, 1.500 monasteri, 40 mila fra castelli, torri e rocche, 30 mila dimore storiche, 4 mila giardini, 1.000 centri storici importanti…
A tutta questa roba si devono aggiungere i 4.381 immobili del demanio storico artistico che sono utilizzati come uffici pubblici.
E di quelli, almeno, si conosce il valore esatto.
Sono a libro per 16 miliardi 697 milioni 86.283 euro.
Ovvio che tutto questo immenso patrimonio sia complicato da gestire. E che responsabilità nei confronti del resto del mondo, se si considera che l’Italia ha il maggior numero di beni tutelati dall’Unesco come patrimoni dell’umanità : 45 su 911.
Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è comunque sconfortante.
A cominciare dalla «diffusa perdurante carenza dello stato di manutenzione delle aree archeologiche, spesso oggetto di gestioni commissariali con possibilità di deroga rispetto all’ordinaria amministrazione, che determinano», sono parole della Corte dei conti, «poca trasparenza nelle procedure di spesa».
Un chiaro riferimento alla vicenda del commissariamento di Pompei, che era stato già bombardato di critiche dalla stessa magistratura contabile.
Ma i giudici, dopo aver concesso che causa di tale situazione sono anche i tagli al personale e alle risorse destinate alla manutenzione decisi dal ministero dell’Economia, non risparmiano nemmeno alcune soprintendenze, quando sottolineano «una certa incapacità di spesa degli organi periferici del ministero dei Beni culturali, che ha generato la formazione di una consistente giacenza di cassa, sia pure in parte determinata dalla lentezza delle procedure di gara e dal ritardo nell’accreditamento dei fondi statali».
Vero è che quando si devono fare le nozze con i fichi secchi non è sempre facile.
I fondi pubblici per i beni artistici e culturali sono ormai ridotti al lumicino: la Corte dei conti segnala che si è scesi allo 0,19% della spesa pubblica, contro lo 0,34% di «pochi anni fa» e lo 0,21% del 2010.
Questo mentre lo stato francese ha un budget cinque volte superiore al nostro (oltre 7 miliardi di euro contro 1,4 miliardi) e la Germania ha aumentato quest’anno gli stanziamenti del 7 per cento.
Non bastasse, se il dicastero del Collegio romano era stato risparmiato dai tagli «lineari» decisi dalle ultime manovre di Giulio Tremonti, ci ha pensato il governo di Mario Monti a pareggiare i conti con gli altri ministeri.
Dirottando alle carceri 57 dei 140 milioni dell’8 per mille destinati ai beni culturali con il decreto sull’emergenza delle prigioni approvato in fretta e furia alla vigilia di Natale del 2011.
Un giro di vite al quale non si è rimediato neppure in seguito.
A dispetto delle dichiarazioni ufficiali.
Da quando esiste il dicastero dei Beni culturali non c’è mai stato un ministro che non abbia detto pubblicamente come l’attuale, Lorenzo Ornaghi, «la cultura deve agire come volano reale per la crescita».
Ma la verità è probabilmente quella che si è fatta sfuggire il segretario generale del ministero Roberto Cecchi qualche mese fa, prima di essere nominato sottosegretario: «In Italia la cultura non è vista come uno strumento per lo sviluppo del Paese.
Ci s’inalbera contro il vandalismo, come contro i musei che non sono perfettamente all’altezza della situazione. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe».
Regola osservata anche in questa occasione.
Nel decreto sviluppo appena sfornato dal governo Monti, non c’è traccia di interventi per i beni culturali e il turismo.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
ASSEDIO ALLA BAIONETTA CONTRO TASSI E SPREAD… E I VENTISETTE NON HANNO PIU’ MUNIZIONI, RESTA SOLO LA BCE… OPPURE UN SALTO DI QUALITA’ DIFFICILE
Sui mercati la giornata è partita malissimo. I rendimenti decennali italiani sono più alti di
quelli dell’Irlanda che è sotto programma, ovvero è stata salvata.
E’ una situazione da Fort Alamo. In cui le truppe federali non arrivano, mentre Monti e Rajoy sono assediati come Davy Crockett.
Il vero problema è l’impasse. Nessun può fare un gran che.
Salvo una entità che non potrebbe farlo.
1) L’Italia ha scritto e approvato le riforme. Ha un avanzo primario significativo. Difficile chiederle altri tagli o interventi strutturali. Il dilemma è la stabilità politica che non si risolve in una settimana.
2) La Spagna ha avuto i soldi per risanare le banche. Ora lo farà . Coi soldi potrà intervenire sul secondario. Il programmo è condizionato. Altro non si può.
3) La Grecia non sta rispettando i conti. Non le si può chiedere nulla sinchè la Troika, che arriva domani ad Atene, non tornerà nella seconda metà di agosto. Impasse.
4) Il fondo salva stati temporaneo, Efsf, ha un centinaio di miliardi in tasca. Noccioline.
5) Il fondo salvastati permanente, Esm, è bloccato sino al 12 settembre in attesa della sentenza della Corte di Karlsruhe. E comunque, non avrà più 400 miliardi. E’ stata una burla metterci così pochi soldi dentro, lo hanno voluto i soldi tedeschi, finlandesi & Co. Ci hanno pure presi in giro dicendo che era un trilione di dollari. Come avere le porte di cartone nel regno dei ladri di appartamento.
6) I tedeschi continuano a rilasciare dichiarazioni inutili e pericolose sulla Grecia. Un buon tacer non fu mai detto. Dovrebbero farla finita.
7) Il meccanismo antispread non è un gran che. Ha un costo politico, deve essere autorizzato, è condizionato (flessibilmente) , prevede una vigilanza Ue/Bce. L’Italia potrebbe pure chiederlo, anche se Monti farà di tutto perchè non accada, ma non essendoci l’ESm, l’Efsf con 100 miliardi in cassa farebbe poco più di uno sternuto della zanzara.
In parole semplici, abbiamo poca scelta. Che fare?
1) Mettere la sordina ai ministri in campagna elettorale, ovvero far tacere tedeschi, olandesi etc, ma anche al Fmi. E ai funzionari tedeschi della commissione.
2) Mostrare un vero senso di compattezza europea. Uniti per fare la forza. E non il contrario
3) Lasciare che la Bce possa intervenire al momento peggiore. Senza dirlo, ovviamente.
4) Prendere tempo in questo modo sino a settembre, e decidere di raddoppiare Esm. Due trilioni per salvare l’Unione monetaria. Oppure organizzare uno dei più costosi funerali della storia.
Questa crisi è la peggiore che abbiamo mai visto.
Non c’è paragone fra gli eserciti in campo.
I mercati, oltretutto, sono compatti. I governi, inseguono le logiche di politica nazionale e perdono di vista il quadro generale.
Mentre crolla il dominio dei Galli, nessuno può sperare di essere il villaggio di Asterix.
Più l’Europa sarà divisa e più alto sarà il conto.
Questa mattina il messaggio è chiaro come non lo è mai stato.
Marco Zatterin
(da “La Stampa“)
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Luglio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
EMERGENZA STREAP: SFONDATI I 525 PUNTI… ALTA TENSIONE SUI TITOLI DI STATO… DA FMI E GERMANIA NO A NUOVI AIUTI O PROROGHE PER LA GRECIA
Sui mercati è un lunedì nero. Le Borse europee crollano e gli spread di Italia e Spagna schizzano a livelli record.
Ma dopo una mattinata da incubo Milano e Madrid arginano le perdetite che si attestano ora attorno ai due-tre punti.
Piazza Affari era arrivata a perdere oltre il 5%, con le banche in picchiata. Viaggiano in rosso anche Londra, Parigi e Francoforte.
A spaventare i governi è anche la tensione sempre altissima sui titoli di Stato: il differenziale tra il Btp e il Bund tedesco ha sfiorato questa mattina i 530 punti facendo salire ancora il rendimento dei titoli decennali italiani.
Male anche i Bonos spagnoli: lo spread viaggia attorno ai 630 punti con il rendimento dei titoli di Stato che tocca un nuovo record del 7,5% .
A fine mattinata è scesa in campo la Consob , che ha vietato le vendite allo scoperto nel tentativo di arginare la slavina. «Tenuto conto degli andamenti più recenti dei mercati azionari – si legge nel comunicato -, Consob ha deciso oggi di reintrodurre il divieto delle vendite allo scoperto sui titoli del settore bancario e assicurativo, indicati in allegato». Il provvedimento ha efficacia da oggi (ore 13:30) e resta in vigore fino alle ore 18:00 di venerdì.
Il divieto riguarda sia le vendite allo scoperto assistite dal prestito titoli sia quelle ‘nudè, già vietate dalla precedente delibera dell’11 novembre 2011.
Le piazze asiatiche hanno chiuso in profondo rosso.
L’euro è sceso sotto la soglia psicologica di 1,21 dollari, per la prima volta dal giugno 2010, e sotto i 95 yen, come non succedeva da 11 anni.
La moneta unica viene scambiata a 1,2099 dollari contro gli 1,2200 dollari delle quotazioni Bce di venerdì.
Sulla riapertura dei mercati pesa l’uno-due Spagna-Grecia.
Mentre a Madrid, infatti, si allunga la lista delle regioni a rischio default e proseguono le proteste, dal settimanale tedesco “Der Spiegel” arriva la notizia, da fonti «ufficiali» non meglio identificate dell’Ue, che il Fondo Monetario sarebbe intenzionato a bloccare gli aiuti alla Grecia con un probabile default del Paese a settembre.
Atene non ce la farebbe infatti a ridurre il debito al 120% del Pil entro il 2020 e mantenere i propri impegni sulle riforme.
Questo vorrebbe dire per i Paesi dell’Eurozona un ulteriore esborso in aiuti di 10-50 miliardi.
E nessuno sarebbe intenzionato a spendere ancora di più.
L’Ue non commenta: il portavoce del commissario agli Affari monetari Olli Rehn si limita a dire che «non sappiamo da dove vengano queste informazioni dello “Spiegel” su cui non facciamo commenti» ricordando inoltre che la nuova missione della troika incaricata di valutare la situazione di Atene non si è ancora messa in marcia e, ha ricordato Simon O’Connor, «deve partire martedì 24».
Ma da Berlino il ministro dell’Economia, Philipp Roesler, rilancia, dicendosi «più che scettico» sulla possibilità che Atene rispetti gli impegni: e «se la Grecia non soddisfa i requisiti chiesti, non ci potranno essere più risorse verso il Paese», spiega.
«Per me un’uscita della Grecia non rappresenta più da tempo uno spauracchio», aggiunge il ministro, secondo il quale bisogna tuttavia attendere la prossima missione ad Atene della troika composta dai rappresentanti di Ue, Bce e Fmi.
Gli esperti della troika sono attesi ad Atene questa settimana per un esame approfondito del programma economico del nuovo governo greco.
Il loro rapporto sarà determinante per la concessione del nuovo prestito da 31,5 miliardi di euro previsto per settembre.
Tutti guardano ora anche alla Bce.
Il presidente, Mario Draghi, cerca di tenere le fila: «L’euro è irreversibile» – spiegava ieri – e non c’è un pericolo «esplosione» dell’unione monetaria. Ma l’Eurotower – sottolineava anche – non ha il mandato di risolvere i problemi finanziari degli Stati, ricordando anche il recente taglio del costo del denaro.
Mentre in Italia il direttore generale del Tesoro, Annamaria Cannata, rassicurava sul buon andamento delle ultime aste. In attesa che il 12 settembre la Corte costituzionale tedesca si pronunci sul meccanismo di difesa europeo iniziando così il percorso per innescarlo in caso di attacchi speculativi, il premier Mario Monti agisce su due fronti: estero e interno.
Il Professore ha già iniziato il suo “road show” da Mosca dove incontrerà le massime cariche ma anche gli imprenditori. Poi volerà in Finlandia, per cercare di superare le «resistenze» del Paese, spiegava Monti, infine in Spagna.
In Italia, in mancanza della rete di protezione europea, molti sperano comunque in un intervento in caso di attacchi, il governo si preparerebbe a fronteggiare l’agosto bollente con un’ulteriore sforbiciata alla spesa tra i 6 e gli 8 miliardi.
Il menù del terzo step della spending review sarebbe pronto: taglio ai trasferimenti ai partiti e ai sindacati, revisione degli sconti fiscali, taglio e razionalizzazione degli aiuti alle imprese, ulteriore intervento sul pubblico impiego e un dettagliato pacchetto di dismissioni.
Il Parlamento è già preallertato.
Ma se i Palazzi dovranno aprire a metà agosto si saprà solo a partire da domani e molto dipenderà appunto dall’andamento dei mercati.
La situazione è ‘esplosivà anche se il Tesoro, grazie al buon andamento delle entrate, ha cancellato l’asta di titoli di agosto prendendo così un pò di tempo in più.
Gli spread di Spagna e Italia venerdì si sono impennati fino a toccare i 610 e i 500 con rendimenti altissimi del 7,2% e del 6,1% e le borse hanno chiuso a picco.
(da “La Stampa“)
argomento: economia, emergenza | Commenta »