Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
LA SOGLIA DI POVERTA’ RELATIVA PER UNA FAMIGLIA DI DUE COMPONENTI E’ PARI A 1.011,03 EURO… LA SITUAZIONE PEGGIORA TRA LE FAMIGLIE DI OPERAI… AL SUD POVERA UNA FAMIGLIA SU QUATTRO
Nel 2011 l’11,1% delle famiglie è relativamente povero (per un totale di 8.173mila persone) e il 5,2% lo è in termini assoluti (3.415 mila).
La soglia di povertà relativa, per una famiglia di due componenti, è pari a 1.011,03 euro.
Lo rileva l’Istat nel rapporto sulla povertà in Italia.
La sostanziale stabilità della povertà relativa rispetto all’anno precedente deriva dal peggioramento del fenomeno per le famiglie in cui non vi sono redditi da lavoro o vi sono operai, compensato dalla diminuzione della povertà tra le famiglie di dirigenti/impiegati.
Segnali di peggioramento si osservano, tuttavia, tra le famiglie senza occupati nè ritirati dal lavoro, famiglie cioè senza alcun reddito proveniente da attività lavorative presenti o pregresse, per le quali l’incidenza della povertà , pari al 40,2% nel 2010, sale al 50,7% nel 2011.
I tre quarti di queste famiglie risiedono nel Mezzogiorno, dove la relativa incidenza passa dal 44,7% al 60,7%.
Un aumento della povertà si osserva anche per le famiglie con tutti i componenti ritirati dal lavoro (dall’8,3% al 9,6%), che, in oltre il 90% per cento dei casi, sono anziani soli e coppie di anziani; un leggero miglioramento, tra le famiglie in cui vi sono esclusivamente redditi da pensione, si osserva solo laddove la pensione percepita riesce ancora a sostenere il peso economico dei componenti che non lavorano, tanto da non indurli a cercare lavoro (dal 17,1% al 13,5%).
Una dinamica negativa si osserva anche tra le famiglie con un figlio minore, in particolare coppie con un figlio (a seguito della diminuzione di quelle in cui entrambi i coniugi sono occupati e dell’aumento di quelle con uno solo e con nessun occupato), dove l’incidenza di povertà relativa dall’11,6% sale al 13,5%; la dinamica è particolarmente evidente nel Centro, dove l’incidenza tra le coppie con un figlio passa dal 4,6% al 7,3%.
Sud povera una famiglia su quattro.
Quasi una famiglia su quattro pari al 23,3% risultata povera al Sud nel 2011.
Tra queste l’8% è stata colpita da povertà assoluta vale a dire con un tenore di vita che non permette di conseguire uno standard di vita minimamente accettabile.
L’istituto nazionale di statistica evidenzia inoltre come a fronte della stabilità della povertà relativa al Nord e al Centro, nel Mezzogiorno si osserva un aumento dell’intensità della povertà relativa: dal 21,5% al 22,3%.
In questa ripartizione la spesa media equivalente delle famiglie povere si attesta a 785,94 euro (contro gli 827,43 e 808,72 euro del Nord e del Centro.
Ad eccezione dell’Abruzzo, dove il valore dell’incidenza di povertà non è statisticamente diverso dalla media nazionale, in tutte le altre regioni del Mezzogiorno la povertà è più diffusa rispetto al resto del Paese.
Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Sicilia (27,3%) e Calabria (26,2%), dove sono povere oltre un quarto delle famiglie.
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
IL DATORE DI LAVORO DOVRA’ PAGARE UN CONTRIBUTO DI 1.000 EURO
A settembre via alla nuova sanatoria un mese per regolarizzare i clandestini
Il datore di lavoro dovrà pagare un contributo di mille euro
Lavora per voi una colf irregolare? Occupate in nero un muratore clandestino?
La data è fissata. Comincia il conto alla rovescia.
Il primo settembre scatta il “ravvedimento operoso” per chi dà lavoro a immigrati senza documenti.
È la regolarizzazione 2012: per un mese i datori di lavoro “opachi” potranno uscire dall’illegalità e migliaia di invisibili potranno quindi lavorare alla luce del sole.
Una rivoluzione per il pianeta immigrazione, popolato in Italia da mezzo milione di irregolari.
La sanatoria è contenuta nella norma transitoria approvata il 6 luglio scorso con la “legge Rosarno”: il decreto legislativo che introduce pene più severe per chi impiega stranieri irregolari e un permesso di soggiorno per l’immigrato che denuncia uno sfruttamento grave.
La norma transitoria prevede invece il “ravvedimento operoso”: i datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze extracomunitari irregolari potranno dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro allo Sportello unico per l’immigrazione.
Tradotto: potranno regolarizzarli.
Per operai, muratori, colf e badanti un’occasione di uscire dal “nero”: è dalla sanatoria del 2009 (per altro limitata a colf e badanti) che non si apriva una tale finestra.
Allora le domande arrivarono a quota 295.112. In un incontro della scorsa settimana, i tecnici dei ministeri dell’Interno, del Lavoro e della Cooperazione hanno cominciato a stabilire i dettagli della procedura di emersione.
Secondo le prime indiscrezioni, la regolarizzazione si aprirà a fine estate.
Per l’esattezza le domande dei datori di lavoro dovranno essere presentate, con modalità informatiche, dall’1 al 30 settembre 2012.
Si dovrà auto-certificare la presenza del migrante irregolare sul territorio italiano prima del 31 dicembre 2011.
Questo è il punto più delicato e sul quale si sta ancora discutendo: bisogna infatti evitare che la notizia della regolarizzazione scateni ingiustificati arrivi di nuovi irregolari.
Il datore di lavoro dovrà pagare un contributo forfettario di 1.000 euro, «previa regolarizzazione delle somme dovute a titolo retributivo, contributivo o fiscale».
Ma non tutti rientreranno nella sanatoria.
Gli esclusi? I datori di lavoro che risultino condannati negli ultimi 5 anni con sentenza anche non definitiva per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, così come i lavoratori colpiti da provvedimenti di espulsione, condannati o segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato italiano.
Vladimiro Polchi
(da “La Repubblica“)
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
DIVISI ALLA META… IL PARTITO DELLE BEGHE
Sono bastati pochi minuti per trascinare il “Partito che ancora non c’è”, il Pd, in una guerra civile con effetti disorientanti e dilaceranti anche sull’opinione pubblica (con un’inutile postilla di volgarità berlusconiana made in Grillo).
Colpa del vecchio vizio Pci di immaginare una “sintesi” prevalente sul confronto negli organi assembleari, colpa dell’antico vizio democristiano di pensare alle leggi eticamente sensibili sotto la costante preoccupazione di non dispiacere alla gerarchia ecclesiastica.
Non è questo il partito che voleva l’opinione progressista, quando si profilò l’unione delle forze di tradizione socialista con i cattolici democratici e i liberaldemocratici riformisti.
Quello che tanti si aspettavano (e si aspettano — ed è perciò che il Pd non compie quel balzo in avanti nei sondaggi possibile dopo il fallimento del berlusconismo) è un partito laico e progressista.
Dove sui diritti civili si decide alla luce del sole, lasciando che le opzioni presenti nell’opinione pubblica si esprimano e vengano pesate in piena libertà .
Ha ragione Rosy Bindi a ritenere che la sua mozione rappresenti un notevole passo in avanti rispetto al pasticcio dei Dico.
Ma è il punto di partenza a essere basso: l’aver ceduto a suo tempo al ricatto di Rutelli e di Paola Binetti, che impedirono all’Ulivo di battersi con convinzione per l’affermazione di una legge sulle unioni civili, battendo in ritirata dinanzi all’offensiva del cardinale Ruini.
È comprensibile che vi siano nel Pd, come nel Paese, quanti ritengono che culturalmente e storicamente il concetto del “matrimonio” si sia forgiato nella visione di un nucleo familiare formato da genitori e figli.
Ma proprio per questo bisogna lasciare che le diverse proposte si confrontino nel voto assembleare. Paola Concia, nell’esigerlo, ha dietro di sè tutta l’opinione democratica. Non a caso, sabato scorso, un vecchio lupo di assemblee, come l’ex segretario della Cisl Franco Marini, mormorava irritato durante la bagarre in casa Pd che era infantile non mettere al voto le diverse mozioni.
La Costituzione, sia detto per inciso, non c’entra niente.
Tutte le costituzioni dell’Ottocento (quelle americane risalgono addirittura al Settecento) sono state scritte nel solco del matrimonio tradizionale, ma questo non blocca l’evoluzione del sentire comune.
Semmai la Costituzione impegna giustamente a favorire con ogni mezzo la cellula sociale costituita intorno alle giovani generazioni.
Ma soprattutto, il Pd deve uscire dal guado e rendersi conto fino in fondo che la società italiana ha maturato in questi anni una serie di convincimenti non ideologici, ma molto precisi, sul nascere, il vivere insieme, il fine vita, che sono sideralmente lontani dai diktat vaticani.
Non aver colto al balzo le integrazioni della mozione di Ignazio Marino sulla chiara equiparazione di trattamento giuridico delle coppie etero e omosessuali, sulla necessità di rielaborare la legge sulla fecondazione artificiale e sul pieno diritto del paziente di decidere lui — e solo lui — l’interruzione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiali, è stato un grave errore.
Laici e cattolici hanno un enorme campo di collaborazione dinanzi a sè.
Da una seria politica per gli immigrati alla salvaguardia del lavoro e dei suoi diritti, alla visione di un’economia globalizzata dal volto umano, alla tutela della famiglia fino alla non commerciabilità degli embrioni e del corpo umano.
Sulle questioni dei diritti e sui temi della vita e della morte e delle relazioni personali gli italiani e gli stessi cattolici del quotidiano, gelosi della loro libertà di coscienza, chiedono chiarezza.
Quel “Sì, sì (o) no, no” che risuona nelle pagine del Vangelo.
Marco Politi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
IL VIMINALE: DA NOI AVRANNO SOLO IL PERSONALE ARMATO, AL RESTO PENSINO CAMERA E SENATO
I parlamentari con la scorta si procurino auto e autista, il Viminale metterà a disposizione solo il personale armato addetto alla sicurezza.
La spending review non risparmia la “casta”.
E ora il ministero dell’Interno dà un taglio ai costi della politica, in particolare a quelli per la tutela di senatori e parlamentari.
Va detto che i senatori scortati, a oggi, sono 26, i deputati 44.
Tra tutti questi settanta, 20 tutele sono dedicate ancora a ex ministri e sottosegretari del dimissionario governo Berlusconi che avevano beneficiato delle misure di protezione per gli incarichi istituzionali che avevano ricoperto.
Fra questi, ad esempio, l’ex ministro dell’Interno Maroni e l’ex Guardasigilli Alfano.
Ma settanta parlamentari da scortare sono davvero troppo onerosi per il bilancio dello Stato, oltretutto nel momento in cui il ministro dell’Interno Cancellieri ha in programma una riduzione entro il 2015 di 7 mila agenti.
Taglio che, sommato all’attuale carenza di personale, farà crescere il vuoto di organico della Polizia – stando ai dati dell’Associazione Funzionari – a meno 22 mila uomini. E così, per far fronte alla doppia emergenza (scarsezza di risorse finanziarie e umane) il titolare del Viminale ha deciso di estendere anche a Camera e Senato una circolare che prevede che auto e autista siano messi a disposizione o dall’interessato, oppure dall’amministrazione di appartenenza dello “scortato”.
Nel caso dei parlamentari, dunque, l’onere dovrebbe spettare a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Il presidente Fini ha fatto sapere, tuttavia, che la Camera può mettere a disposizione solo cinque vetture con relativi autisti, tra queste, in particolare, per la stessa Presidenza, per l’Antimafia e per il Copasir.
Per i restanti 39 deputati, i costi rimbalzano alla competenza dei rispettivi Gruppi politici di appartenenza.
Ma qui la spending review s’è imbattuta in un improvviso quanto imprevisto ostacolo: le casse vuote dei partiti.
«È sacrosanto – dichiara Emanuele Fiano, responsabile sicurezza per il Pd, uno dei deputati sotto scorta – che in tempi di razionalizzazione della spesa pubblica, il Viminale, che ha sopportato negli ultimi anni ingenti riduzioni di risorse (tagli per 2 miliardi e 400 milioni,ndr), chieda un aiuto ad altre amministrazioni ».
«Nel caso delle scorte – ha aggiunto – mi auguro che, a partire dal sottoscritto, i prefetti e il ministro rivedano tutti i casi degli scortati nel dettaglio, per verificare se sussistano ancora per tutti i parlamentari le condizioni per essere scortati».
Per quanto riguarda il contributo dei Gruppi, tuttavia, Fiano precisa, almeno per quanto riguarda il Pd, che «non ci sono più risorse per finanziare auto blindate e autisti. Tutti i soldi infatti vengono spesi per il personale del Gruppo, pubblicazioni e ricerche».
Stessa situazione, per gli altri partiti.
Come uscire da questa impasse? Il Viminale, sul punto, ha una posizione politica di fermezza.
Ove venga acclarata da parte dei Prefetti l’impossibilità di Camera e Senato di provvedere, il servizio di scorta continuerà ad essere assicurato dal Viminale.
Sempre, ovviamente, a spese del contribuente.
Alberto Custodero
(da “La Repubblica”)
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
TERAMO E SULMONA LE CARCERI DEI SUICIDI: 25 CASI IN SETTE ANNI
Si è suicidato impiccandosi con i lacci delle scarpe nella Casa di reclusione di Carinola, nel casertano, il “pentito” di camorra Angelo Ferrara, di 41 anni.
Alle 11 di ieri mattina gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno trovato riverso a terra, senza vita, coi lacci stretti intorno al collo.
Sul corpo, secondo i primi rilievi, nessun segno di colluttazione.
La salma è stata trasferita presso il dipartimento di medicina legale dell’ospedale di Caserta, dove sarà effettuata l’autopsia disposta dal magistrato di turno.
Le dichiarazioni di Ferrara, nel 2008, avevano portato alla condanna di numerosi esponenti della camorra napoletana afferenti al clan Moccia di Afragola (Na).
Posto in “programma di protezione” dalla apposita Commissione del ministero degli Interni si stabilisce con una nuova identità a Ronchi dei Legionari (Gorizia).
Ma il 27 maggio 2009, con dei complici, compie una rapina alla filiale del Monte dei Paschi di Siena di Portogruaro (Ve) e nel settembre 2010 rapina altre due banche di Rimini: scoperto grazie alle immagini riprese dalle telecamere istallate negli istituti di credito si vede revocare il “programma di protezione” e finisce detenuto a Carinola, dove ieri appunto si è tolto la vita.
Il precedente suicidio nell’Istituto di pena di Carinola risale al 28 novembre 2010, quando ad impiccarsi fu il 53enne Rocco D’Angelo.
Ma quello di Angelo Ferrara è solo l’ultimo in ordine di tempo tra i suicidi nelle carceri italiane. A fare un resoconto è l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, a cura di Radicali Italiani, Associazione “Il Detenuto Ignoto”, Associazione “Antigone”
Dall’inizio del 2012 sono 31 i detenuti suicidi.
Il più giovane dei detenuti che si sono uccisi aveva soltanto 21 anni (Alessandro Gallelli, morto il 14 febbraio nel carcere di Milano San Vittore), il più “anziano” 58 (Giuseppe Cobianchi, morto nel carcere di Milano Opera).
L’età media dei detenuti suicidi è di 37,7 anni, 10 erano stranieri e 21 italiani, 3 le donne (Tereke Lema Alefech, morta a Teramo; Claudia Zavattaro, a Firenze e Alina Diachuk, a Trieste).
L’enigma delle morti per “cause da accertare.
”I dati del Ministero della Giustizia sulle morti in carcere contemplano soltanto due “categorie”: i “suicidi” e le morti per “cause naturali” (oltre a quella degli “omicidi”, che fortunatamente sono eventi rari nell’attuale sistema penitenziario: 1 o 2 all’anno).
“Tra le morti per ‘cause naturali’ — spiega l’Osservatorio – sono classificati anche i decessi causati da overdose di farmaci e droghe, da scioperi della fame portati alle estreme conseguenze, da ‘lesioni’ di origine non chiara.
E su questo ultimo aspetto si concentra spesso l’attenzione della magistratura e dei media, basti pensare a nomi come Stefano Cucchi, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino…
Quindi un tentativo di ‘sballarsi’ che si conclude male… e invero la pratica di inalare il gas delle bombolette da camping è diffusa tra i detenuti tossicodipendenti, ma negli ultimi mesi sono morte così persone che non avevano ‘problemi di droga’: da Giampiero Converso nel carcere di Busto Arsizio (ex appartenente alla ndrangheta, era collaboratore di giustizia), a Sandro Grillo nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto”.
Casi perlomeno “dubbi”, secondo l’Osservatorio, e spesso all’inchiesta della magistratura si aggiunge quella “interna” dell’amministrazione penitenziaria, ma in mancanza di prove certe dell’intenzione suicidaria (ad esempio un biglietto di addio scritto dal detenuto) si concludono nel solo modo possibile, con l’accertamento della morte ‘naturale’.
“Il dubbio che abbiamo — affermano i responsabili dell’Osservatorio sulle morti in carcere – è che in Italia il numero dei suicidi in carcere sia sottostimato da sempre; ‘prove certe’ non ne abbiamo, ma abbiamo individuale almeno un ‘indizio’ che meriterebbe un approfondimento: negli ultimi 12 anni nelle carceri italiane sono morte più di 2 mila persone (di cui circa 700 per suicidio) e la loro età media (38,5 anni) è di poco superiore a quella dei suicidi (37 anni). Perchè muoiono così tanti detenuti giovani e giovanissimi?
Tutti per ‘sballo da gas’?
Teramo e Sulmona, le “carceri dei suicidi”
Il carcere dove nel 2012 si è registrato il maggior numeri di suicidi è Teramo (3 casi: Tereke Lema Alefech, il 29 giugno, Mauro Pagliaro, il 28 giugno e Gianfranco Farina il 2 febbraio).
L’Istituto di pena teramano (270 posti e 430 detenuti presenti), assieme a quello Sulmona (250 posti e 450 detenuti presenti) detiene il triste record delle morti violente tra i detenuti: negli ultimi 7 anni a Teramo si sono verificati 11 suicidi e 2 decessi per “cause da accertare”, mentre a Sulmona 10 suicidi e 3 decessi per “cause da accertare”.
“Per avere un termine di paragone — conclude l’Osservatorio – nel carcere di Poggioreale, dove sono ristretti mediamente 2 mila detenuti, dal 2005 ad oggi sono avvenuti 7 suicidi e 3 decessi per ‘cause da accertare’”.
(da “il Redattore Sociale“)
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
CHI SPERAVA NEL RINNOVAMENTO POLITICO SI RITROVA CON LA RIPROPOSIZIONE DI BERLUSCONI E DELLE BEGHE NEL PD…. E I GIOVANI SONO AMMESSI SOLO AL “SERVIZIO” DEI VARI PARTITI, MAI COME PROTAGONISTI
Qualche mese fa, con l’epilogo del governo Berlusconi e la rinuncia di maggioranza e opposizione a nuove elezioni, tutti pensammo che un’epoca si stesse chiudendo. Pensavamo che quella scelta fosse il preludio di una grande fase di riorganizzazione e rinnovamento politico: nuova legge elettorale, nuovi leader, nuovi programmi, nuova fase politica.
Qualcuno parlava addirittura di una terza repubblica alle porte.
Ma finora non è stato così.
E basta vedere come i partiti hanno usato questi mesi e come si stanno muovendo oggi, per capire che non accadrà nemmeno nel tempo che ci resta da qui alla primavera 2013.
Berlusconi ha appena annunciato che si ricandiderà come leader del Pdl, mentre il partito democratico sta di nuovo temporeggiando sul tema primarie.
Alla vigilia dell’assemblea nazionale del Pd di venerdì in cui il tema è esploso in maniera più virulenta,
Franceschini aveva dichiarato che le modalità per identificare il candidato premier sono ancora da decidere e che, se proprio si dovessero fare le primarie, Bersani sarebbe «il» candidato del Pd (come se eventuali altri membri del Pd che decidessero di presentarsi alle primarie fossero i candidati di qualche altro partito).
Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano.
E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso.
Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta.
Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purchè si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea.
E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV.
Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo.
Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari.
Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti.
Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo.
Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente.
Ma se nemmeno dissentire e proporre, se nemmeno costruirsi un profilo autonomo e di valore nelle amministrazioni locali o nelle professioni serve per legittimarsi nelle dinamiche partitiche, cosa devono fare i giovani e i rinnovatori di ogni età per poter cambiare davvero qualcosa?
E’ davvero difficile dare una risposta a questo interrogativo.
Ma di fronte alla situazione attuale sembrerebbe che l’unica alternativa per rompere l’arroganza di chi si crede ancora il padrone del pollaio, sia uscire dal recinto e provare a costruire qualcosa di nuovo con quello che il mondo fuori dai vecchi partiti ha da offrire: nuove esigenze, idee e risorse.
Un percorso difficile, che richiederà a questi rinnovatori di smettere i panni dei ribelli rompiscatole e di indossare quelli dei leader a tutto tondo, con i rischi e le responsabilità che cio’ comporta.
Un percorso che potrebbe anche non portare i risultati sperati, ma che almeno darà agli italiani quello che oggi non hanno: una scelta.
Irene Tinagli
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
“LA SIGNORA MINETTI E’ UNA SPLENDIDA PERSONA, INTELLIGENTE, PREPARATA, SERIA. SI E’ LAUREATA CON 110 E LODE, SI E’ PAGATA GLI STUDI LAVORANDO, E’ DI MADRELINGUA INGLESE”: QUANDO SILVIO LA PENSAVA COSI’
Riuscirà il sacrificio della capretta espiatoria da parte del capro espiatorio a raddrizzare le sorti del Super Capro Espiatorio?
Il gioco intorno alle responsabilità a scalare di Nicole Minetti, Angelino Alfano e Silvio Berlusconi è tutto dentro la tradizione.
Ma certo, per quanto la politica non sia «un gioco di signorine», ha qualcosa di indecente.
Più indecente, se possibile, delle notti di bunga bunga.
Il ricorso alla vittima sacrificale citato nel Levitico («Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati…») è stato usato mille volte come via d’uscita.
Lo scrisse anche Indro Montanelli: «Quello di buttar tutto addosso a un capro espiatorio è un metodo di risolvere i problemi molto italiano».
Qualcuno ha vissuto l’evento con dignitoso fatalismo, come il tesoriere dc Severino Citaristi, uomo perbene coinvolto nel meccanismo perverso dei finanziamenti illegali: «No, guardi, la colpa è solo mia, gli altri non mi hanno scaricato addosso nulla. Sono io che ho trasgredito la legge».
Altri hanno strillato rifiutando, a ragione o a torto, di prendersi tutte le colpe di errori o reati, casomai, collettivi.
Si pensi ai lamenti di Giovanni Leone, Achille Occhetto o Bettino Craxi che disegnava ad Hammamet vasi grondanti sangue tricolore e giù giù di decine di comprimari.
Da Maurizio Gasparri quando fu depennato come ministro («Sono stato un capro espiatorio. Mi sento come Isacco, che fu scelto. Ma poi intervenne Dio in persona per salvarlo») a Sandro Bondi («Non merito la mozione di sfiducia individuale. Sono un ministro sotto accusa per il crollo di un tetto in cemento armato costruito negli anni 50 ma nessuno si ricorda dei “no” che ho detto per fermare scempi e abusi»), da Alfonso Papa a Luigi Lusi che si auto-commisera sempre così: «Un capro espiatorio».
Poche volte come negli ultimi tempi, forse a causa della crescente personalizzazione della politica, c’è stato un abuso della scelta di scaricare tutto su chi più era o pareva indifendibile.
Basti ricordare il caso della Lega.
Dove per salvare il più possibile Umberto Bossi sono stati scaricati via via Renzo «Trota» obbligato a dimettersi dal Consiglio regionale, Rosi Mauro spinta a dimettersi da vicepresidente del Senato e poi espulsa, Francesco Belsito prima benedetto dal Senatur come «un buon amministratore che ha scelto bene come investire i soldi» poi maledetto come un appestato infiltrato nel Carroccio dalla ‘ndrangheta.
Il punto è che come c’è sempre più puro che ti epura, anche nel comparto dello scaricabarile esiste la categoria della vittima sacrificale a cascata.
Un esempio?
La scelta, mesi fa, di scaricare Marco Milanese, il collaboratore assai chiacchierato di Tremonti, al posto dell’allora ministro dell’Economia, a sua volta individuato dal Cavaliere e dai suoi fedelissimi come l’uomo da additare come il principale colpevole della mancata realizzazione del grande sogno berlusconiano.
Una citazione per tutte, la lettera di Bondi al Foglio: «Tremonti ha minato alla radice, fin dal primo momento, la capacità del governo di affrontare la crisi secondo una visione d’insieme…».
Ricordate l’aria che tirava nell’autunno scorso?
Da Fabrizio Cicchitto ad Altero Matteoli, da Margherita Boniver a Saverio Romano fino a Luca Barbareschi la destra intera era in trincea nel rifiutare che tutte le responsabilità e tutte le colpe e tutti i peccati della crisi fossero rovesciati sull’ex San Silvio da Arcore.
Un’immagine che Giuliano Ferrara fotografò così: «Berlusconi è in carica ma è l’ombra di se stesso. Nei suoi occhi e nel suo sorriso immortale si legge ormai la malinconia del capro espiatorio».
È perciò paradossale che a distanza di pochi mesi, dopo aver denunciato perfino in aula alla Camera il suo rifiuto di assumere quel ruolo così fastidioso, il Cavaliere abbia poi scelto di scaricare a sua volta il tracollo del partito sul capro espiatorio Angelino Alfano.
E ancora più surreale che questi abbia individuato in Nicole Minetti, che fu imposta nel listino di Roberto Formigoni, la sub-capra espiatoria da sacrificare di colpo, «entro due giorni», per dare una rinfrescata all’immagine e rilanciare il Pdl o quel che ne sarà l’erede.
È probabile che i sondaggi abbiano individuato nella disinibita deputata regionale lombarda, celeberrima per quei messaggini hot («più troie siamo più bene ci vorrà …») una zavorra fastidiosa per il decollo del nuovo aquilone berlusconiano.
Lo stesso Cavaliere però, ricorda un diluvio di messaggi online, nella famosa telefonata all’«Infedele» di Gad Lerner, urlò: «La signora Nicole Minetti è una splendida persona intelligente, preparata, seria. Si è laureata con il massimo dei voti, 110 e lode, si è pagata gli studi lavorando, è di madrelingua inglese e svolge un importante e apprezzato lavoro con tutti gli ospiti internazionali della regione». Insomma, una giovine statista dal luminoso avvenir.
Delle due l’una: o era tutto falso (comprese le definizioni sulle «cene eleganti») o era tutto vero.
E allora nell’uno come nell’altro caso scegliere oggi la Minetti come vittima sacrificale, per quanto l’insopportabile signorina se le sia tirate tutte, sembra una piccineria non proprio da gentiluomini…
Gian Antonio Stella
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
IL PARERE DELL’EX PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DOCENTE DI DIRITTO COSTITUZIONALE PRESSO L’UNIVERSITA’ DI MILANO
Valerio Onida, professore di Diritto costituzionale presso l’Università di Milano, è stato presidente della Corte Costituzionale e attualmente presiede la Scuola superiore della magistratura.
Quindi si trova in una posizione privilegiata per dare un giudizio sull’iniziativa del Quirinale di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura di Palermo.
Cosa ne pensa?
«Quella del Quirinale è un’iniziativa volta a fare chiarezza. E l’unica autorità che può chiarire è la Consulta: è solo la Corte a poter dire qual è la via corretta da seguire, in base alla legge, nel rapporto tra i due poteri. Il presidente Napolitano, nel decreto con cui viene sollevato il conflitto, non mostra alcun interesse diretto, ma sostiene che se lui tacesse si potrebbe precostituire un precedente suscettibile in futuro di incidere sulle prerogative del capo dello Stato».
Quali prerogative?
«La legge 219 dell’89 esplicitamente prevede che il presidente della Repubblica non possa essere sottoposto a intercettazione se non dopo essere stato sospeso dalle funzioni nel procedimento d’accusa previsto dall’articolo 90 della Costituzione, cioè per alto tradimento o attentato alla Costituzione».
Anche nelle indagini di Palermo siamo al solito problema delle cosiddette intercettazioni indirette…
«Il divieto previsto dalla legge per il capo dello Stato è assoluto. In ogni caso sarà la Corte a stabilire se tale divieto comporta anche la totale inutilizzabilità e l’obbligo di distruzione immediata delle conversazioni intercettate occasionalmente su altre utenze».
Non vede il pericolo che questo conflitto possa estendere le sue conseguenze ad altre cariche, ad esempio, il presidente del Consiglio?
«No, non credo proprio, perchè la disciplina per i componenti del governo è completamente diversa da quella per il capo dello Stato. Per loro, se indagati per reati ministeriali, non c’è divieto di intercettazione, ma una procedura autorizzativa della Camera di appartenenza o del Senato, se non parlamentare».
Ci sono precedenti nei quali il Quirinale ha sollevato un conflitto?
«Questa è la terza volta. Il primo caso è del 1981. Anche se allora il Quirinale agì insieme agli altri organi costituzionali contro la Corte dei Conti che voleva estendere la sua giurisdizione anche ai bilanci dei vertici dello Stato. Il secondo conflitto fu sollevato dall’allora presidente Ciampi. La Corte, allora, affermò che in materia di concessione della grazia, il ministro della Giustizia non può denegare la sua controfirma all’atto di clemenza presidenziale».
M. Antonietta Calabrò
(da “Il Corriere della Sera“)
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Luglio 17th, 2012 Riccardo Fucile
O CI SI TROVA DI FRONTE AL REATO DI ALTO TRADIMENTO E ALLORA LA DENUNCIA ANDAVA PASSATA AI PRESIDENTI DI CAMERA E SENATO O IN ASSENZA DI REATO LE INTERCETTAZIONI ANDAVANO SUBITO DISTRUTTE
Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare.
Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze.
E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti.
Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi.
Eppure c’è un che d’eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo.
Perchè esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia.
Perchè stavolta il capo dello Stato – a differenza del suo predecessore – rischia d’incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicchè sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio.
Perchè infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.
Domanda: ma è possibile intercettare il presidente?
La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni.
Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l’impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall’ufficio; quando intervenga un’autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa.
Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino.
Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finchè lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.
Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea.
Primo: nessuna intercettazione diretta sull’utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l’ex ministro Mancino.
Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti.
Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perchè possono servire nei confronti di Mancino, e perchè in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l’udienza stralcio regolata dal codice di rito.
Deciderà , com’è giusto, la Consulta.
Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell’intercettazione.
Perchè delle due l’una: o quest’ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione.
Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali.
Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale).
E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato.
In quell’occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette.
Perchè ne va dell’istituzione, non della persona.
Le persone passano, le istituzioni restano.
Michele Ainis
(docente di diritto pubblico univ. di Roma)
(da “Il Corriere della Sera”)
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